L’industria triestina è ai minimi storici: è crollata fino a rappresentare oggi un infimo 14 per cento degli occupati della provincia e contribuisce al Pil nella misura irrisoria dell’11 per cento. Se non verranno immediatamente messe in atto le strategie delle diversificazione produttiva che tuttora mancano, con la chiusura della Ferriera Trieste diverrà una città pressoché deindustrializzata.
Un estemporaneo fronte comune sembra dunque essere ora stato creato da industriali e sindacati che prendono di mira un obiettivo unico: la classe politica e le amministrazioni locali. «Hanno scambiato Trieste per il Lussemburgo - accusa il presidente di Assindustria Sergio Razeto - dimenticando che anche il Lussemburgo sta passando un brutto momento». «Hanno detto che Trieste deve essere una piccola Montecarlo - si allea Umberto Salvaneschi divenuto segretario di Fim-Cisl dopo anni di lotte in Ferriera - ma è semplicemente folle per una città come la nostra puntare tutto su turismo e terziario».
Nel 1973 l’industria occupava a Trieste 42.224 persone scese nel 1982 a 33.317. Oggi i dipendenti delle imprese all’interno dell’Ezit sono 10.250 scesi di oltre il 10 per cento negli ultimissimi anni, ai quali a stento se ne possono aggiungere altri 5 mila. «La crisi internazionale ha picchiato più duro dove i dati non emergono: tra i lavoratori precari e gli interinali che hanno perso il posto», spiega Vincenzo Timeo della Uilm. E Stefano Borini segretario di Fiom-Cgil tratteggia una situazione sommersa drammatica: «Solo nel settore metalmeccanico trenta aziende medio-piccole con un numero di dipendenti variabili tra i 4 e i 30 hanno aperto procedure di cassa integrazione».
Un’industria metalmeccanica italiana di carpenteria leggera era pronta ad aprire uno stabilimento con cento dipendenti in zona industriale, ma le questioni aperte sul Sito inquinato l’hanno fatta desistere. «Temo che l’abbiamo definitivamente persa - lamenta Stefano Zuban, vicepresidente Ezit - a quanto ne so i proprietari hanno già identificato un sito alternativo nella zona industriale di un’altra città». Analoghi percorsi non è escluso facciano le altre tre o quattro aziende che hanno recentemente bussato alla porta dell’Ezit.
L’ultima grana potrebbe scoppiare proprio oggi al Terminal dell’oleodotto della Siot dove il consulente della direzione, Luigi Leon, che ha allo studio un piano di ristrutturazione, potrebbe annunciare ridimensionamenti che secondo voci non confermate potrebbero toccare il 30 per cento dell’organico già sceso oggi sotto i 100 dipenedenti. «In Ferriera - spiega Salvaneschi - nel 1982 eravamo 1300-1400, nel ’95 eravamo già scesi a 750, oggi siamo 490. La Grandi Motori 25 anni fa aveva 2.500 dipendenti, oggi la Wartsila ne conta poco più di 1.200».
Non reggono le obiezioni secondo cui anche la città era più popolosa ed erano altri tempi. Anche gli assessori del Comune, Paolo Rovis e della Provincia, Adele Pino, concordano sul fatto che «in un’economia sana contemporanea l’industria deve avere una percentuale di occupati nella misura del 20-25 per cento». E invece l’erosione è continua. «La cassa integrazione preannunciata al cantiere di Monfalcone - spiega Timeo - ha rimesso in apprensione tutto l’ambiente dove si temono effetti a catena». «In provincia reggono bene le industrie alimentari, quelle del caffé, della pasta, i prosciuttifici - sostiene Adele Pino - in tutti gli altri settori il quadro è a tinte fosche».
Si ribella al vezzo di vedere solo bicchieri mezzi vuoti solo l’assessore Rovis: «È chiaro che uno sviluppo equilibrato del territorio si regge su un mix di attività economiche e che è auspicabile che l’industria arrivi a un 20 per cento anche perché a propria volta mette in moto un indotto di servizi. Ma con l’accordo di programma sulle bonifiche è stato fatto un rilevante passo in avanti. L’apertura della fabbrica di funi della Redaelli in un momento di grave crisi internazionale è stato un segnale importantissimo per la città al di là del numero degli occupati».
(il Piccolo)
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«Fatto sta che la fabbrica di funi Redaelli, l’azienda che doveva rappresentare una delle principali alternative alla Ferriera ha oggi venti dipendenti che potranno forse un giorno diventare cinquanta», è la replica concorde dei sindacalisti. «Dal 2001 si parla di chiudere la Ferriera e in nove anni la politica non ha mosso un dito per trovare valide alternative», è l’accusa di Umberto Salvaneschi (Fim-Cisl) che pur rappresentando un sindacato che tra i suoi iscritti ha molti operai che votano Forza Italia prende posizione a nome di tutti contro il terzo mandato a sindaco di Roberto Dipiazza: «Ha detto anche in Tv che in Ferriera siamo 400, dimenticando che siamo 500, più altrettanti dell’indotto più 250 della Sertubi. Ha preferito inaugurare vie e piazze per essere rieletto piuttosto che favorire lo sviluppo industriale della città. Non è una questione di destra o sinistra, tanti altri sindaci si comportano come lui, ma nella Trieste che lui tratteggia quasi come una nuova Montecarlo per l’industria non c’è futuro».
«Non siamo innamorati della siderurgia - spiega Timeo - siamo pronti anche a produrre caramelle a patto che al posto della Ferriera arrivi un produttore di caramelle e non si perdano posti di lavoro». E invece, riguardo alla diversificazione produttiva, il rigassificatore trova ogni settimana nuovi oppositori o perlomeno scettici e il finanziamento per la Piattaforma logistica viene rinviato di mese in mese. La sola centrale di cogenerazione promossa dalla stessa Lucchini è un’alternativa giudicata troppo flebile.
L’accusa più forte arriva da uno scranno particolarmente prestigioso quello del presidente degli industriali. «In Wartsila - spiega Sergio Razeto che è anche presidente di Wartsila Italia - mi sono arrivati amministratori politici da Slovenia, Croazia e Bosnia. Mi proponevano l’insediamento di uno stabilimento sul loro territorio a condizioni estremamente vantaggiose. Non mi risulta che i nostri amministratori e i nostri politici facciano simili promozioni del loro territorio. Anzi, da ultimo vogliono ora anche far pagare agli imprenditori gli inquinamenti che non hanno provocato. Si occupano piuttosto di far baruffa tra di loro e quella tra i presidenti della Camera di commercio e del porto e soltanto l’ultima delle polemiche inutili. Trieste è una città bellissima, ma purtroppo continua ad essere tremendamente litigiosa».
Secondo Razeto la politica sbaglia a non occuparsi dell’industria che invece porta ricchezza, occupazione, dà una prospettiva ai giovani, importa valore aggiunto e nuove conoscenze in città, crea equilibrio economico e sociale. «Questa città non ha un piano di sviluppo economico», lamenta Stefano Borini della Fiom. E le richieste del presidente di Assindustria alle amministrazioni locali sono su questa stessa lunghezza d’onda: «Si apra un tavolo per tracciare finalmente un Piano di sviluppo economico per la città e poi si avii una campagna per aumentare il tasso imprenditoriale tra la popolazione e i giovani in particolare». (s.m. - il Piccolo)
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Secondo gli ultimi dati dell’Istituto Tagliacarne, l’86 per cento del Pil di Trieste proviene dal settore terziario che al suo interno è per un quarto di derivazione pubblica e solo l’11 per cento dall’industria. In queste incredibili percentuali fra tutte le province italiane la città e superata soltanto da Roma.
Trieste da città di partecipazioni statali si è trasformata in città di uffici. Di più, soltanto 14 grandi ”imprese” che però poco hanno a che fare con l’industria, occupano oltre 19 mila dipendenti. Queste 14 imprese fanno tutte capo a 9 grandi holding. Tre sono compagnie di assicurazione: Generali, Allianz e Sasa. Una è la banca Antonveneta, poi c’è la multiutility Acegas e Italia Marittima che opera in ambito logistico. C’è anche Fincantieri che però a Trieste ha solo uffici con dirigenti, tecnici e impiegati. Due sole le industrie: una metalmeccanica e cioé la Wartsila e una alimentare, la Illycaffè.
Se uno di questi nove pilastri viene a mancare, anche per un semplice trasferimento, l’intera economia provinciale va in crisi. (s.m - il Piccolo)
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