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Discussione: il bacio della morte

  1. #21
    Bianca Zucchero
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    Citazione Originariamente Scritto da estewald
    come al solito non capisci un cazzo...

    Ahahahahaha meno male che sei tornato! I pasdaran diessini! Questo è ciò che ci attende se guuadagnerete voti! Mi auguro che il centro sinistra vinca e che voi i voti li perdiate perché siete pericolosi per la democrazia!
    Conosco una famiglia che grazie alle vostre "epiche" imprese voterà massicciamente rosa nel pugno...
    Mi auguro non siano i soli ad aver cambiato idea dopo avere votato per una vita PCI e poi diesse. E ci sono giovani lì...

  2. #22
    illuminista eretico
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    IL COMMENTO
    Domani i campioni
    all'ultima curva
    di EUGENIO SCALFARI

    APPARENTEMENTE la settimana politica è stata colma di eventi; essendo la penultima prima del voto ciò sarebbe del tutto naturale. Nella sostanza però non è accaduto nulla di nuovo salvo una maggiore asprezza di accenti come accade in tutto il mondo quando il responso delle urne diventa imminente. Tanto per dire: Bush lanciò contro Kerry l'accusa d'aver falsificata la sua presenza militare in Vietnam e Kerry rispose dandogli dell'imboscato. Accuse pesanti, la prima addirittura calunniosa, ma nessuno se ne scandalizzò.

    Qui da noi Berlusconi e Tremonti attribuiscono a Prodi un programma di tassazioni a pioggia su tutto e su tutti che Prodi non ha mai proposto; il leader dell'Ulivo risponde accusandoli di delinquenza politica. Il Cavaliere rispolvera addirittura l'episodio d'una seduta spiritica che risale ai tempi del rapimento Moro cioè a ventotto anni fa, per dimostrare che Prodi non ha titolo per governare; qualche giorno prima aveva affermato che i comunisti in Cina bollivano i bambini per farne concime agricolo. Questo sarebbe il capo del partito moderato, membro influente del Partito popolare europeo.

    Non c'è dubbio che siamo sopra le righe, ma quanto a violenza verbale, nell'ultimo duello televisivo tra Schröder e la Merkel l'allora Cancelliere socialdemocratico trattò la sua avversaria con una tale ruvidità da spingerla fin quasi alle lacrime. In quel modo guadagnò tre punti preziosi rendendo necessaria la "grande coalizione" che oggi governa la Germania.

    In certe circostanze tutto il mondo è paese.
    Francesco Merlo teme (l'ha scritto ieri su queste pagine) che questa super-agitazione politica e verbale renda "smoderati" gli italiani. Vorrebbe che i moderati restassero tali o tornassero tali, passata la sbornia elettorale. Condivido l'auspicio ma temo che non si verificherà poiché sono convinto che i moderati - cioè la borghesia produttiva innovatrice liberale riformista - nell'Italia di oggi non esista se non in singoli individui e in piccoli gruppi che non fanno massa critica. Quei pochi comunque hanno raggiunto la consapevolezza che Berlusconi e la destra fatta alla sua misura rappresentino un ostacolo preliminare all'ordinato funzionamento della democrazia liberale, sicché hanno deciso di votargli contro.

    Se Berlusconi sarà battuto, il riformismo potrà cimentarsi con una destra sperabilmente democratico-conservatrice, con vantaggio generale per l'Italia e per l'Europa di cui facciamo parte. Forse allora nascerà il moderatismo che è cosa radicalmente diversa dall'indifferentismo antipolitico e anarcoide del quale Silvio Berlusconi è il più sguaiato e significativo esempio.

    * * *
    Nel sostanziale "nulla di nuovo" della settimana testé trascorsa non mancano tuttavia dei piccoli e preziosi cammei che sono emersi dal polverone generale e che vale la pena di rivisitare.
    Comincio dall'intervista a Fedele Confalonieri, presidente di Mediaset, pubblicata dal Corriere della Sera di venerdì scorso. Un vero gioiello.

    Confalonieri teme un nuovo "piazzale Loreto" per il suo amico Berlusconi (naturalmente metaforico, a meno che non pensi che anche Fassino Diliberto e Bertinotti abbiano come hobby quello di impiccare gli avversari politici a testa in giù), ma teme soprattutto che sia proprio l'azienda Mediaset a fare le spese d'una sconfitta politica del Cavaliere che ne è il proprietario. Non so bene perché il Fedele faccia anche il mio nome tra quelli che avrebbero tradito il ruolo liberale del giornalismo d'opinione. Materia e giudizi certamente opinabili.

    Ma il presidente di Mediaset cade in un groviglio di contraddizioni.
    Afferma che il suo amico di una vita ha già provveduto a separare nettamente la proprietà di Mediaset dalla gestione dell'azienda, del che proprio lui, Confalonieri, sarebbe la vivente testimonianza.

    Se fosse così non si capisce perché la sconfitta politica del Cavaliere dovrebbe comportare gravissimo danno per l'azienda affidata al Fedele. Azienda ben condotta da una parte, proprietario da un'altra parte, Confalonieri al timone di Mediaset, Berlusconi al timone dell'Italia. Confalonieri non ha alcun vantaggio né favori politici o legislativi dalla leadership politica del proprietario.

    Quindi non dovrebbe avere alcun danno se quel "nudo" proprietario non fosse più al potere e potesse anzi ritornare ad occuparsi dell'azienda. Non è così?
    No, dice Confalonieri, non è così. Vedete bene che sotto a questa palese e anzi addirittura plateale contraddizione c'è un imbroglio. Ed è anche chiaro quale sia l'imbroglio: il Berlusconi leader del governo e della maggioranza parlamentare è utilissimo all'azienda che Confalonieri dirige. Per il semplicissimo fatto di mantenere rafforzare e blindare la condizione di duopolio televisivo Mediaset-Rai, la condizione di monopolio di Mediaset nel campo delle televisioni commerciali, la condizione di dominio nel campo della raccolta pubblicitaria.

    Se il duopolio venisse smontato, se il monopolio fosse impedito, se le frequenze accaparrate in soprannumero fossero messe all'asta, se - come chiede vanamente da anni la Corte costituzionale - Rete 4 abbandonasse l'etere e una rete Rai fosse venduta ai privati, allora Mediaset dovrebbe operare in un mercato aperto alla libera concorrenza.

    È questo il piazzale Loreto che spaventa il Fedele? Teme la libera concorrenza televisiva? Capisco il timore ma certo equiparare la concorrenza a piazzale Loreto, diciamo la verità, è un po' forte.
    (Tra parentesi: per la concessione delle tre reti, Mediaset paga allo Stato 20 milioni l'anno. Ha scritto Salvatore Bragantini, economista non bolscevico: "La tassa di concessione pagata da Mediaset rappresenta l'1 per cento dei margini lordi dell'azienda, quanto il costo di un campione di calcio neanche dei più bravi". Con questa cifra ridicola Mediaset occupa gran parte dell'etere che è una pubblica proprietà. Chiudo la parentesi).


    Un altro cammeo riguarda la polemica sulle tasse, cavallo forte del Cavaliere che, avendo promesso nel 2001 riduzioni fantasmagoriche, ora non trova altro argomento che quello di spaventare gli elettori con le tasse che sarebbero inevitabilmente decretate da Prodi. Su quell'inevitabilmente, più volte martellato da Tremonti, bisognerebbe fare un'apposita inchiesta.
    Questa polemica parte da un dato: dice il presidente del Consiglio di aver ridotto la pressione fiscale, durante i cinque anni del suo governo, dal livello del 45 per cento che aveva ereditato dal predecessore al 40,6 rispetto al Pil.

    Se questa fosse la riduzione avvenuta sarebbe certamente cospicua: 4,4 punti, poco meno di un punto all'anno. Tanto di cappello. Del resto lo aveva promesso nel famoso contratto con gli italiani.
    Il guaio è che si tratta di una bugia avvalorata peraltro dal ministro Tremonti. La pressione fiscale ereditata nel 2001 dall'attuale governo era del 41,3 per cento. In cinque anni la riduzione è stata dunque complessivamente dello 0,7 per cento cioè poco più dello 0,1 per cento annuo. Sarebbe questo il quinquennio del più importante taglio fiscale mai avvenuto in Italia?

    * * *

    Ma l'orco Prodi - preconizza il Cavaliere - vi spellerà vivi a colpi di tasse e qualcuno gli crede, anche se ha imparato e conosciuto la sua bugiarderia. Vogliamo andare a vedere che cosa ha detto Prodi? Ha detto questo: "Manterrò la pressione fiscale così come ce la passerà il governo Berlusconi. Ma poiché dobbiamo rilanciare la crescita e rimettere in moto la macchina, sposterò il peso fiscale dalle spalle deboli che finora l'hanno sopportato a spalle più robuste e invece di puntare su una politica di sgravi sulle aliquote dell'Irpef (che è servita assolutamente a niente) punterò su un alleggerimento contributivo e fiscale delle imposte che gravano sul lavoro e sulla produzione (cuneo fiscale).

    Il taglio di cinque punti del famoso cuneo equivale a minori entrate per 8 miliardi. Dunque Prodi deve trovare 8 miliardi. Anzi molti di più se vuole (come pure ha detto) predisporre una rete efficace di ammortizzatori fiscali, restituire il "fiscal drag" dovuto ai lavoratori, alzare il loro potere d'acquisto, tagliare l'Irap per 12 miliardi e proseguire nella politica di rientro nei parametri di Maastricht e di riduzione del debito pubblico.

    * * *

    Per soddisfare queste gravose esigenze Prodi avrà - se vince - cinque anni di tempo. E se il sistema Italia si rimetterà in moto dopo cinque anni di blocco, sarà quel moto a dargli le risorse necessarie. Ma nei primi cento giorni deve dare una scossa, quella appunto d'una drastica riforma delle imposte e dei contributi sul lavoro. Gli servono dunque 8 miliardi. Dove li trova? L'ha detto: recupero dell'evasione e del sommerso, aumento delle imposte sulle rendite finanziarie, contenimento delle spese improduttive che Berlusconi-Tremonti hanno lasciato correre a briglia scioltissima perché il limite del 2 per cento tanto sbandierato ha registrato un clamoroso flop.
    Ma la bestemmia, secondo il Cavaliere e la sua "band" di musicanti, sta nella frase "tassazione delle rendite finanziarie". Bestemmia, rapina, mani nelle tasche dei contribuenti, porco qui e porco là.

    * * *

    Farò un paio di citazioni e proporrò un indovinello perché siamo tutti di memoria corta.
    "Credo che l'unica via d'uscita dalla crisi che stiamo attraversando sia quella di finanziare la riduzione dell'Irap con un'intelligente tassazione delle rendite finanziarie. Di fronte alla necessità di fare un taglio di 4 o addirittura 12 miliardi di Irap e dare contemporaneamente un segnale sui conti pubblici, è venuto il momento di agire".

    "Già nella scorsa legge finanziaria avevamo proposto un incremento della tassazione delle rendite finanziarie che oggi risulta essere assolutamente ridicola rispetto a quella dei conti correnti e quella sul lavoro. Una tassazione del genere permetterà di ridurre la tassazione sui conti correnti e di trovare le risorse per abolire l'Irap sul costo del lavoro".
    "L'aumento della tassazione sulle rendite finanziarie è un'ipotesi positiva e intelligente che abbiamo bisogno di discutere e verificare. Lo faremo nei prossimi giorni e poi agiremo di conseguenza".

    Queste dichiarazioni vennero formulate non un secolo fa ma nei mesi di maggio-giugno del 2005 rispettivamente dai ministri Alemanno, Calderoli, Baccini a nome dei rispettivi partiti Alleanza nazionale, Lega, Udc.

    Credo, anzi sono certo, che sovrastimassero il gettito d'una tassazione sulle rendite, ma è utile ricordare che quella che oggi appare il ruggito dell'Orso, faceva parte della proposta di governo di tre partiti su quattro che compongono la Casa delle libertà. Oggi quattro su quattro considerano una bestemmia l'identica proposta fatta da Prodi. Sarebbe bello capire il perché e chiederlo a Fini, a Bossi, a Casini.

    Dalle spalle deboli alle spalle forti: non è un programma giusto per rimettere in moto il sistema?
    Il Cavaliere-Caimano continua a promettere. In verità non promette neppure perché aveva già promesso tutto cinque anni fa. Ma ha fatto alcune riforme rimandandone però l'avvio concreto e quindi il costo al 2007 e al 2008.

    Alcune anche più in là. Contenute in leggi votate dal Parlamento ma semplicemente rinviate. In particolare la riforma delle pensioni e quella della previdenza integrativa nonché la riduzione dell'Irpef a due sole aliquote.

    Nessuno gli ha chiesto dove prenderà i soldi né lui si cura di dirlo perché sono nodi che arriveranno al pettine dopo le elezioni. Ma qualcuno ha fatto i conti ed è arrivato alla conclusione che quegli impegni presi a babbo morto costerebbero 35 miliardi, cioè 70 mila miliardi di vecchie lire.

    Si spera che i giornalisti che ancora avranno la ventura di incontrarlo nei prossimi giorni prima del voto gliela facciano, questa domandina e pretendano la risposta. Lui di solito evade, da quell'incallito evasore che è sempre stato.


    (2 aprile 2006)

  3. #23
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    Predefinito questo articolo e' molto illuminante

    Il conflitto che pesa
    sulla sfida elettorale
    di EZIO MAURO

    NEI giorni pari il Cavaliere fa il lupo, nei giorni dispari l'agnello. Oggi è dispari, perché è cominciato il lamento sulla sorte delle sue tre televisioni. "Le minacciano - dice Berlusconi - e questo dimostra che siamo ancora una democrazia incompiuta". In realtà il suo impero cresce, le televisioni godono di ottima salute, e non le minaccia per fortuna nessuno. Semplicemente, il leader della destra italiana potrebbe perdere le elezioni, anche se tutto è ancora incerto. M

    Ma questo basta perché tre intellettuali come Giuliano Ferrara, Piero Ostellino e Sergio Ricossa - dopo anni di ascetico silenzio sull'intreccio costituente tra la destra e le sue televisioni - facciano immediatamente eco al lamento berlusconiano, con un pubblico appello che chiede a Prodi un impegno a non varare alcuna legge che obblighi Berlusconi a scegliere tra azienda e politica.

    Tutto questo, in realtà, ci porta direttamente davanti al peccato originale del decennio italiano: il conflitto d'interessi del Cavaliere. E cioè, per dirlo in termini di scuola, quell'insieme di cointeressenze proprietarie e di responsabilità politiche che coabitano nella figura e nell'azione del presidente del Consiglio, perché non si è voluto liberare delle prime mentre acquistava le seconde. È un conflitto plastico, nella sua evidenza clamorosa e conclamata, talmente esteso e su materie così sensibili da profilarsi come una turbativa strutturale del sistema politico e istituzionale italiano.

    Si può provare a parlarne seriamente come di un grande nodo della democrazia italiana, fuori dalla propaganda elettorale? Si può addirittura tentare di farne un tema bipartisan, fuori dalla ricerca di vendette assurde e vantaggi impropri, nella convinzione che sia interesse generale della nostra democrazia risolverlo?

    Il conflitto d'interessi entra pesantemente nella politica italiana con l'ingresso in campo di Silvio Berlusconi. Non è vero che esistono nel nostro Paese altri conflitti tra potere privato e responsabilità pubblica anche solo lontanamente paragonabili a questo.

    Né è vero che esistono in altri Paesi casi di Primi Ministri, o candidati a quella carica, che abbiano contemporaneamente in dote un impero industriale, finanziario e mediatico, accanto ad un partito. Lasciamo stare, per rimanere al nocciolo del problema, la disparità (economica, finanziaria, di mezzi di pressione) tra le forze politiche che pesa oggettivamente su ogni confronto elettorale. E tralasciamo anche, per brevità, l'analisi concreta dei molti interessi industriali, assicurativi, editoriali, finanziari, sportivi, che Berlusconi porta con sé ogni volta che siede al tavolo del Consiglio dei ministri, che deve pur deliberare su quelle materie. Limitiamo dunque l'analisi al campo più sensibile, quello delle televisioni, che coincide in gran parte con la percezione popolare dell'identità imprenditoriale del Cavaliere.

    La questione, a mio parere, pone problemi rilevanti e oggettivi sotto due aspetti: uno in termini di fatto, e uno in termini di principio. Dal punto di vista dei fatti, purtroppo, c'è in questi giorni solo l'imbarazzo della scelta. Dall'8 al 21 marzo, le tre reti di Berlusconi (visto che lui ne è ancora il proprietario) si sono comportate così: Tg4, 82,7 per cento del tempo alla Casa delle libertà, 17,03 all'Unione; Studio Aperto, 79,3 contro 19,4; Tg5, 61,2 contro 38,6. Nello stesso periodo preso in esame, in Rai il Tg1 ha concesso il 54,6 per cento del tempo informativo alla destra contro il 45,2 alla sinistra, il Tg2 il 55,7 contro il 43,9, il Tg3 il 49,1 contro il 50,9. Nel dettaglio, sul telegiornale più importante delle reti Mediaset (il Tg5) dall'8 al 14 marzo Forza Italia ha avuto 50,30 minuti contro gli 8,55 dei Ds e i 4 della Margherita, mentre per An i minuti sono stati 23,49. Infine, i leader: dall'11 febbraio al 12 marzo il Tg5 ha ospitato il Cavaliere per 2 ore, 3 minuti e 11 secondi, contro i 20 minuti e mezzo di Prodi.

    Ora, bisogna rispondere subito a un'obiezione classica della destra: con lo stesso controllo sull'apparato televisivo Berlusconi ha perso nel '96, e ha ancora perso ultimamente in tutte le elezioni, dunque è inutile scandalizzarsi per l'abuso tivù del premier. E' un'obiezione che non prova nulla. Si potrebbe rispondere, usando quel metro, che senza lo strapotere televisivo avrebbe perso di più, avrebbe perso altre volte. Ma soprattutto, in termini di sistema, non importa il punto d'arrivo dell'uso televisivo distorto, perché è inaccettabile il punto di partenza.

    Meglio: in una democrazia liberale non è accettabile (non è nemmeno concepibile) che uno dei due contendenti parta per la gara con il vantaggio garantito dalla condizione proprietaria di tre televisioni. E non è accettabile, per un pensiero liberale, che durante la gara le usi in questo modo totalmente squilibrato a suo vantaggio. Un solo dato a consuntivo. In sei settimane di campagna elettorale del 1994 - l'anno mitico della "discesa in campo" - Berlusconi parlò sulle sei reti televisive nazionali per 1.286 minuti, mentre per il suo rivale, Occhetto, i minuti furono 395.

    Una domanda. C'è in giro qualche liberale che considera equa, ragionevole, democratica o anche semplicemente decente questa proporzione che squilibra di per sé una campagna elettorale? Perché nessuno ha sentito il bisogno di dire una verità fondamentale, quasi tautologica, eppure taciuta in Italia, e cioè che il conflitto d'interessi berlusconiano è gravissimo anche e proprio per l'uso concreto e materiale che se ne fa a vantaggio del Cavaliere? È un vantaggio, vorrei far notare, preliminare, quasi una precondizione, come se fosse un dono di natura, un talento particolare, uno stato di grazia. Così connaturato ed intrinseco, consustanziale, che ha consentito a Berlusconi, il 26 gennaio del 1994, di fondare insieme Forza Italia, la destra che non esisteva, la sua identità di politico e la futura premiership non con un congresso di partito o un confronto pubblico, ma con una videocassetta, strumento e simbolo di un'alterità onnipotente e post-moderna, tutta giocata nell'iper-realtà dello spazio televisivo.

    C'è poi, più importante dei fatti, la questione di principio. E' chiaro, almeno per me, che Berlusconi ha vinto per un insieme di ragioni che stanno nella politica, non nella tivù. Ma abbiamo visto che non importa la spinta grazie alla quale si taglia il traguardo, se le condizioni di partenza sono comunque disuguali e il vantaggio di uno dei contendenti è chiaro e può essere squilibrante al momento del via. Ma c'è di più. Il punto topico di ogni ciclo politico, cioè la sfida elettorale, è sempre più confiscato dalla televisione, in anni in cui è scomparso il comizio, il volantinaggio, il contatto casa per casa, persino l'intervista, e sopravvive a stento qualche manifesto, a far da quinta slabbrata al vero paesaggio politico, quello televisivo. Questa legge proporzionale, addirittura, è una prova al quadrato della politica-tv: cancellando le preferenze, ha cancellato anche i candidati e ha abolito addirittura la campagna elettorale vera e propria, a favore di una surroga verticistica tra i leader, tutta nazionale, piramidale, e interamente giocata sullo schermo e sotto le luci della televisione.

    Si deve dunque ragionare sulla televisione come moderna agorà, cioè lo spazio privilegiato dove si svolge il mercato - delicatissimo e decisivo - del consenso, il luogo politico dove si forma quel soggetto fondamentale e sensibile delle società contemporanee che è la pubblica opinione. Ora, come è possibile che in Italia quel mercato così cruciale sia l'unico che non è regolato, ai fini di renderlo libero? Di conseguenza, siamo l'unico Paese dell'Occidente dove un soggetto politico di assoluta rilevanza che guida un partito, guida la maggioranza del Parlamento legislativo e guida il legittimo governo del Paese, controlla nello stesso tempo anche l'universo televisivo: le tre reti private per via proprietaria, le tre reti pubbliche per via politica. È qualcosa che la nostra democrazia - abituata alle peggiori lottizzazioni, di destra, di centro e di sinistra - non ha mai conosciuto. Peggio, è qualcosa che non conosce nessuna democrazia occidentale.

    E' evidente che in termini di principio questa anomalia non è accettabile. È chiaro che non è un problema giocobino, ma una questione liberale. È pacifico che Berlusconi e la sua maggioranza non lo hanno voluto affrontare, perché l'attuale legge sul conflitto d'interessi è una burletta. Né lo vogliono affrontare oggi, nel momento delle geremiadi anticipate contro la sinistra liberticida. Ma chiedere a un leader che vuole concorrere per le due più alte cariche del Paese di liberarsi dal carico confliggente delle sue aziende, di scegliere tra la dimensione politica e quella imprenditoriale non è un gesto illiberale: è un gesto di chiarezza e di garanzia per tutti. E tuttavia, senza arrivare a questo: si può correggere l'anomalia separando seriamente - dico seriamente - la proprietà dalla gestione? Che cos'ha da dire in proposito la destra, visto che l'anomalia è evidente ed è un problema della democrazia, non della sinistra? Che proposta hanno gli intellettuali preoccupati solo dell'inesistente "esproprio"? Dopo dodici anni, può il partito-azienda aiutare l'azienda ad essere un po' meno partito, almeno nella divisione degli spazi? Ecco la questione capitale. Tocca alla destra rispondere, se vuole essere credibile.

    Anche perché in tutti questi anni tra i tanti appelli terzisti o pseudoliberali che spuntano ad ogni elezione, ne è mancato uno di poche righe, semplice e tuttavia doveroso: "Poiché il conflitto d'interessi esiste, ed è un'anomalia evidente, Silvio Berlusconi prenda un impegno d'onore a non usare le sue televisioni in modo da squilibrare - dalla maggioranza o dall'opposizione - il normale confronto politico". È certo una dimenticanza, che però è durata dodici lunghi anni. Con la televisione accesa.

 

 
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