Divorzio cristiano?
Di Giuseppe card. Siri.
Renovatio, V(1970), fasc.2, pp.165-166.
Si è udita qualche voce che parla di un «secondo» matrimonio cristiano. Che sarebbe mai un secondo matrimonio cristiano? Niente altro che la dissoluzione del primo. Affermare un secondo matrimonio cristiano è affermare la legittimità del divorzio, cioè lo scioglimento non solo del matrimonio basato sul semplice diritto di natura, ma anche di quello che è sacramento.
Ma il matrimonio cristiano non è dissolubile per sé: lo scioglimento dei matrimoni rati non consumati e quello operato dal privilegio paolino non costituiscono come è noto eccezione a questo principio. Non c’è posto per un «divorzio cristiano». Naturalmente i fautori del divorzio cristiano si appellano, almeno per il caso di adulterio, al testo di Matteo 19, 9: ma a torto, perché l’interpretazione autentica di questo testo, la quale esclude il divorzio. Infatti, Il Concilio di Trento ha sancito: «Se qualcuno dicesse che la Chiesa erra quando ha insegnato e insegna, secondo la evangelica e apostolica dottrina, che il vincolo non può essere sciolto a causa dell’adulterio di uno dei due coniugi…sia anatema». Il punto della discussione trova la sua ragione nella celebre clausola di Matteo: «excepta fornicationis causa». Secondo il significato letterale questo testo può non essere interpretato in senso divorzista e pertanto deve, dal punto di vista teologico, essere interpretato in senso non divorzista: esiste un’interpretazione autentica data, sia pure in maniera indiretta sotto forma di anatema dal Concilio di Trento.
Dunque, non di dà né secondo matrimonio cristiano, né divorzio.
Non che non siano mancate nei secoli talune voci discordi o dubitanti; ma quello che interessa è la prassi comune della Chiesa, che attesta una comune convinzione e una comune dottrina.
Quello che impressione è che dei cattolici possano gettare il piccone demolitore su verità saldamente e universalmente acquisite. Tale fato rivela qualcosa di grave. Anzitutto va in crisi in talune intelligenze la concezione della Verità assoluta. La verità non va in crisi più di quanto non ci vada l’essere: sono troppo intimamente legati. La verità relativa, verso la quale vanno dubbie compiacenze, ha il suo incentivo nello spasmo divorzista che stiamo vivendo, quasi che, tra tante realtà umane in decomposizione, non possa sopravvivere neppure un matrimonio per essere sigillato da Dio. Probabilmente il grande principio al quale ci si deve attenere è il seguente, secondo taluni: dobbiamo enunciare verità deformandole fino a che non compiacciono il mondo moderno.Quasi che questo non sia meno morituro del mondo antico.
In secondo luogo va in crisi tuta la logica della teologia. Infatti, la teologia ha i suoi metodi di prova, che non possono sostituirsi ad arbitrio. Magistero e quanto è riflesso dal Magistero, anche solo ordinario, sui Padri, sui Dottori e sui teologi pare sia svanito dalle non ammirevoli considerazioni qua e là affioranti.
In terzo luogo, va in crisi la dignità dell’uomo, alò quale si vorrebbe manifestare indulgenza, prima negando a torto un diritto naturale che postula «fin dall’inizio» (Matteo 19,8) l’indissolubilità del matrimonio, poi ritenendo l’uomo incapace di mantenere un impegno.
Il divorzio, infatti, vorrebbe dissuadere tutti e per sempre dal credere che tra gli uomini possa esistere un impegno durevole. Il che è indegno e triste.
Ma non si deforma la Verità per compiacere chi intende togliere agli uomini la nobiltà di far ancora fede alla propria parola.