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    Ghibellino
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    Predefinito Le tappe del pensiero eurasiatista

    . Konstantin Leont’ev

    Chi si occupi dello sviluppo storico del pensiero eurasiatista non può ignorare Konstantin Leont’ev, il cui capolavoro, Vizantinism i slavjanstvo (trad. it. Bizantinismo e mondo slavo, Edizioni all’insegna del Veltro 1987), può ben rappresentare la fase preliminare di tale indirizzo di pensiero. Infatti quest’opera, in cui viene esposta una concezione morfologistica della storia che ricorda Ibn Khaldun e preannuncia Toynbee, vide la luce nel 1875, quarant’anni prima dello spengleriano Untergang des Abendlandes. Prima che Spengler opponesse la concezione di una molteplicità di cicli di civiltà alla boriosa rappresentazione eurocentrista, già Leont’ev aveva dunque osservato la nascita e il tramonto delle varie forme storico-culturali, fino a convincersi dell’imminente estinzione della civiltà “occidentale” per effetto di un inevitabile processo degenerativo.

    Prima che Spengler, ripudiando l’eurocentrismo e reintegrando nei loro diritti le culture extraeuropee, facesse piazza pulita di quello che René Guénon avrebbe di lì a poco chiamato “il pregiudizio classico”, Konstantin Leont’ev considerava la civiltà dell’antica Persia in maniera ben diversa da come veniva insegnata nelle scuole russe (e non solo russe) del sec. XIX, all’insegna di una retorica della “libertà” che ai “barbari dell’Oriente” ha riservato solo incomprensione e disprezzo.


    Ma una differenza rilevante fra Spengler e Leont’ev risiede nella valutazione di una civiltà che per lo studioso russo costituisce un oggetto d’indagine privilegiato: quella bizantina. È stato giustamente notato che “la scienza storica europea ha per secoli considerato Bisanzio null’altro che una inoriginale e sterile sopravvivenza del mondo greco-latino, asservita per di più (peccato capitale agli occhi di uno storico liberale) ad un ‘retrivo’ ideale religioso e monarchico. Generazioni di studiosi e di lettori occidentali hanno incessantemente tramandato una quantità di pregiudizi su Bisanzio, che, non somigliante né alla civiltà classica né all’Europa moderna, si sarebbe distinta solo per bigottismo, crudeltà e ristrettezza spirituale” (1). Lo stesso Spengler, se da un lato fa rientrare il mondo bizantino nell’”estate” di quella Kultur che egli, con un caratteristico termine del suo vocabolario, chiama “araba”, dall’altro vede nel “bizantinismo” un fenomeno di Zivilisation, cioè di rinsecchimento e di irrigidimento culturale. Leont’ev invece, che riprende la sistemazione tipologica delle civiltà fatta da Danilevskij, aggiunge ai dieci cicli storico-culturali compresi in tale sistemazione un undicesimo ciclo: quello bizantino, per l’appunto, inteso come “particolare ed autonomo tipo culturale avente propri caratteri distintivi e propri princìpi generali” (2). Il bizantinismo, per Leont’ev, non è semplicemente un ciclo storico: è un’idea-forza, un principio universale, l’unico in grado di modellare e organizzare l’elemento “demotico” dell’area geografica sottoposta alla sua giurisdizione, intervenendo su di esso così come la forma agisce sulla materia.

    A questo proposito, Nikolaj Berdjaev ha notato che, nella visione di Leont’ev, “la verità e la bellezza del popolo russo non si manifestavano nel genio delle masse, bensì nelle discipline bizantine che organizzano e plasmano questo genio a loro propria immagine” (3). L’elemento popolare, comunque, si presta assai meglio di quello borghese a recepire l’azione formatrice dell’idea bizantina: “Un mugico – dice Berdjaev parlando di Leont’ev – egli era pronto a idealizzarlo, se non altro perché era il contrario di un piccolo borghese (…) Nei Balcani, in Turchia, in Russia, l’aspetto pittoresco e popolare della vita attirava la sua attenzione (…) Vede nella comunità rurale un principio idoneo a prevenire la minaccia del proletariato” (4). Lo stesso Leont’ev confessa: “Il popolo e la nobiltà, i due estremi, mi sono sempre piaciuti più del ceto medio dei professori e degli scrittori che ero costretto a frequentare a Mosca” (5)
    Nazionalismo e panslavismo, dunque, non possono riscuotere le sue simpatie, perché si tratta di aspetti di “quel processo di democratizzazione liberale che già da molto tempo lavora per la distruzione dei grandi mondi culturali dell’Occidente. Eguaglianza di persone, eguaglianza di classi, eguaglianza (cioè uniformità) di province e di nazioni: si tratta sempre dello stesso processo” (6). All’idea di nazione, Leont’ev contrappone l’idea di comunità spirituale, sostenendone la superiorità in termini provocatori: “il vescovo ortodosso più crudele, anzi, il più vizioso (a qualunque razza appartenga, anche se è solo un mongolo battezzato) dovrebbe ai nostri occhi avere maggior pregio di venti demagoghi e progressisti slavi” (7).

    Il panslavismo, anche quando fa strumentalmente appello alla solidarietà dei cristiani contro il “giogo turco”, secondo lui non è altro che un veicolo della mentalità antitradizionale e sovversiva proveniente dall’Europa moderna. Contro questo assalto disgregatore, Leont’ev indica come soluzione la doppia barriera rappresentata dall’Ortodossia e dall’Islam. “Leont’ev non era uno slavofilo, ma un turcofilo” (8), dice Berdjaev, il quale riferisce con malcelata indignazione che per lui “il giogo dei Turchi impediva ai popoli balcanici di sprofondare definitivamente nell’abisso del progresso democratico europeo. Leont’ev considerava quel giogo come salutare, perché favoriva il mantenimento dell’antica Ortodossia in Oriente” (9). Prosegue Berdjaev con la medesima indignazione: “Fa appello alla violenza dei Tedeschi contro i Cechi così come si augura quella dei Turchi contro gli Slavi dei Balcani: affinché il mondo slavo non si imborghesisca per sempre. Non desiderava la liberazione dei cristiani, ma la loro schiavitù, la loro oppressione” (10). E ancora: “Vede nell’idea di cacciare i Turchi un’idea né russa né slava, ma un’idea democratica e liberale” (11); “credeva che Costantinopoli non potesse essere se non russa o turca; ma, se fosse caduta in mano agli Slavi, sarebbe diventata una centrale rivoluzionaria” (12). In effetti, è lo stesso Leont’ev a scrivere di aver capito, durante la sua permanenza in Turchia in qualità di diplomatico dello Zar, che, “se molti elementi slavi e ortodossi sono ancora vivi in Oriente, è ai Turchi che ne siamo debitori” (13).

    Tra le civiltà tradizionali, solo quella islamica e quella ortodossa, secondo Leont’ev, hanno un avvenire. La Russia, in particolare, ha il compito di salvare la vecchia Europa, ormai esausta; ma, per potere svolgere questa funzione, la Russia deve tornare all’idea bizantina e unirsi “con popoli asiatici e di religione non cristiana (…) per il semplice fatto che tra di loro non è ancora irrimediabilmente penetrato lo spirito dell’Europa moderna” (14)

    2. Gli eurasiatisti degli anni Venti

    Karl Radek, il “grande architetto del riavvicinamento tra sovietici e nazisti” (15), che nel celebre discorso del 20 giugno 1923 fece del giovane caduto nazionalista Leo Schlageter “addirittura un eroe” (16), nel 1920 a Bakù aveva già dato una prima dimostrazione di spregiudicatezza, evocando lo spettro di Gengis Khan davanti al Primo Congresso dei Popoli dell’Oriente. “Compagni, – aveva detto il rappresentante del Comintern – noi facciamo appello allo spirito combattivo che in passato ha animato le genti dell’Oriente quando, guidate da grandi conquistatori, marciarono sull’Europa… Noi sappiamo, compagni, che i nostri nemici ci accuseranno di aver evocato la memoria di Gengis Khan, il grande conquistatore, e dei grandi califfi dell’Islam… E quando i capitalisti europei affermano che questa è la minaccia di una nuova barbarie, di una nuova invasione unna, noi rispondiamo loro: Viva l’Oriente Rosso!” (17). A quanto pare, Radek non teneva in gran conto le tesi dell’occidentalista e russofobo Karl Marx (18), il quale aveva indicato nell’influsso mongolo-tartaro la causa essenziale dell’arretratezza della Russia: “Nel fango insanguinato della schiavitù mongola e non nella gloriosa rudezza dell’epoca normanna – aveva infatti scritto Marx – è nata quella Moscovia di cui la Russia moderna altro non è che una metamorfosi” (19).

    Paradossalmente, il discorso di Radek ebbe ebbe un eco nelle parole pronunciate l’anno successivo dal barone Roman Fëdorovic von Ungern Sternberg: “Le tribu dei successori di Gengiskan si son deste. Nessuno estinguerà il fuoco nel cuore dei Mongoli! Vi sarà un grande stato nell’Asia, dall’Oceano Pacifico e dall’Oceano Indiano alle rive del Volga (…) Verrà un conquistatore, un capo, più forte e più deciso di Gengiskan e di Ugadai, più abile e più buono del sultano Baber” (20). “Personaggio totemico della rinascita eurasista” (21), Ungern Khan riunì nella propria persona “le forze segrete che avevano animato le forme supreme della sacralità continentale: gli echi dell’alleanza tra Goti e Unni, la fedeltà russa alla tradizione orientale, il significato geopolitico della Mongolia, patria di Gengis Khan” (22).

    Così si esprime Aleksandr Dugin, il più noto tra gli attuali esponenti di quel pensiero eurasiatista ebbe i suoi padri fondatori in Nikolaj S. Trubeckoj (1890-1938), Georgij V. Vernadskij (1887-1973) e Pëtr N. Savickij (1895-1965).

    Il principe Nikolaj Sergeevič Trubeckoj nacque a Mosca il 16 aprile 1890. Allievo fin dall’adolescenza del folclorista, indoeuropeista e caucasologo Vsevolod F. Miller, si iscrisse nel 1908 alla Facoltà di storia e filologia di Mosca, dove studiò inizialmente etnopsicologia e filosofia della storia, per passare al dipartimento di filologia e interessarsi soprattutto di lingue indoeuropee e caucasiche. Già a quindici anni, d’altronde, il principe Nikolaj Sergeevič aveva dedicato al canto finnico Kulto neito un articolo che fu il suo primo contributo alla prestigiosa rivista “Etnologičeskoe obozrenie”. Ricevuto l’incarico universitario nel 1915, tenne un corso sulla linguistica comparata. Nell’estate del 1917 partì per Kislovodsk, nel Caucaso. Dopo la Rivoluzione d’Ottobre si trasferì a Tiflis, poi a Bakù e infine a Rostov sul Don, dove insegnò grammatica comparata. Nel 1920, in seguito all’ingresso dell’Armata Rossa, si rifugiò in Crimea e poi a Istanbul. Tra il 1920 e il 1922 insegnò filologia indoeuropea a Sofia. Infine si stabilì a Vienna, dove fu docente di filologia slava fino alla morte, intervenuta il 25 giugno 1938 per una malattia cardiaca congenita.

    Non è questa la sede idonea per esporre i principi della “nuova filologia”, la dottrina linguistica elaborata da Trubeckoj e dagli altri studiosi del circolo di Praga (23); quello che qui interessa è il Trubeckoj filosofo della storia e teorico dell’eurasiatismo.

    Trubeckoj aveva già elaborato le basi del suo pensiero eurasiatista con il saggio Evropa i čelovečestvo [L'Europa e L'umanità] (24), che apparve a Sofia nel 1920, dopo che lo storico Georgij Vernadskij e il geografo ed economista Pëtr Savickij avevano già pubblicato, prima della guerra, “degli studi che si possono considerare proto-eurasisti” (25). Trubeckoj, Vernadskij e Savickij avevano insomma gettato le basi di una nuova visione della Russia, intesa come espressione della “civiltà delle steppe”, erede degli imperi di Gengis Khan e di Tamerlano. “Particolarmente significativa è la loro valutazione positiva – inconsueta nella cultura russa – dell’influsso tataro sulla Russia” (26). Savickij, in particolare, arriverà ad affermare che “senza tatari non ci sarebbe stata la Russia” (27). Ma il vero e proprio “manifesto” dell’eurasiatismo fu Ischod k Vostoku [La via d’uscita ad Oriente], pubblicato a Sofia nel 1921 da una casa editrice russo- bulgara. Si trattava di un volume collettaneo, del quale erano autori, oltre a Savickij e Trubeckoj, il musicologo Pëtr Suvčinskij (1892-1985) e il teologo Georgij V. Florovskij (1893-1973). Nikolaj S. Trubeckoj, in particolare, contribuiva al volume con due saggi: Ob istinnom i ložnom nacionalizme [Sul vero e sul falso nazionalismo] e Verchi i nizy russkoj kul’tury [Il vertice e la base della cultura russa]. Tutti gli autori esprimevano l’idea fondamentale secondo cui i popoli della Russia e delle regioni ad essa adiacenti in Europa ed in Asia formano una unità naturale, in quanto sono legati tra loro da affinità storiche e culturali. La cultura russa veniva dunque vista non come una variante di quella “occidentale”, ma come una realtà a sé stante. Fondata sull’eredità greco-bizantina e sulla conquista mongola e dunque identificabile come “eurasiatica”, secondo gli autori questa realtà culturale era stata negata non solo dalle riforme di Pietro il Grande e dalla classe politica che aveva in seguito governato la Russia, ma anche dalla corrente slavofila, che Trubeckoj accusava di voler imitare l’Occidente. Quanto alla Rivoluzione bolscevica,gli eurasiatisti la valutavano negativamente, ma si proponevano di studiarne il significato nel contesto della storia russa; Savickij, in particolare, vedeva nella Rivoluzione d’Ottobre uno sviluppo di quella francese, ma osservava che essa veniva a spostare verso l’Oriente l’asse della storia universale. “Per gli eurasiatisti, insomma, la Rivoluzione dell’ottobre 1917 è una purificazione, un rinnovamento, una resurrezione del vero spirito delle steppe tipico della cultura russa, nonché il punto di partenza per il processo di rinvigorimento della potenza dell’Eurasia” (28). L’unità dell’Eurasia costituisce il tema centrale dello studio L’eredità di Gengis Khan, che Trubeckoj, firmandosi con lo pseudonimo “I. R.”, pubblicò nelL’Eurasia tutta – egli scrive – (…) rappresenta una “ totalità unica, sia geografica sia antropologica. (…) Per la sua stessa natura, l’Eurasia è storicamente destinata a costituire una totalità unica. (…) L’unificazione storica dell’Eurasia fu, fin dall’inizio, una necessità storica. Contemporaneamente, la natura stessa dell’Eurasia ha indicato i mezzi di questa unificazione”.

    L’indagine di Trubeckoj, la quale intende porre in evidenza lo stretto rapporto che intercorre tra l’autentica cultura russa e l’elemento turco-mongolo, si riporta ad un preciso evento storico: l’unificazione del grande spazio eurasiatico ad opera di Gengis Khan e dei suoi successori. Tale impresa fu sviluppata da tre sovrani che succedettero a Gengis Khan: Ögödai (1229-1241), Güyük (1246-1248) e Mönkä (1251-1259), finché l’unità mongola si sfasciò all’epoca di Qūbilāi (1260-1294). Ultimo sovrano universale dei Mongoli, Qūbilāi portò i Mongoli fino a Giava: soggiogatore della Cina, diventò il primo imperatore di una nuova dinastia cinese, quella degli Yüan.

    Per restare alla Russia, fu nel 1223 che le avanguardie mongole sconfissero sulle rive del fiume Kalka le schiere russe e cumane, per poi tornare sulle steppe da cui erano venute. L’immediato successore di Gengis Khan, Ögödai, travolse il khanato bulgaro della Volga; poi espugnò Rjazan’, Suzdal’ e Kiev, sottomettendo tutti i principati russi. Il nipote di Gengis Khan, Batu, fondò la dinastia dell’Orda d’Oro, che aveva la sua capitale a Saraj sulla Volga; nella Russia meridionale e nell’Asia centrale l’Orda d’Oro regnò su un vasto stato e dominò per oltre due secoli la vita politica ed economica russa: dal 1240 al 1480 anche i ducati cristiani della Russia di nordest furono tributari di questa dinastia mongola (o “tatara”, come la chiamarono i Russi). “Se la drammaticità della conquista mongola non può essere messa in discussione, le sue conseguenze sulla successiva storia russa sono state interpretate nella maniera più varia e contrastante. In Occidente l’influsso tataro, o mongolo che dir si voglia, è stato quasi sempre valutato negativamente, come la causa principale dell’arretratezza e del dispotismo dello stato russo rispetto all’Europa. (…) Già nello scorso secolo, tuttavia, all’interno della storiografia russa si è affermata una diversa e più positiva concezione del dominio tataro. Secondo Solov’ëv e Kljucevskij, i tatari non solo non avrebbero spezzato la continuità dell’evoluzione storica della Russia, ma l’avrebbero dotata di quella forte organizzazione statale che tanto era mancata nell’epoca kieviana” (29). Trubeckoj e gli altri eurasiatisti ripresero e svilupparono questa valutazione.

    3. Lev Gumilëv


    Lev Nikolaevič Gumilëv nacque il 1 ottobre 1912 a San Pietroburgo da un celebre poeta (Nikolaj Stepanovič Gumilëv, fondatore del movimento “acmeista”, fucilato nel 1921) e da un’ancor più celebre poetessa, Anna Achmatova. Terminati gli studi nel 1930, fu respinto dall’università a causa delle sue origini familiari, sicché dovette guadagnarsi da vivere come operaio. Nel Pamir, dove lavorò come aiutante scientifico, imparò il tagico e il kirghiso, frequentò sufi e dervisci erranti. Ammesso nel 1934 alla facoltà di orientalistica di Leningrado, fu arrestato per la prima volta nel 1935. Tre anni dopo venne arrestato di nuovo, quindi ricevette una condanna alla fucilazione che fu commutata nei lavori forzati. Nel 1944 gli fu concesso di arruolarsi come volontario in un battaglione di punizione che prese parte all’assedio di Berlino. Riammesso all’università nel 1945, l’anno successivo discute la tesi di laurea, sulla storia politica del primo khanato turco (546-659). Depennato dall’organico delle spedizioni archeologiche per effetto del rapporto di Zdanov sull’ideologia dell’arte, viene assunto come bibliotecario presso l’ospedale psichiatrico di Leningrado.

    Nella primavera del 1948 partecipa alla spedizione archeologica nell’Altai, che porta alla luce il tumulo d’oro di Pazyryk. “Già la sola partecipazione di Gumilëv alla scoperta del tumulo gli varrebbe di diritto la fama mondiale. L’arte scito-siberiana in stile zoomorfo sarebbe divenuta un tema universalmente noto e popolarissimo” (30). Nel 1948 è arrestato per la terza volta e condannato a dieci anni di campo di confino speciale, per attività controrivoluzionaria; nel 1956 viene rilasciato e riabilitato perché il fatto non sussiste. Tornato a Leningrado, lavora alla biblioteca dell’Ermitage e intanto porta a termine la tesi di dottorato, sugli antichi Turchi. Assunto all’Istituto Nazionale di Ricerca dell’Università leningradese, vi lavora come collaboratore scientifico fino al 1986. “Nei suoi ultimi anni di vita, che coincisero con quelli dell’Urss, il ruolo di Gumilëv nella rinascita della concezione eurasista fu immenso. I suoi volumi vennero pubblicati in rapida sequenza e con tirature altissime, ed egli acquisì una vasta fama all’interno della cultura e della società russa. (…) La delusione per la dissoluzione dell’Urss nel 1991 ebbe un effetto disastroso sul morale di Gumilëv, che morì l’anno successivo. Ormai, però, l’imponente successo delle sue opere aveva contribuito in maniera decisiva alla rinascita dell’eurasismo, divenuto rapidamente un tema di forte interesse all’interno della cultura russa e di alcune delle nuove repubbliche indipendenti” (31).

    In Italia, la notizia della morte dello studioso eurasiatista, avvenuta il 16 giugno 1992, apparve con due settimane di ritardo (il 2 luglio) sulla “Stampa” di Torino, che pubblicò un articolo di Lia Wainstein intitolato: Figlio della Achmatova, profeta antisemita. Sottotitolo: Il suo ideale: i Mongoli, perché “evitano contatti con gli Ebrei”. L’autrice dell’articolo interpretava il pensiero di Gumilëv come una manifestazione di “delirio antioccidentale”: ché altrimenti non si spiegherebbe, secondo lei, la “rivalutazione positiva del ruolo avuto dai popoli mongoli e turchi nella storia russa”. Secondo i moduli triti e ritriti del razzismo russofobico, la Wainstein, mentre si guardava bene dal citare l’unico libro di Gumilëv tradotto in italiano (32), riproponeva i luoghi comuni del “selvaggiume orientale” e del “dispotismo asiatico” e rintracciava nell’opera dello studioso una miscela di “amore per la frusta mongola” e di “patriottismo xenofobo e antioccidentale”.

    Alle reazioni irrazionali e scomposte di certa intelligencija occidentalista si contrappongono la stima e la riconoscenza che i popoli turanici dell’ex URSS hanno manifestato nei riguardi di Gumilëv, la cui produzione scientifica, “una vera e propria enciclopedia della steppa” (33), ha fatto piazza pulita dei pregiudizi turcofobi e antimongoli, mostrando il contributo apportato alla storia dell’Eurasia dagli imperi di Attila, di Gengis Khan e di Tamerlano. Un fatto significativo, a tale proposito, è che ad Astana, capitale del Kazakistan, è stata intitolata a Lev N. Gumilëv la locale Università Eurasiatica.

    Nella vastissima produzione scientifica di Gumilëv (34) non si trovano testi specificamente geopolitici, anche se la teoria gumileviana dell’etnogenesi e della ciclicità della vita dell’ethnos si colloca sulla scia delle elaborazioni di Ratzel, Kjellén e Haushofer. L’eurasiatismo di Gumilëv consiste in una visione della storia in cui viene messo in primo piano il mondo multiforme dell’Oriente eurasiatico, concepito non più come “periferia” più o meno “barbara” contrapposta alla vera civiltà (occidentale), bensì come un’autonoma realtà culturale, con un suo proprio sviluppo politico e scientifico. Lo stesso Gumilëv non si sottrasse alla definizione di “eurasiatista”, anzi, la accettò con legittimo orgoglio. In un’intervista rilasciata nel 1992, poco tempo prima di morire, dichiarò: “Quando mi chiamano eurasiatista, io non rifiuto questa definizione, e per diverse ragioni. Innanzitutto, l’eurasiatismo è stato una grande scuola storica, sicché posso solo sentirmi onorato se qualcuno mi assegna a tale scuola. In secondo luogo, ho studiato a fondo l’opera degli eurasiatisti. Terzo, concordo fondamentalmente con le principali conclusioni storico-metodologiche alle quali gli eurasiatisti sono pervenuti”.

    Note
    1. Aldo Ferrari, La Terza Roma, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1986, p. 36.

    2. K. Leont’ev, Bizantinismo e mondo slavo, cit., cap. I.

    3. Nicolas Berdiaeff, Constantin Leontieff, Parigi 1926, p. 244

    4. Ivi, p. 243.

    5. Ivi, p. 45.

    6. K. Leont’ev, Bizantinismo e mondo slavo, cit., cap. II.

    7. N. Berdiaeff, op. cit., p. 251.

    8. Ivi, pp. 251-252.

    9. Ivi, pp. 85-86.

    10. Ivi, p. 90.

    11. Ivi, p. 250.

    12. Ivi, p. 251.

    13. Ivi, p. 250.

    14. K. Leont’ev, Bizantinismo e mondo slavo, cit., cap. V.

    15. Mikhail Agursky, La terza Roma. Il nazionalbolscevismo in Unione Sovietica, Il Mulino, Bologna 1989, p. 367.

    16. Arthur Moeller van den Bruck, Il vagabondo del nulla, in: Victor Serge, Germania 1923. La mancata rivoluzione, Graphos, Genova 2003, p. 447.

    17. Pervyj s’ezd Narodov Vostoka [Primo Congresso dei Popoli dell’Oriente], Petrograd 1920, p. 72.

    18. La posizione di Marx nei riguardi della Russia e del mondo musulmano è ben rappresentata da queste espressioni: “La barbarie intrinseca della Russia”, “le influenze demoniache della Roma d’Oriente [Istanbul]”, “la Russia, fedele al vecchio sistema dell’inganno e dei trucchi meschini”, “il fanatismo dei musulmani” (Carlo Marx contro la Russia, Edizioni del Borghese, Milano 1971, pp. 38, 40, 43, 89)

    19. Cit. in: Francis Conte, Gli Slavi, Einaudi, Torino 1991, p. 386.

    20. Ferdinand Ossendowski, Bestie, uomini e dèi, M.I.R., Firenze 1999, p. 191.

    21. Aldo Ferrari, La Foresta e la Steppa. Il mito dell’Eurasia nella cultura russa, Scheiwiller, Milano 2003, p. 209.

    22. Alexandr Duguin, Rusia. El misterio de Eurasia, Grupo Libro 88, Madrid 1992, p. 148.

    23. N. S. Trubeckoj, Fondamenti di fonologia, Einaudi, Torino 1971. Per una esposizione riassuntiva della teoria linguistica di Trubeckoj, si può vedere Carlo Tagliavini, Storia della linguistica, Patron, Bologna 1970, pp. 307- 313.

    24. N. S. Trubeckoj, L’Europa e l’umanità, Einaudi, Torino 1982. Il volume contiene anche Sul vero e sul falso nazionalismo e Il vertice e la base della cultura russa.

    25. A. Ferrari, La Foresta e la Steppa, cit., p. 198.

    26. A. Ferrari, La Russia tra Oriente e Occidente. Per capire il continente-arcipelago, Ares, Milano 1994, p. 156.

    27. P. Savickij, Step’ i osedlost’, in Na putjach, Berlino 1922, p. 343.

    28. Patrick Sériot, N. S. Troubetzkoy, linguiste ou historiosophe des totalités organiques ?, in : N. S. Troubetzkoy, L’Europe et l’humanité. Écrits linguistiques et paralinguistiques, Pierre Mardaga éditeur, Sprimont 1996, p. 17.

    29. A. Ferrari, La Russia tra Oriente e Occidente, cit., pp. 43-45.

    30. Martino Conserva – Vadim Levant, Lev Nikolaevič Gumilëv, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2005, p. 15.

    31. A. Ferrari, La Foresta e la Steppa, cit., p. 264.

    32. Lev Gumilëv, Gli Unni. Un impero di nomadi

    33. A. Ferrari, La Foresta e la Steppa, cit., p. 255.

    34. La bibliografia gumileviana compilata nel 1990 e riportata da M. Conserva e V. Levant (op. cit., pp. 65-83) elenca circa 240 titoli

    CLAUDIO MUTTI


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