Maurizio Blondet
29/03/2006

Nel 1918 l'epidemia d'influenza detta «spagnola» infettò un quarto della popolazione mondiale e uccise tra i 40 e i 50 milioni di uomini nel mondo, una strage superiore a quella della Grande Guerra appena conclusa.
Ora il virus responsabile di quella che fu forse la più grande epidemia della storia è ricomparso sulla terra.
Non per opera della natura, ma dei laboratori militari USA.
Da anni gli scienziati militari americani cercavano di farlo rivivere.
A questo scopo sono andati in Islanda per dissotterrare cadaveri di vittime della «spagnola» ben conservati nel terreno ghiacciato (permafrost).
E dai polmoni dei morti hanno estratto parti del DNA del virus.
Solo parti di un patrimonio genetico formato da soli otto geni.
Ma ora il dottor Jeffrey Taubenberger e il suo gruppo - che lavora per l'Istituto di Patologia delle Forze Armate USA - ha annunciato il suo trionfo: non solo è riuscito a ricostruire l'intero patrimonio genetico del virus letale, anche nelle sue parti mancanti, ma anche a «riportarlo in vita».



Per ora hanno provato il virus su un topo.
L'animaletto è morto nei laboratori del Center for Disease Control (CDC) di Atlantas, suscitando le grida di giubilo dei ricercatori: il loro virus «funziona» come quello del 1918.
Lo scopo della ricerca, dicono ora i trionfatori, è di apprendere meglio come prevenire le nuove pandemie, quali l'influenza aviaria che per ora è confinata a certi uccelli.
Di fatto, i ricercatori militari hanno constatato che il virus della spagnola ha caratteristiche uniche e diverse da ogni altro vettore pandemico.
I virus che provocano l'influenza umana, relativamente benigni, possono provocare una pandemia quando ne appare (o ne muta) uno che ha caratteri abbastanza diversi da «sorprendere», diciamo così, le difese immunitarie dell'uomo.
Così accadde nella pandemia influenzale del 1957, che uccise due milioni di persone, e nel 1968, quando ne uccise un milione.
In entrambi i casi, un ceppo di virus dell'influenza umana acquisì alcuni geni di un virus aviario, diventando capace di infettare l'uomo, senza che questi ne avesse l'immunità.
Il virus del 1918 era di tipo totalmente diverso.
«Pensiamo si tratti di un virus aviario del tutto nuovo, che ha infettato l'uomo direttamente, senza mescolare il suo patrimonio con un virus influenzale umano», dice Taubenberger.



La superiore letalità del virus della spagnola sembra dovuta in particolare a due dei suoi geni, quello dell'emoagglutinina e quello della polimerasi.
Ma l'esame dei polmoni cadaverici dei morti nel 1918 ha mostrato che il virus attaccò i polmoni più in profondità di altri.
Secondo gli scienziati però la causa della letalità starebbe nel fatto che il virus provocò una risposta specialmente aggressiva del sistema immunitario; i linfociti mobilitati per battere il virus finirono per secernere tali quantità di anticorpi da aggredire i polmoni.
Ci sono indizi che l'influenza aviaria attualmente in corso funzioni allo stesso modo.
La sperimentazione ha avuto luogo a livello di sicurezza estremo: i ricercatori potevano accedere ai laboratori solo dopo aver apposto le impronte digitali e persino le iridi ad uno scanner.

Tuttavia, queste precauzioni paiono ormai inutili al dottor Richard Ebright, che lavora alla Rutgers University: «altri possono ricreare il virus secondo le procedure del gruppo Taubenberger, che sono pubblicate. Stiamo parlando di un germe che uccise a suo tempo l'1 % della popolazione mondiale». (1)
Il fatto che tanto interesse, studio e spese siano stati affrontati dalle Forze Armate lascia sospettare, ovviamente, al peggio: che si provi a creare una versione «militarizzata» del vecchio virus, per farne un'arma biologica di distruzione massiccia.
Tanto più che il modo e i metodi della scoperta sarebbero stati catalogati dal pensiero tradizionale come «negromanzia»: la specifica magia nera che utilizzava residui cadaverici, condannata dalle Scritture.



Maurizio Blondet




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Note
1) Sandy Kleffman, «Scientist study revived 1918 flu virus», Contra Costa Times, 27 marzo 2006.




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