Risultati da 1 a 10 di 10
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    Predefinito Serve una nuova politica

    Roma. Dunque il Cav. non molla, dice che al momento “non c’è nessun vincitore” e la partita elettorale rimane aperta fino all’ultima verifica dei verbali contenenti quei presunti 24 mila voti di scarto alla Camera che distanziano dall’Unione. Si proclama ancora ottimista sulla possibilità d’aver vinto le elezioni (“La sinistra potrà puntare alla rinvincita in occasione delle amministrative”).
    Poi però stupisce tutti quando aggiunge serio che, in caso di spartizione delle due Camere tra i Poli, il bene del paese consiglia di “sedersi al tavolo” con Romano Prodi (che ha già detto no) e vedere se non sia il caso di fare come in Germania: una grande coalizione per “unire le forze nella concordia” (proposta rilanciata in serata da Giulio Tremonti).
    Fa strabuzzare gli occhi, ma ha una coerenza logica, il Berlusconi visto e ascoltato ieri pomeriggio in conferenza stampa insieme con Gianfranco Fini di An, Lorenzo Cesa per l’Udc (a sostituire Pier Ferdinando Casini) e Roberto Maroni per la Lega.
    Un’iniziativa preceduta da incontri e rinvii che incoraggiavano retropensieri.
    Ma quando gli alleati hanno preso la parola è stato un inseguirsi di complimenti a Berlusconi per la campagna elettorale (Fini), di manifestazioni lealiste (Cesa) e propositi di compattezza e chiusura a ogni cedimento verso l’Unione (Maroni).
    A saldare la Cdl c’è il fallimento del referendum contro Berlusconi testimoniato dalle urne che riconoscono al centrodestra per lo meno la maggioranza assoluta dei voti al Senato. Ma c’è pure l’intelletto di osservatori non banali come Giovanni Sartori (“Lo sconfitto è Romano Prodi, Berlusconi resta”, ha detto a caldo in tv); e contribuiscono perfino certi scatti emotivi della sinistra radicale.
    Su tutti quello di Rossana Rossanda che ha corredato un titolo-autodafè del Manifesto (“Ci siamo fatti del male”) con una dissertazione sulle “viscere più torbide” di un paese rimasto per una metà abbondante berlusconiano.
    Dato per esule in patria fino alla vigilia del voto, penalizzato dalla legge elettorale che si era cucito addosso, a lui si addice il paradosso del perdente vincitore.
    Mentre Prodi doveva stravincere e rischia invece di non poter governare dentro casa, isolato e debole com’è in Parlamento.
    Il Cav. forse non governerà, resta però il primo azionista della Cdl e in lui si riconosce mezza Italia. Di questo si sono convinti Fini e Casini, che approvano l’operazione trasparenza lanciata in conferenza stampa da Berlusconi per verificare la “dose fisiologica di errore” nella trasmissione dei verbali dalle prefetture al Viminale.
    La Cdl non riconosce ancora il peso e la qualità della vittoria prodiana.
    Sarà battaglia e vedremo forse il popolo di centrodestra manifestare in piazza dopo la Pasqua.
    Se l’Italia è divisa in due e la metà semivincitrice fa finta di niente, è legittimo che l’altra metà si faccia notare. Era scontato che i leader dell’Unione, lunedì notte, rivendicassero una vittoria dal profilo ancora indefinibile al Senato.
    L’incertezza è svanita ieri grazie al voto degli italiani all’estero che hanno premiato l’Unione (4 seggi) perché il centrodestra (un seggio soltanto) si è sciattamente presentato con liste tra loro concorrenti.
    La fretta mostrata da Prodi e dai suoi sostenitori, una volta registrata l’affermazione notturna alla Camera, è dipesa dal bisogno di normalizzare il prima possibile un risultato eccentrico.
    C’è stata una forzatura, l’azzardo ha pagato al di là dei volti artefatti e piegati al sorriso dei vari Fassino e Rutelli e Sbarbati. Poco credibile è il carme trionfale con il quale i dirigenti dell’Unione hanno accompagnato la festa.
    Guardando ai numeri, le urne consegnano a Prodi una maggioranza meno governabile di quella che lo abbandonò così rapidamente dopo l’esperienza del 1996-’98.
    Di qui l’accelerazione verso il partito democratico innescata dal professore bolognese e dai Ds.
    La soluzione democrat non è il logico sviluppo di un progetto politico, al momento pare il rifugio dei partiti principali della coalizione (Ds e Margherita) uniti da una perfomance elettorale deludente e dalla paura di arrivare disorganizzati alla prima disputa con la florida sinistra estrema e le altre formazioni identitarie.
    E’ tuttavia escluso che Fausto Bertinotti (Rifondazione comunista), Oliviero Diliberto (Pdci) e gli altri (Verdi, dipietristi e rosapugnoni) cercheranno la sfida rusticana a breve termine.
    Chi è costretto a passeggiare nel buio di un maggioranza così friabile, di regola, è incline a tenersi per mano con il vicino. Non certo a spintonarlo.
    In concreto assisteremo per diversi mesi a una spinta centripeta nell’Unione, a una ricerca obbligata di coesione all’interno del centrosinistra.
    Prevarrà la voglia di governare frustrata per cinque anni e a questa si annoderà il tentativo di gestire senza eccessi l’avvicendamento al Quirinale.
    E’ immaginabile un intermezzo di cordialità istituzionale, per quanto Prodi abbia già negato alla Cdl la presidenza d’uno dei due rami del Parlamento.
    Lo ha fatto un po’ per trattare da una posizione di forza ben perimetrata, un po’ per pressioni interne. A questo si somma la previsione che il centrodestra si riorganizzerà con un partito unitario popolar-populista dotato di regole e mura invalicabili in modo da proteggere gli uni e gli altri da tentazioni trasformistiche.
    Fermo restando che i cantori delle larghe intese sono più influenti nei giornali dell’establishment, che maggioritari nelle aule del Palazzo, ostacolati da un conflitto bipolare fresco e cruento che ha rivelato un paese non
    “deberlusconizzabile”.
    A dimostrazione dell’assunto, c’è il capitolo relativo alla legge elettorale.
    Prodi e i Ds vorrebbero una riconversione al maggioritario, non così una parte dei Dl e gli altri alleati. Il sistema di voto non verrà toccato prima che i due Poli abbiano offerto garanzie solide di tenuta.
    E semmai si procederà a una correzione verso il doppio turno alla francese o il modello tedesco (misto di maggioritario a turno unico e proporzionale con sbarramento alto). Ci sarà tempo per pensarci. E va da sé che presto o tardi le aspettative di vita del governo Prodi si riveleranno per quello che sono: bassine.
    Come spiega al Foglio Giovanni Sartori: “Prodi numericamente ha vinto, nel senso che dispone d’una maggioranza. Ma in relazione alle aspettative ha perso, aveva cominciato la campagna elettorale con 5-6 punti percentuali di vantaggio e la sua coalizione aveva vinto tutte le elezioni intermedie dal 2001 in poi. Oggi si ritroverebbe a Palazzo Chigi per poche decine di migliaia di voti, non è un successo di leadership, né parlamentare.
    Con quattro voti di maggioranza al Senato voglio vedere come fa”. Potrebbe resistere un paio d’anni come nel biennio dal ’96-’98. “Allora è caduto gridando al complotto – prosegue Sartori – mentre la verità è che si è autoassassinato per un voto, rifiutando peraltro l’offerta di soccorso da parte di Francesco Cossiga e del suo gruppo.
    Il fatto è che l’arte di governare di Prodi non è mai stata eccelsa.
    L’uomo è rigidissimo e cocciuto, non dispone della flessibilità necessaria per fare grandi manovre in un contesto così difficile. Del resto è lo spazio d’azione della sua attuale maggioranza a essere minimo, e anche uno più bravo di lui non riuscirebbe a fare cose buone”.
    Sartori non crede all’effetto unificante della vittoria, in queste condizioni. “Una vittoria così miracolosa non compatta, la sinistra ha vinto in modo fortuito e fortunoso, per un’incollatura di voti. Non possono essere contenti neppure i Ds perché non sono usciti bene dalle urne. Temo ci sia molto malumore da quelle parti”.

    saluti

  2. #2
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    Predefinito Il perdente vincitore

    Dopo le contestazioni di rito, perfettamente comprensibili, intorno a quello 0,6 per mille (dicasi: per mille) che è la distanza tra il risultato ancora putativo dell’Unione e quello della Cdl alla Camera, mentre in Senato c’è una maggioranza assoluta di voti pro Berlusconi, avremo probabilmente un esecutivo Prodi fragile, una specie di potere senza governabilità, esposto a ogni vento e rovescio di fortuna.
    Si è determinata la stessa identica situazione che ha portato in Germania alla formazione di un ministero di unità nazionale. Da noi è molto più difficile che la mezza vittoria e la mezza sconfitta di entrambi i poli conduca allo stesso esito: c’è il premio di maggioranza, che vincola la coalizione dello 0,6 per mille, e c’è il sedimento di quella specie di guerra civile o di stato d’assedio permanente che è alle nostre spalle e, nella testa di molti, nel nostro immediato futuro.
    Ma il Cav., perdente vincitore, ieri comunque ha provato con molto spirito pratico a impostare il problema alla tedesca.
    Dietro questa faccia tosta c’è l’ovvio risultato politico del voto del 9 aprile: il referendum contro Berlusconi non è passato, e la leadership del Cav., soprattutto se saprà giocare di fino e con energia le prossime mosse, e rinsaldare il suo rapporto con la società italiana, è ancora fortissima nella sua coalizione e nel paese.
    Il nord ha parlato chiaro, e si sa quanto pesi, ma anche nel sud e nel centro si può apprezzare con i risultati siciliano, pugliese, campano e del Lazio la forza duratura di una coalizione e di un cartello politico che non sono di plastica.
    Il polo liberal-conservatore o popolare ha l’evidente problema di gestire il presente governando il futuro, di rinnovarsi e scegliere uno schema di gioco meno casuale di quello che ha accompagnato l’esperienza del governo. Berlusconi sa di dovere offrire un più accettabile assetto al suo conflitto di interessi, sul quale il giudizio della storia sarà molto più benevolo e malizioso di quello dei moralisti straccioni che vorrebbero deberlusconizzare l’Italia per capriccio ideologico.
    Il proprietario di un grande gruppo imprenditoriale a un certo punto si pone il problema della successione nella titolarità dei suoi beni, e il Cav. non farà eccezione.
    Quanto alla successione politica, c’è un tempo per tutte le cose, ma l’essersi battuto come un leone della foresta, l’aver rischiato così tanto e l’aver raggiunto l’obiettivo di segnalare in modo ormai evidente per tutti l’esistenza di un’altra visione dell’Italia e della politica, e di un altro paese consapevole di sé, tutto questo conferisce al Cav. il potere immenso di decidere con calma e fortezza tempi e modi del suo futuro pubblico, che intanto si incardina nel delicato ruolo istituzionale e civile di leader dell’opposizione e del primo partito italiano (di gran lunga il primo) o addirittura in quello del grande coalizzatore.
    Da questo punto di vista, tra Berlusconi e Prodi c’è una distanza siderale: uno è già un pezzo del mito italiano, l’altro deve cercare di sfuggire al destino di figurante senza consenso proprio e di amministratore di un governo che partirebbe male, da un risultato stentato, e di una coalizione che frigge per liberarsi del suo grigiore pedagogico.
    In una prima fase è probabile che il centrosinistra, dopo la grande paura notturna del 10 aprile, si rinsaldi esteriormente e al suo interno con meccanismi noti di disciplina politica, escludendo intese di alcun genere. Non è affatto escluso, lo diciamo con fair play, che Prodi, avvantaggiato dalla ripresa decretata sul finale elettorale anche da Banca d’Italia, ne azzecchi qualcuna. Ma alla distanza la coalizione dello 0,6 per mille, che è in sostanziale parità di seggi in una delle due Camere, dovrà porsi il problema di come fare le cose necessarie, di come promuovere l’evoluzione del sistema scombussolato dalla rivoluzione linguistica e politica berlusconiana, di quale cultura di governo e riformista far prevalere nel bailamme ideologico che ancora oggi la contraddistingue. Magari non sarà una replica delle sceneggiate del 1998 e della successiva battaglia nullista fra i capi. Magari si aprirà un vero fronte di rinnovamento culturale, dopo l’afflosciamento del revival anticlericale e laicista, questo lo vedremo giorno per giorno.
    Quel che è sicuro è che la mezza vittoria e la mezza sconfitta di queste elezioni, concetto valido per entrambi gli schieramenti, è più dolce e calda, paradossalmente, per Berlusconi, l’impresario degli happy end.

    Ferrara su il Foglio del 12 aprile

    saluti

  3. #3
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    Ottima analisi. Ferrra quando scrive è davvero un onesto Berlusconiano. Mi piace meno quando rinuncia a rimbeccare alle panzane dei personaggi di sinistra che invita nel suo studio. L'Armeni invece non rinuncia contro i pochi e spesso intimiditi invitati di centrodestra. Ma gioca in casa. L'elefantino invece gioca fuori casa e deve pensare alla pagnotta. Probabilmente la tiratura del Foglio non basta.

  4. #4
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    Citazione Originariamente Scritto da artnik
    Ottima analisi. Ferrra quando scrive è davvero un onesto Berlusconiano. Mi piace meno quando rinuncia a rimbeccare alle panzane dei personaggi di sinistra che invita nel suo studio. L'Armeni invece non rinuncia contro i pochi e spesso intimiditi invitati di centrodestra. Ma gioca in casa. L'elefantino invece gioca fuori casa e deve pensare alla pagnotta. Probabilmente la tiratura del Foglio non basta.
    --------------------------------------
    Amico: il suo compito, l'elefantino chiamato Ferrara, lo fa egregiamente quando riceve sulla 7 ospiti invitati dal canale.
    E lo dimostra ampiamente quando tu stesso- al posto suo - rimbecchi alle panzane dei personaggi di sinistra che stanno discutendo con lui.
    Quello è il suo lavoro, sulla 7.
    Diversissimo quando dirige il suo giornale.

    saluti

  5. #5
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    Predefinito Prodighiamoci

    Roma. Ora che la grande paura (che nelle previsioni proprio non doveva esserci) è passata, nel centrosinistra c’è chi qualche interrogativo sulla sostanza e sulla tenuta del prodismo se lo pone. Quasi sempre a mezza bocca, almeno ai vertici dei partiti della coalizione.
    Per esempio, a via Nazionale, gli uomini di Fassino tagliano corto:
    “Il tema è semplice: la legge elettorale permette alla coalizione con un solo voto di vantaggio di vincere. E questo è successo. Punto. Niente da discutere su Prodi e il prodismo. Punto”.
    Nella Margherita, dove molto si fatica a mandar giù il cattivo risultato elettorale, le bocche sono ancora più cucite, ma un po’ di malumore, ammette un dirigente, “esiste, non abbiamo avuto un grande aiuto dal candidato premier”.
    Tra i prodiani a oltranza si situa invece Fausto Bertinotti.
    Mentre la minoranza di Rifondazione critica pubblicamente la conduzione della campagna elettorale, il segretario non ha dubbi.
    “Abbiamo fatto una conferenza stampa nella stessa ora e abbiamo detto le stesse cose, noi e Prodi – dicono i collaboratori di Bertinotti – Tanto che poi i due si sono anche telefonati per complimentarsi a vicenda”.
    Ma la vittoria di misura ha lasciato l’amaro in bocca a molti. Lo ammette lo stesso Massimo D’Alema: “Ci aspettavamo un risultato più rotondo, una distanza marcata rispetto al centrodestra… Bisogna riflettere”.
    E se diversi altri big diessini rimarcano un certo rimpianto per la cifra finale, nel Prc c’è il capo della consistente minoranza dell’Ernesto, Claudio Grassi, che va all’assalto:
    “I voti percentuali e assoluti che hanno permesso all’Unione di affermarsi sono assolutamente deludenti, ben inferiori a ogni aspettativa”. E aggiunge:
    “Riteniamo che ciò sia conseguenza dell’incapacità, ampiamente dimostrata dall’Unione soprattutto nelle ultime settimane, di reagire all’offensiva di Berlusconi”.
    E un altro capo della minoranza, il trotzkista Marco Ferrando, è ancora più netto:
    “Prodi si è fatto mettere con le spalle al muro dalle destre”.
    Ma prese di posizione polemiche si registrano anche tra i riformisti dell’Unione, non solo nella sinistra antagonista.
    “Il risicato margine di distacco tra l’Unione e la Cdl – sostiene una personalità come Emanuele Macaluso – dice che Prodi non ne esce bene per gli errori fatti in campagna elettorale su tasse e imposte e sulle questioni sociali”. Per Macaluso, il leader del centrosinistra si è dimostrato “un uomo poco attento, come se non avesse capito la qualità della società e non si è messo in sintonia con essa”.
    Così, forse non è un caso che ieri, proprio mentre si infittivano i mormorii sugli effetti del prodismo nell’ultima campagna elettorale, sono rispuntati improvvisamente i nomi di Veltroni e Rutelli per la leadership del partito democratico.
    Li ha rilanciati Paolo Mieli, evocando “la babele di lingue” di questa campagna elettorale.
    “Se hanno qualcosa da dire – esorta il direttore del Corriere della Sera – lo facciano adesso: il momento è questo”.
    Ma non è l’unico.
    A invocare l’entrata in scena di Veltroni è anche Peppino Caldarola, secondo il quale al Cav. “abbiamo bisogno di contrapporre una leadership fascinosa, insieme radicale e rassicurante, che sappia parlare anche agli elettori del centrodestra”.
    Serve “un netto cambio delle classi dirigenti del centrosinistra. Occorre fare venire avanti una nuova leva di dirigente giovani e innovativi. Mi pare che questo sia un vestito che si adatta perfettamente alla figura di Veltroni”.
    E qui (un caso?) entra davvero in scena il sindaco di Roma. Che ha lungamente commentato il risultato elettorale e molto lodato quello a favore del centrosinistra nella sua città, “Roma può essere il laboratorio politico giusto per il partito democratico del centrosinistra”.
    Voci e sottolineature arrivate fino alle orecchie di Prodi, che ieri poteva però consolarsi con una vignetta sul sito dei Ds:
    “E adesso Prodighiamoci”.

    saluti

  6. #6
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    Predefinito Non perdiamo il blocco sociale del Nord

    Milano. Ad azzoppare Romano Prodi è stata una manovra a tenaglia di Silvio Berlusconi e Fausto Bertinotti.
    L’effetto è stato quello di trascinare il candidato premier dell’Unione sul terreno più congeniale alla strana coppia: quello fiscale.
    Il Cav. e il leader comunista avevano infatti tutto l’interesse a sottolineare il tema delle tasse.
    Il primo per spaventare il popolo dei produttori, strappare un consenso a bocca storta per paura dell’esproprio proletario che si sarebbe consumato, in caso di vittoria del centrosinistra, a colpi di imposte di successione e prelievi sulle rendite finanziarie.
    Il secondo per chiamare a raccolta il suo target elettorale, dando fiato alle trombe della redistribuzione economica a favore dei ceti sociali più svantaggiati.
    Il risultato delle elezioni, e la massiccia affluenza, suggeriscono che esista, in Italia, un blocco sociale che calibra le sue decisioni politiche col bilancino della dichiarazione dei redditi.
    Di fronte a un aspirante premier che parla di una soglia di ricchezza oltre la quale non si è più felici, questa minoranza silenziosa, ma determinante, che aveva già garantito il successo della Casa delle libertà nel 2001, si è nuovamente messa in moto per scongiurare un cambio di maggioranza parlamentare. A ben guardare, la campagna del 2006 riflette specularmente quella di cinque anni fa. Allora il Cav. seppe mietere consensi vendendo il sogno di un’Italia più libera da fisco e burocrazia; oggi argina la sconfitta annunciata evocando l’incubo della ghigliottina di sinistra pronta a calare investimenti e risparmi.
    Sebbene lo strato produttivo del paese si sia schierato prevalentemente a destra, non può essere né ignorato, né massacrato fiscalmente dalla nuova maggioranza uscita dalle urne: sul Financial Times di ieri un intervento di Ian Buruma ammoniva che “è impossibile guidare un’economia moderna
    senza il supporto delle classi medie urbane”. La ragione è semplice: sono loro che, spostando il proprio voto o con la decisione di recarsi alle urne o astenersi, giocano da ago della bilancia del confronto politico. Di più: sono loro che lavorano, producono, pagano le tasse e reggono il peso dello stato, specie in un paese come l’Italia che ha una spina dorsale economica fatta da piccole e medie imprese ed è caratterizzato da un elevato livello di spesa pubblica.
    Un paese, quindi, nel quale una quota di elettori, tanto corteggiata quanto illusa, chiede scelte liberiste, meno tasse, meno stato, più spazio alla società e al mercato.
    Curiosamente, la Cdl dilaga nelle sue roccaforti del nord proprio quando, anche a causa dell’assenza di Umberto Bossi, la Lega si ridimensiona.
    Rispetto alle regionali 2005, in Lombardia la Lega cala dal 15,8 per cento all’11,7; in Piemonte dall’8,5 al 6,4; in Veneto si mantiene sul 14,7, anche perché l’erosione (a favore di altri movimenti autonomisti) si era già consumata.
    Nelle stesse regioni, Forza Italia passa dal 26 al 27; dal 22,4 al 23,6; e dal 22,7 al 24,5. Complessivamente, nel nord la Lega è un player minore, determinante ma in declino: il suo 8,5 per cento è al di sotto del 10,9 di An e del 23,9 di FI, ed è incalzato dall’Udc col 6,3.
    Il feeling con le regioni padane s’è affievolito soprattutto per una scelta strategica del Carroccio, che ha mollato la presa sulla questione settentrionale per arroccarsi sulla devolution (tema poco economico), e su temi quali la famiglia, le coppie gay e l’immigrazione, che non esercitano un appeal specifico sul vecchio elettorato di riferimento.
    Il Cav. ha così potuto collezionare, specie al nord, i consensi di quel popolo che, pur deluso dal Berlusconi premier, ha trovato in Berlusconi un leader dell’opposizione. Il futuro del centrodestra può dipendere da come saprà rispondere a questo coagulo sociale che ha rifiutato l’offerta prodiana di essere tutti uniti, tutti felici.

    saluti

  7. #7
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    Predefinito Dio stramaledica gli inglesi

    Roma. “Close, but no cigar”, ci sei andato vicino ma non hai vinto.
    L’Economist di questa settimana usa un’espressione da luna park per titolare il suo commento sul risultato delle elezioni italiane: il sigaro è stato a lungo un premio per il lancio degli anelli e quel grido – “close, but no cigar” –era il preludio del premio di consolazione.
    Immortalando Romano Prodi festante su sfondo giallo, simbolo dell’Ulivo e bandiera sventolante (mezza accartocciata: nella lunga notte dei risultati Prodi ci ha dimostrato di non essere molto pratico di sbandieramenti), l’Economist affossa ulteriormente l’Italia, ora malinconica.
    Se Silvio Berlusconi s’è preso un “Basta” in copertina – oltre a una buona dose di “unfit” – a Prodi non è che vada benissimo.
    Gli tocca un ben poco lusinghiero “non carismatico”, oltre che una sentenza mortifera:
    “Mr Prodi capisce che l’Italia ha bisogno di cambiamenti. Ma non è un liberista orientato verso il libero mercato, e la sua coalizione a 13 gruppi comprende due partiti comunisti che sono visceralmente contro le riforme. Sotto la loro influenza, una delle prossime sicurezze garantite dal centrosinistra è il ribaltamento della legge Biagi fatta dal centrodestra che ha permesso un boom nel lavoro interinale e part time”.
    Ecco fatto: questo governo non può governare e se governa, governa male.
    L’autore di questo commento, John Peet, direttore della sezione europea dell’Economist ed editorialista per gli affari italiani, dice al Foglio che la paralisi in cui versa l’Italia è preoccupante e conferma le sue cupe previsioni:
    “Prodi formerà il suo governo, ma è molto improbabile che riesca a fare le riforme necessarie perché all’interno del suo gruppo ci sono formazioni che le riforme non le appoggeranno mai, perché non le vogliono”.

    Lo scenario migliore
    Poi con percentuali così risicate di maggioranza – ancora da verificare per altro –c’è poco da stare sereni. Peggio di così non poteva andare, scrive l’Economist:
    “Già in un altro paese la situazione sarebbe stata delicata, ma con la posizione economica italiana che si sta deteriorando velocemente il risultato appare ancora più pesante”.
    L’Italia a braccetto con le piazze piene della Francia (che non si svuotano neppure ora che il contratto contestato è stato smantellato) e una Germania che si sta mettendo sul terreno scivoloso delle riforme dopo aver preso più tempo possibile hanno contribuito a “un’altra grandiosa settimana per l’Europa” fatta di “paralisi in Italia e capitolazione in Francia”, come c’è scritto sulla copertina del magazine britannico (edizione europea).
    Prodi “vivrà nel terrore” di una chiamata alle urne anticipata –spiega il reportage da Roma – che è impossibile a causa del noto ingorgo istituzionale (nomina del presidente, elezioni di sindaci importanti, referendum costituzionale sul federalismo) e che comunque “non cambierebbe di tanto la situazione – chiosa Peet – Il paese resta diviso a metà”.
    L’analista dell’Economist nutre anche una certa diffidenza nei confronti dell’ipotesi di grande coalizione, in generale come strumento e in particolare per il contesto italiano.
    Dice che “ci vuole una preparazione per questo tipo di governo: lo scontro tra Prodi e Berlusconi è stato troppo aspro per poterli immaginare seduti allo stesso tavolo”.
    E l’isterico “no grazie, il vincitore sono io” di Prodi non aiuta a calmare gli animi.
    Il futuro non sembra luminoso per nulla, insomma, comunque vada sarà un insuccesso.
    E se Peet considera “il miglior scenario” un ministero dell’Economia “affidato o a Mario Monti o a Tommaso Padoa-Schioppa con l’aiuto del governatore Mario Draghi” è evidente che il percorso verso le riforme appare quantomeno tumultuoso.
    Ma – sorride Peet – tutto è possibile in un paese fantasioso come l’Italia.

    Da il Foglio di giovedì 13 aprile

    saluti

  8. #8
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    Predefinito Volano i coltelli dopo il flop nella Città

    Roma. Ci sono gli alleati-soci diessini che un po’ sghignazzano e un po’ s’incazzano: “Un partito di plastica. Se si fossero dati un po’ più da fare, mezzo punto, un punto in più, non avremmo perso il Senato nel Lazio”.
    Loro, quelli della Margherita, un po’ replicano (“pure i Ds, a Roma, si aspettavano il 26 per cento”) e ovviamente ammettono, come fa Roberto Giachetti, il segretario cittadino: “Un risultato chiaramente insoddisfacente”. Brucia, sotto la pelle dell’universo rutelliano, il risultato nella capitale, che appunto Rutelli per otto anni da sindaco ha guidato: appena il 9 per cento, sotto Rifondazione che ha il 9,5, parecchio meno della metà dei Ds, al 21,5. Insomma, a Roma la Margherita, se si tiene conto sull’altro fronte dei risultati di Forza Italia e An, è il quinto partito. Vero che le stesse previsioni davano la Margherita tra il 9 e l’11 per cento, “e non potevamo certo prendere i voti del 2001, con Rutelli candidato premier, e rispetto alle ultime provinciali siamo passati da 72 a 147 mila voti: non è una catastrofe nucleare”, insiste Giachetti, ma tutti i dirigenti hanno lo stesso l’amaro in bocca. Soprattutto, ha impressionato lo scatto in avanti del Prc, che ha così spedito, nella capitale d’Italia, i moderati del centrosinistra al terzo posto.
    Del resto, da gran tempo per la Margherita le cose non sono facili.
    Un partito diviso in componenti, con i prodiani ulivisti guidati dal presidente della Provincia, Enrico Gasbarra, mentre il rutelliano Giachetti guida il partito in città, e Giorgio Pasetto quello laziale. Personalità e sensibilità che s’incontrano e (più spesso) si scontrano.
    Nelle cronache di questi giorni, le polemiche sono esplose. L’assessore regionale Silvia Costa ha accusato i candidati del partito alle prossime elezioni comunali di “strabismo politico”:
    “E’ sembrato che questa campagna elettorale, per le politiche, non li riguardasse”.
    Gasbarra, pubblicamente, si è lamentato: “Mi sento trattato come un semplice militante”.
    E la polemica è ancora più feroce sulle candidature volute da Rutelli e da Franco Marini. Spiegano gli (interessati) alleati diessini: “Le hanno imposte scontentando il gruppo dirigente locale, aprendo conflitti. Così, tutte le componenti e le correnti erano insoddisfatte. Non sarà una matassa facile da sbrogliare, quella romana. C’è appunto l’insoddisfazione di Gasbarra, che
    racconta: “Per tre anni, a Roma, tutta l’area ulivista, più del 35 per cento del partito - quella che ha organizzato la cena con duemila persone con Prodi al Palaeur – non ha avuto patria. Il partito è chiuso in se stesso, neanche un conflitto”.
    Replica Giachetti ricordando che al tempo del congresso, quando fu eletto segretario, “Gasbarra scelse la strada dell’Aventino con i suoi amici, preferendo non partecipare. Noi abbiamo lavorato per ricostruire l’unità in tutti i municipi. E’ ingeneroso dire che non c’è una gestione unitaria”.
    In realtà, Gasbarra non ce l’ha tanto con Giachetti, quanto con Pasetto, il segretario regionale, “ultimo segretario della Dc, primo segretario del Ppi, primo segretario della Margherita”. Accusa il presidente della Provincia: “Il partito ha un messaggio forte, il progetto di Rutelli è accattivante, ma non siamo attrezzati, né dal punto di vista della gestione unitaria né da quello dell’utilizzo degli uomini che fanno opinione. E’ come avere a disposizione una macchina da Formula Uno e andare in giro con una 126”.
    Lamenta anche, Gasbarra, di “non essere utilizzato dal partito”. Ha fatto notare, nelle ore successive all’apertura delle urne:
    “Non è colpa mia se quando Rutelli andava a Genzano io venivo dirottato ad Amatrice. Insieme avremmo ottenuto un effetto maggiore”.
    E Giorgio Pasetto, che dice? Mantiene il profilo basso, il coordinatore regionale, e si lamenta molto del voto sul litorale (provincia, non a caso, romana e dunque gasbarriana).
    E il rutelliano Mario Di Carlo ha maliziosamente annotato che “la Margherita ha preso pochi voti perché ha una responsabilità di governo forte senza avere la visibilità”.
    Replica Gasbarra: “Nella provincia il centrosinistra è cresciuto: fui eletto con un milione di voti, oggi siamo a un milione e 370 mila”.
    Poi rilancia la sua critica alla gestione del partito: “E’ dal 2002 che leggo sui giornali i nomi dei nostri candidati. Nessuno mi ha mai chiesto un consiglio, che avrei dato ben volentieri”.
    Giachetti prova a smussare: “E’ evidente che qualcosa non è andato, che non abbiamo fatto il botto, ma anche che il risultato è caduto addosso a tutti, pure ai nostri alleati”.
    I quali sono apertamente in attesa di “una resa dei conti” nel partito rutelliano.
    Fanno già sapere i Ds: “Deve essere chiaro che nel partito democratico che andiamo a costruire non devono portare logiche del genere”.
    Ammette Giachetti: “Ci sono dei problemi del partito che non voglio trattare sulla stampa, ma nelle sedi interne”.

    Di solito, a primavera, le margherite se la passano meglio.

    Da il Foglio

    saluti

  9. #9
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    Predefinito E' in arrivo la prima cambiale

    Milano. La prima cambiale è stata presentata all’incasso.
    Il nuovo governo non ha ancora visto la luce, ma a casa di Romano Prodi qualcuno si è già fatto vivo, nella duplice veste di ufficiale giudiziario e socio di maggioranza.
    Guglielmo Epifani, nel primo comitato direttivo post-elettorale della Cgil, ha usato il tono perentorio del creditore intenzionato a convertire il credito in azioni: un ritocco non basta, la legge Biagi va cancellata.
    Dopo l’euforia del congresso nazionale di Rimini, che ai primi di marzo aveva sancito l’appoggio esplicito del sindacato all’Unione con il motto “non 100, ma 3.000 giorni di collaborazione”, Epifani ha scelto il silenzio.
    Poi, martedì sera è stato ospite a Ballarò, a fianco del segretario dei Ds Piero Fassino.
    E, mercoledì, ha ribadito la sua posizione: una croce sulla Biagi. “Una sorta di prova d’amore – ironizza Giuliano Cazzola – chiesta al governo prima ancora che si insedi”.
    Il pronunciamento ha turbato l’anima più moderata del centrosinistra.
    Ieri nel Corriere della Sera Tiziano Treu, membro della Margherita e ministro del Lavoro nel primo governo Prodi, ha risposto senza mezze misure:
    “Chiedere l’abrogazione può essere una posizione ideologica, ma governare è un’altra cosa”.
    Queste parole hanno evidenziato l’imbarazzo del padre del pacchetto di riforme approvato nel 1997 che, insieme al recepimento nel 2001 della direttiva comunitaria sui contratti a tempo, costituiva l’ossatura delle regole su cui, nella primavera del 2003, si sarebbe innestata la legge Biagi.
    La sortita di Epifani influisce non poco sul quadro politico. Soprattutto se si considera il notevole peso assegnato dalle urne a Rifondazione comunista, Comunisti italiani e Verdi, con la costituzione di un blocco che, fuori e dentro il Parlamento, si oppone a ogni forma di flessibilità del mercato del lavoro.
    Anche se l’uscita del capo della Cgil può rappresentare un’interessante apertura di gioco, per il Prodi generale senza truppe proprie, che nel suo composito esercito si ritrova meno truppe moderate del previsto.
    “Il Professore – dice Cazzola – potrebbe giocare d’anticipo grazie a un asse con la Cgil. Presentando accordi già conclusi con quest’ultima, taglierebbe fuori da ogni decisione strategica i bertinottiani e la parte più antagonista della coalizione”.
    Tuttavia la fragilità di Prodi, evidenziata dalla dichiarazione di Epifani, potrebbe trasformarsi paradossalmente in una condizione di forza, magari temporanea, nell’interpretazione che ne dà Daniele Capezzone, leader della componente giavazziana e ultraliberista della Rosa nel pugno: “Oggi – dice – Prodi è debole. Però il contesto è estremamente complicato: la maggioranza risicata, le difficoltà dell’economia, le prime critiche della stampa internazionale, il rischio di perdere la prossima tornata amministrativa.
    Tutto ciò garantisce a Prodi una speciale forza temporanea. Basta che scelga di calare presto sul tavolo del governo la carta delle riforme dei servizi e del mercato del lavoro”.
    Per i radicali confluiti nell’Unione, quindi, serve un ritorno al Marco Biagi del Libro Bianco.
    Un documento che, al capitolo della flessibilità, aggiungeva quello degli ammortizzatori sociali. Ma, oggi, al centrosinistra serve anche altro.
    “Qualunque provvedimento decida di prendere – commenta il sociologo Luca Ricolfi – il futuro governo parta da un’analisi oggettiva di cosa è successo negli ultimi dieci anni in Italia.
    Nel lavoro, e non solo”. La legge Biagi, quindi, va ricollocata nella corretta dimensione storica: ha riordinato un mercato che stava diventando selvaggio per la crescita esponenziale delle collaborazioni coordinate e continuative, allora prive di alcuna salvaguardia. “E poi – continua Ricolfi – i suoi effetti vanno ricondotti alle giuste proporzioni”.
    Oggi su 15 milioni di lavoratori dipendenti, i collaboratori sono fra i 400.000 e i 500.000: con la stima più estensiva, poco più del 3 per cento.
    “La metà – chiosa Cazzola – sono vecchi co.co.co trasformati dalla Biagi in collaboratori a progetto. Quindi, con contributi previdenziali, tutela in caso di malattia, diritto alla maternità”. Secondo un’analisi dell’Isfol, solo il 10 per cento degli addetti usufruisce attualmente di tipologie contrattuali introdotte o rivisitate dalla Biagi.
    Che è sempre stata giudicata da Confindustria una norma essenziale per instillare nel tessuto imprenditoriale, almeno nel medio termine, elementi di flessibilità.
    Ora, anche nel partito più strettamente montezemoliano c’è la preoccupazione che una invasione di campo del sindacato possa produrre il caos. Proprio mentre il mondo delle imprese ha bisogno di stabilità.
    “Perfino la Fiom – si lascia scappare un alto esponente di Confindustria – è più pragmatica di Epifani. Loro, almeno, le trattative alla fine le chiudono”.
    Con il diktat del segretario della Cgil, invece, le negoziazioni sembrano appena incominciate.

    Forza Italia e auguri: ce la farai!!

    saluti

  10. #10
    salvio161
    Ospite

    Predefinito

    Ciao. Mi dai la fonte dell'ultimo articolo?

    Grazie mlle.

 

 

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