Maurizio Blondet
18/04/2006
Dopo le rivolte in Francia, nei salotti felpati si è deciso: per imporre la «liberalizzazione del mercato del lavoro» agli europei, bisogna cambiare strategia.
Quale sia la nuova strategia, lo spiega in modo lineare Christopher Chivvis, docente di Storia e Politica Europea alla «Paul Nitze School» e di Studi Internazionali alla John Hopkins University (1).
L'autore indica i circoli viziosi e i nodi insolubili che bloccano le «riforme» del lavoro in Europa.
L’ansia delle popolazioni di fronte alla prospettiva della precarietà e della disoccupazione (specie la disoccupazione di lunga durata: prospettiva assai realistica, si ammette) rende forte la resistenza alle «riforme» che «facilitino i licenziamenti».
Ma nella situazione economica corrente non si può fare questa politica, se prima non si facilitano i licenziamenti; ma d’altra parte non si possono rendere facili i licenziamenti, se prima non si tranquillizza la gente mostrando che il lavoro è abbondante.
Una sorta di «dilemma cretese» (2) che paralizza tutto in Europa.
Per attenuare questa resistenza, bisognerebbe lanciare «politiche di creazione di lavoro».
Dunque politiche di dirigismo keynesiano.
I superliberisti non sarebbero contrari, purché il keynesismo venisse usato, come mezzo temporaneo, per lubrificare il binario su cui gli europei saranno fatti scendere verso la globalizzazione perfetta.



Il fatto è che, spiega Chivvis, benchè «l’ortodossia neo-liberista predichi che l’aumento dell’occupazione verrà naturalmente una volta che siano distrutte le barriere alle assunzioni, non c’è ragione di pensare che ciò avverrà senza una imponente caduta dei salari. Il che creerebbe altri problemi».
Lo si può ben dire.
Dunque si propone di allentare un po’ il liberismo globalizzatore.
Basta non dichiararlo apertamente, si può fare un po’ di keynesismo.
«Un aumento della spesa pubblica mirato può ridurre la disoccupazione», dice Chivvis: dunque, i salotti buoni, ultraliberisti in pubblico, sono disposti ad atture politiche keynesiane, o roosveltiane (a patto di non dirlo).
Ma tali politiche keynesiane «possono aver successo solo» solo se il mercato del lavoro sia stato reso adeguatamente flessibile, «altrimenti aumenti della spesa pubblica da soli» produrrebbero «un ritorno alla stagnazione (3), il deterioramento della bilancia commerciale europea e una crisi dell’euro»: tutte cose che lorsignori vogliono evitare.
Ma se «le riforme allo stato attuale sono impossibili», il fare nulla è «imperdonabile»: l’immobilismo e la paralisi dei governi nazionali (Chirac in Francia, Prodi in Italia, la Merkel in Germania) devono essere superati.
Come?



Con «un grande patto tra sindacati, governi nazionali e Banca Centrale Europea».
Un grande patto.
Una grande coalizione.
Quindi, la prima parte del progetto deve inaugurarsi con la «flessibilizzazione» del lavoro.
E qui,bisogna convincere i sindacati a non fare resistenza.
Bisogna far capire ai sindacati che la loro politica di difesa dei posti fissi per chi li ha già è «maltusiana» (da Malthus, il teorico della «crescita zero» demografica) e senza sbocco: un calo della disoccupazione è bene anche per gli occupati, non solo per i disoccupati.
I primi devono pagare il piccolo prezzo di accettare la possibilità di essere licenziati.
Si farà appello alla loro solidarietà sociale.
Dopotutto, non sono di sinistra?
Solo smantellate le leggi che rendono poco flessibile il lavoro, si potrà passare alla seconda fase.
Ai sindacati (e alle sinistre) sarà offerta «una politica attiva per l’occupazione» sostenuta dalla spesa pubblica, «per creare lavoro in aree specifiche».
In tal modo i sindacati si potranno convincere «che le riforme sono intese ad accrescere, non a diminuire, la sicurezza dei lavoratori».
O almeno, questo keynesismo in piccole dosi faciliterà ai sindacati la «vendita» presso i loro membri-lavoratori del concetto che «i sacrifici» non solo sono necessari, ma che «danno risultati». Un piccolo trucco temporaneo.



La terza fase riguarda la Banca Centrale Europea (BCE).
Perché l’aumento della spesa pubblica per creare lavoro non è possibile, visto che molti Paesi europei sono già in gravi deficit, se restano le strette regole di Maastricht.
«I banchieri centrali europei», detta Chivvis, «devono riflettere che la minaccia principale alla stabilità dell’euro, ora che è una moneta globale ben radicata, non è più l’inflazione, e nemmeno la fuga di capitali, bensì la disintegrazione politica del consenso su cui l’euro si fonda. La disoccupazione è una delle cause primarie che minacciano questo consenso».
Dunque, la BCE rilasci i cordoni della borsa, consenta una certa misura di deficit spending, ammetta un po’ di lassismo fiscale…
La stessa riduzione della disoccupazione allevierà i deficit pubblici, alleviando i costi che gli Stati sopportano per le casse-integrazione e il sostegno ai disoccupati.
L'improntitudine di questi dettami è notevole.
Fino ad oggi, i sacerdoti del liberismo senza regole e della mano invisibile del mercato vietavano positivamente le politiche d’intervento pubblico che qui, adesso, invece raccomandano.
Dunque ammettono che quelle politiche («keynesiane») sono possibili, e possono dare sollievo.
Ma le propongono solo allo scopo di scongiurare la «perdita del consenso», che spingerebbe i popoli a chiedere - per esempio - alti dazi protettivi contro le merci importate dai Paesi, come la Cina, il cui vero vantaggio competitivo sono i salari da fame.



Quella che viene qui proposta è una sorta di NEP (4) nell’ambito del liberismo globale: un momentaneo cedimento ai bisogni e alle ansie dei popoli europei, per chiuderli meglio - e senza che si rivoltino - nella gabbia del sistema.
Una forma di anestesia locale e momentanea, per poter procedere alle amputazioni del tessuto sociale.
Nel «grande patto» tra sindacati, politici e Banca Centrale è ovviamente implicita l’idea di governi di «grandi maggioranze», di grandi coalizioni di emergenza, in cui maggioranze e opposizioni condividano l’impopolarità delle misure che il capitalismo terminale esige.
Come per caso, la grande coalizione è all’ordine del giorno in Italia, resa apparentemente inevitabile dal prodigioso risultato del voto zero-a-zero.
Se deve essere, sia.
Ma è essenziale quale spirito e quale visione la guidi.
Se il keynesismo, il deficit di bilancio e l’intervento pubblico in economia (tutte eresie per il dogma liberista) non sono più proibite, è tornata l’occasione di usare queste leve per un «altro mondo possibile».
Per costruire le mura di una «fortezza Europa» economica, che difenda il proprio tessuto sociale anziché addormentarlo per consentirne l’amputazione.



Occorre una visione del futuro, che non sia quella unica imposta.
Occorre che non si cerchi di ingannare l’opinione pubblica con l’anestesia, ma di mobilitarla perché si pronunci: volete i telefonini a basso prezzo, o una società ancora vivibile e in qualche misura solidale?
La discussione deve mirare ad un «grande patto» per lo scopo esattamente opposto a quello per cui lo vogliono i poteri forti globali.
Temo che nulla di questo avverrà.
La visione manca.
Mancano i capi capaci, o coraggiosi abbastanza, da rappresentare i loro popoli anziché le lobby e i poteri forti.

Maurizio Blondet




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Note
1) Christopher Chivvis, «A grand bargain against unemployment», International Herald Tribune, 14 aprile 2006. L’istituto «Paul Nitze» ha una forte segnatura ebraica e neocon. La John Hopkins University, emanazione del Council on Foreign Relations dei Rockefeller, ha una sede a Bologna, ed è un forte centro d’influenza americano (del gruppo di potere «internazionalista», ossia globalizzatore), cui sono vicini personaggi «trasversali» come Giuliano Amato, Massimo Teodori, Domenico Siniscalco, Gianfranco Pasquino.
2) E' uno dei paradossi insolubili di Zenone di Elea. Tutti i cretesi sono bugiardi. Se dunque un cretese dice: «tutti i cretesi sono bugiardi», dice una verità o una menzogna? Se è una verità è anche una menzogna, perché almeno un cretese (quello che parla) non è bugiardo; se la sua affermazione è menzognera, è anche una verità…
3) «Stagflation», il fenomeno della stagnazione economica accompagnata da inflazione (apparentemente contraddittorio: l’inflazione dovrebbe produrre «crescita») che dominò il mondo durante la presidenza Carter.
4) La NEP (Nuova Politica Economica) fu introdotta da Lenin nel 1921 perché l’applicazione dottrinaria del collettivismo stava già provocando fame, scarsità e razionamento. Il partito bolscevico temette la rabbia popolare, e perciò introdusse qualche limitato riconoscimento di fatto della proprietà privata, qualche libertà di commercio e di attività professionale indipendente. Fu temporaneamente abolita anche la polizia segreta, la CEKA (presto sostituita con la GPU, copia esatta della prima). Allora Lenin disse chiaro che si trattava di «una ritirata momentanea dalla strada del socialismo»; che restava la via maestra. Infatti nel 1922-23 la NEP fu abolita e si tornò alla dittatura del proletariato, al terrore bolscevico, e alla fame conseguente.




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