di maurizio blondet

La Francia è in stato permanente di insubordinazione ed insurrezione.
Nel caso specifico, gli insorti hanno torto.
Il CPE, che prevede per i lavoratori sotto i 26 anni un periodo di prova biennale con la libertà del datore di lavoro di licenziarli, è più benigno della nostra legge Biagi, crea meno precarietà e può davvero facilitare l’entrata nel lavoro dei giovani, afflitti da un tasso di disoccupazione enorme, più che in Italia.
L’appoggio dei sindacati a questi giovani ha qualcosa di ripugnante: i sindacati francesi, come i nostri, proteggono solo chi ha il posto fisso, e mai hanno sollevato obiezioni alla precarietà indotta dal liberismo globale; ora, opportunisticamente, si uniscono alla protesta.
Ancor peggio i dipendenti pubblici, che il posto ce l’hanno a vita, al riparo dalla concorrenza globale dei salari cinesi: nell’affannoso declino del lavoro e del salario che colpisce tutti gli addetti del privato, loro sono i veri privilegiati.
Ma anche loro scioperano, come no, a fianco degli studenti.
Questi opportunismi e doppiezze non sono solo deplorevoli in sé.
Il peggio è che nuocciono, rendendola torbida e inautentica, alla causa profonda della rivoluzione giovanile in atto in Francia.
Che è una causa giusta: esprime il rigetto dello sfascio sociale che porta il capitalismo terminale, libero e selvaggio, senza limiti né regole.

Esisteva un altro capitalismo, come spiega bene William Pfaff, uno dei migliori columnist americani (ma che abita a Parigi) (1).
Fino agli anni ‘70, le imprese capitaliste in Europa - ma in parte anche in USA - riconoscevano un loro obbligo verso la società, verso i loro lavoratori.
La ragionevole garanzia di sicurezza del posto di lavoro faceva parte di questo tacito patto.
Nell’ultimo decennio, le imprese rispondono solo verso i detentori di capitali.
I dirigenti sono richiesti e obbligati a creare «valore» per i proprietari, un «valore» che si misura nella quotazione delle azioni e nei dividendi quadrimestrali.
Il fatto che oggi i proprietari non siano più famiglie fondatrici delle imprese, ma (quasi sempre) fondi d’investimento speculativi, aggrava il male: i fondi d’investimento sono interessati solo ad estrarre profitti finanziari in dividendi e rialzi di azioni, con una visione a brevissimo termine; e ovviamente se ne infischiano dei lavoratori e dell’interesse della società in generale, e persino della sostenibilità dell’azienda a lungo termine.
Se le azioni* dell’azienda ribassano, le vendono e gettano i capitali altrove.

Peggio ancora: con l’entrata nel mercato globale di Cina e India i lavoratori dei Paesi avanzati, di colpo, si trovano* in competizione con i salariati delle aree più povere della terra.
Conseguenza: le paghe dell’Occidente stanno calando al livello di quelle cinesi e indiane.
E’ un fenomeno già definito da David Ricardo come la «legge ferrea dei salari»: in regime di libera competizione, essendo la manodopera sovrabbondante più di ogni altra merce, il prezzo di quella «merce» tende a calare fino al livello da consentire al lavoratore la semplice sussistenza.
La «legge ferrea» esercitò tutto il suo crudele rigore, in Europa, solo in Inghilterra agli inizi della rivoluzione industriale: non a caso Londra era ed è il tempio sacerdotale del liberismo assoluto di Adam Smith, il grande ideologo dei bottegai.
Altrove in Europa, i governi nazionali (specie quelli di destra, da Bismarck in poi) impedirono lo sfruttamento feroce del lavoro, per non distruggere un minimo di coesione sociale.
Del resto, finchè il capitalismo si esercitava dentro gli angusti confini nazionali, vi trovava una manodopera relativamente limitata: per avere buoni operai, bisognava pagarli bene.
La relativa scarsità di manodopera consentì ai lavoratori di sindacalizzarsi, e di contrattare collettivamente i salari.
Ora, con la Cina e l’India nel gioco, la riserva di manodopera è «illimitata»: e la «merce-lavoro» ribassa in Occidente, tanto più che le imprese, frustate dai loro azionisti a breve (i fondi), si buttano a delocalizzare le attività là dove il lavoro costa dieci, venti volte meno, per poter dare dividendi più grassi.

Nel primo mondo avanzato l’economia capitalista sta «sottraendo» denaro al lavoro, per trasferirlo invece ai detentori di azioni.
Come diceva già Marx vedendo la prima rivoluzione industriale britannica, il capitale viene retribuito sempre più, a spese del lavoro.
Finchè vige il globalismo, il processo è ineluttabile.
Per la legge dei vasi comunicanti, le nostre paghe scendono e quelle cinesi salgono; ma le loro saliranno lentamente - perché il bacino di manodopera è immenso - e da noi scendono velocemente, perché il drenaggio si esercita in un bacino esiguo.
L’equilibrio si stabilirà a nostro sfavore, perché mai le paghe cinesi saliranno al livello delle nostre di dieci anni fa.
La discesa dei salari in Occidente è un fenomeno storico, perché non si concluderà in cinque anni, ma forse in trenta: lo spazio di una vita umana attiva.
I giovani europei lo provano già nelle loro vite.
Per quanto alte siano le loro qualifiche (e per troppi non lo sono), le paghe che vengono offerte loro sono regolarmente inferiori a quelle dei loro padri; devono abbandonare la speranza di una vita migliore di quella dei loro vecchi; soprattutto, i soli lavori che sono loro offerti sono saltuari, trimestrali, precari.
Contro questo protestano a ragione i giovani francesi: contro le conseguenze umane del capitalismo terminale, di cui i capitalisti s’infischiano.
*
E contro i politici che, a servizio del capitalismo ultimo, escogitano leggi per facilitare, anziché limitare, l’azione distruttiva del liberismo globale.
I francesi protestano contro quel modello che, giustamente, chiamano «americano».
I commenti dei giornali anglo-americani al disordine francese sono gongolanti e ripugnanti: la loro rivolta è passatista e senza speranza, la «stabilità» non ha posto nel nuovo mondo globalizzato, solo la «flessibilità» fa vincere e conquistare quote di mercato…
Un columnist che si crede spiritoso (2) propone un nuovo piano Marshall per i francesi: paracadutare in Francia traduzioni del libro di un tale Steven Covey intitolato «Le sette abitudini delle persone altamente efficaci», quello di certo Anthony Robbins dal titolo «Sveglia il gigante che è in te», nonché i CD appena pubblicati dal magnate Donald Trump, con i seguenti titoli: «Come lanciare una grande carriera» e «Pensare da miliardario».
Sono libri che in USA hanno lo status di best seller, nel filone - in America inesauribile*- del «come diventare ricchi in 15 giorni».
Con la stessa offensiva superficialità con cui credono di poter «esportare la democrazia» (americana) nel vecchio Islam, così gli americani non hanno nemmeno il sospetto che in Europa,* «far denaro» come solo scopo nella vita non sia la rovente ambizione di tutti.
Che anche da noi (come nell’Islam) la vita comune si basa - ancora, almeno un po’ -* su antichi patti, tacite solidarietà, interessi e* preferenze più sottili della ideologia da bottegaio della loro classe dirigente, per cui vendere e comprare, aumentare i profitti, fare mercato è tutta la vita.
*
Nel disprezzo assoluto - individualismo anglosassone, lo chiamano loro - per i lavoratori che anche in USA diventano più poveri nel trionfo globale dei ricchi americani.
In USA, tra il 2001 e il 2004, la produttività del lavoratore americano è cresciuta dell’11,7 %, il suo salario solo dell’1,6%.
Forse, il lavoratore americano reagisce comprandosi i CD di Donald Trump, si sforza di risvegliare «il gigante (commerciale) che è in te», di «pensare positivo».
Ma in Europa, le cifre suddette dicono chiaramente una cosa: che qualcuno ha «derubato» i lavoratori USA della differenza tra le due percentuali.
Solo chi pensa da bottegaio, e da bottegaio ebreo, può restare indifferente a questo furto fatto all’onestà lavoratrice, e alla società di quelli che non sono Donald Trump.
Ecco per cosa lottano i giovani francesi, anche se* avendo torto nel fatto specifico, senza piena coscienza, con molte ambiguità, e con alleati opportunisti e falsi.
Tuttavia, la loro rivolta non va sottovalutata.
Anzitutto, perché è differente dalla banlieues: là era il sottoproletariato margianle e di colore, che può solo produrre saccheggi.
Questa volta, sono gli studenti e le loro famiglie, la borghesia.
E la borghesia francese, quando scende in piazza, non fa jacqueries; fa rivoluzioni.

Rivoluzione?
Sembra una parola troppo grossa.
Attenzione però.
I francesi ci hanno già preceduto due anni fa.
Sono stati loro, con referendum, a bloccare la soi-disant costituzione europea: e con essa l’ideologia, condivisa dai loro politici come dai nostri, che l’ampliamento senza fine della UE, la sua apertura senza fine al mercato globale fossero inevitabili, anzi inarrestabili.
I francesi l’hanno arrestato; e nello stesso atto hanno bloccato la direttiva Bolkentesin (che avrebbe riempito la Francia di «idraulici polacchi») e l’ammissione della Turchia.
Con gran sollievo di tutti noi altri europei, che di scendere in piazza e di dire «no» non abbiamo avuto il coraggio, e nemmeno l’attenzione al problema.
Ma la precarietà dei giovani c’è anche in Italia, anzi è peggiorata dalla furbizia di piccoli capitalisti da strapazzo, cui sembra comodo sfruttare il lavoro dei ragazzi e derubarli del futuro, slealmente.
La precarietà cova anche in Germania.
Se la Francia indica la strada, le opinioni pubbliche europee possono seguirla.
Ma la strada ha da essere giusta.
Per questo le ambiguità degli statali con posto fisso e gli opportunismi dei sindacati scesi «a fianco dei ragazzi» sono pericolosi.
Come lo è l’ambiguità dei ragazzi stessi - dopotutto, il 70% degli studenti francesi vorrebbe un lavoro statale, al riparo da ogni concorrenza - e la loro cieca convinzione che, una volta ricacciata in gola al loro governo la legge sul CPE, avranno «vinto».

Invece no: perché il loro nemico è il mondialismo economico, e dunque è mondiale.
Come dice loro Michel Rocard, socialista, in un notevole articolo su Le Monde: «voler battere il problema della precarietà del lavoro in Francia, è impedirsi di combatterla là dove si deve, ossia al livello mondiale».*(3)
«Il gioco perverso» del capitalismo globale, dice Rocard, «è mondiale. Pretendere di chiamarsene fuori attraverso l’isolamento nazionale, significa a colpo sicuro non riuscire più a esportare, attirarsi la diffidenza dei mercati finanziari, rallentare la propria crescita locale… La sola battaglia che abbia senso è modificare la regolazione del sistema del liberismo mondiale». Ossia: «limitare i paradisi fiscali, controllare strettamente le fusioni-acquisizione e le OPA, limitare con la tassazione il campo della speculazione finanziaria».
Per questo, bisogna vincere enormi interessi, e «non basta la persuasione. Occorre la potenza economica e finanziaria. Solo l’Europa* unita la possiede, potenzialmente, se ha l’appoggio dell’opinione pubblica».
Ecco finalmente le parole giuste, un programma di rivoluzione possibile.

Ma Rocard, già primo ministro e intimo di Mitterrand, oggi è deputato europeo: cosa ha fatto per questo programma che ha così chiaro?
Oggi può farsi forte dell’opinione pubblica che è scesa in piazza: che cosa farà?
Lui dice che l’Europa ha bisogno anzitutto della sua (sedicente) costituzione, per diventare così forte da trattare da pari a pari con gli USA e i suoi interessi corporati.
Ma quella costituzione non era precisamente l’apertura dell’Europa a tutti i venti del liberismo globale?
E non è stata bocciata dal suo popolo francese?
Ancora una volta: doppiezza, opportunismo, inautenticità.
Più grave perché viene da un politico di livello.
Questa è la tragedia europea: che la rivoluzione ha bisogno di leader, di grandi politici che si assumano la rappresentanza della rivolta popolare e la impongano nelle sedi di potere.
E nessuno vuole farlo, ma fanno finta di volerlo fare: Chirac come Rocard, destra come sinistra, tutti erano europeisti alla liberista fino a ieri; tutti hanno parlato solo di «flessibilità» e di «competitività».
Si può credere che abbiano smesso di servire i loro padroni occulti, le lobby di Bruxelles e i finanzieri di Londra e New York?
Ecco perché la legittimità dei governi in Europa vale meno di nulla.
Perché una buona legge di Villepin suscita rivolte: non è che non si si vuole la legge ma, forse, non ci si fida di Villepin (4).

Maurizio Blondet

Note
1)*William Pfaff, «Capitalism under fire», International Herald Tribune, 30 marzo 2006.
2)*John Thierney, «What you need, France, is Donald Trump», Herald Tribune, 29 marzo 2006.
3)*Michel Rocard, «mauvais réflexes d’une société qui a peur» , Le Monde,* 30 marzo 2006.
4)*In Francia , la mancanza di legttimità dell’attuale centro-destra di Chirac e dei suoi ministri ha qualcosa di radicale. Chirac vinse le elezioni perché, a causa del maggioritario francese, nel secondo turno erano rimasti in lizza lui e Le Pen (i socialisti non avendo passato, a sorpresa, il primo turno). Un adeguato terrorismo mediatico convinse tutta la sinistra francese a votare in massa, contro il «fascista» Le Pen, il poco meno detestato Chirac. La maggioranza che Chirac vinse allora, e che lo tiene al governo, non gli appartiene dunque seriamente. La sua legittimità democratica, basata su un trucco sleale, lo indebolisce quando si tratta di far accettare al popolo decisioni dure.