Roma. Dunque il Cav. non molla, dice che al momento “non c’è nessun vincitore” e la partita elettorale rimane aperta fino all’ultima verifica dei verbali contenenti quei presunti 24 mila voti di scarto alla Camera che distanziano dall’Unione. Si proclama ancora ottimista sulla possibilità d’aver vinto le elezioni (“La sinistra potrà puntare alla rinvincita in occasione delle amministrative”).
Poi però stupisce tutti quando aggiunge serio che, in caso di spartizione delle due Camere tra i Poli, il bene del paese consiglia di “sedersi al tavolo” con Romano Prodi (che ha già detto no) e vedere se non sia il caso di fare come in Germania: una grande coalizione per “unire le forze nella concordia” (proposta rilanciata in serata da Giulio Tremonti).
Fa strabuzzare gli occhi, ma ha una coerenza logica, il Berlusconi visto e ascoltato ieri pomeriggio in conferenza stampa insieme con Gianfranco Fini di An, Lorenzo Cesa per l’Udc (a sostituire Pier Ferdinando Casini) e Roberto Maroni per la Lega.
Un’iniziativa preceduta da incontri e rinvii che incoraggiavano retropensieri.
Ma quando gli alleati hanno preso la parola è stato un inseguirsi di complimenti a Berlusconi per la campagna elettorale (Fini), di manifestazioni lealiste (Cesa) e propositi di compattezza e chiusura a ogni cedimento verso l’Unione (Maroni).
A saldare la Cdl c’è il fallimento del referendum contro Berlusconi testimoniato dalle urne che riconoscono al centrodestra per lo meno la maggioranza assoluta dei voti al Senato. Ma c’è pure l’intelletto di osservatori non banali come Giovanni Sartori (“Lo sconfitto è Romano Prodi, Berlusconi resta”, ha detto a caldo in tv); e contribuiscono perfino certi scatti emotivi della sinistra radicale.
Su tutti quello di Rossana Rossanda che ha corredato un titolo-autodafè del Manifesto (“Ci siamo fatti del male”) con una dissertazione sulle “viscere più torbide” di un paese rimasto per una metà abbondante berlusconiano.
Dato per esule in patria fino alla vigilia del voto, penalizzato dalla legge elettorale che si era cucito addosso, a lui si addice il paradosso del perdente vincitore.
Mentre Prodi doveva stravincere e rischia invece di non poter governare dentro casa, isolato e debole com’è in Parlamento.
Il Cav. forse non governerà, resta però il primo azionista della Cdl e in lui si riconosce mezza Italia. Di questo si sono convinti Fini e Casini, che approvano l’operazione trasparenza lanciata in conferenza stampa da Berlusconi per verificare la “dose fisiologica di errore” nella trasmissione dei verbali dalle prefetture al Viminale.
La Cdl non riconosce ancora il peso e la qualità della vittoria prodiana.
Sarà battaglia e vedremo forse il popolo di centrodestra manifestare in piazza dopo la Pasqua.
Se l’Italia è divisa in due e la metà semivincitrice fa finta di niente, è legittimo che l’altra metà si faccia notare. Era scontato che i leader dell’Unione, lunedì notte, rivendicassero una vittoria dal profilo ancora indefinibile al Senato.
L’incertezza è svanita ieri grazie al voto degli italiani all’estero che hanno premiato l’Unione (4 seggi) perché il centrodestra (un seggio soltanto) si è sciattamente presentato con liste tra loro concorrenti.
La fretta mostrata da Prodi e dai suoi sostenitori, una volta registrata l’affermazione notturna alla Camera, è dipesa dal bisogno di normalizzare il prima possibile un risultato eccentrico.
C’è stata una forzatura, l’azzardo ha pagato al di là dei volti artefatti e piegati al sorriso dei vari Fassino e Rutelli e Sbarbati. Poco credibile è il carme trionfale con il quale i dirigenti dell’Unione hanno accompagnato la festa.
Guardando ai numeri, le urne consegnano a Prodi una maggioranza meno governabile di quella che lo abbandonò così rapidamente dopo l’esperienza del 1996-’98.
Di qui l’accelerazione verso il partito democratico innescata dal professore bolognese e dai Ds.
La soluzione democrat non è il logico sviluppo di un progetto politico, al momento pare il rifugio dei partiti principali della coalizione (Ds e Margherita) uniti da una perfomance elettorale deludente e dalla paura di arrivare disorganizzati alla prima disputa con la florida sinistra estrema e le altre formazioni identitarie.
E’ tuttavia escluso che Fausto Bertinotti (Rifondazione comunista), Oliviero Diliberto (Pdci) e gli altri (Verdi, dipietristi e rosapugnoni) cercheranno la sfida rusticana a breve termine.
Chi è costretto a passeggiare nel buio di un maggioranza così friabile, di regola, è incline a tenersi per mano con il vicino. Non certo a spintonarlo.
In concreto assisteremo per diversi mesi a una spinta centripeta nell’Unione, a una ricerca obbligata di coesione all’interno del centrosinistra.
Prevarrà la voglia di governare frustrata per cinque anni e a questa si annoderà il tentativo di gestire senza eccessi l’avvicendamento al Quirinale.
E’ immaginabile un intermezzo di cordialità istituzionale, per quanto Prodi abbia già negato alla Cdl la presidenza d’uno dei due rami del Parlamento.
Lo ha fatto un po’ per trattare da una posizione di forza ben perimetrata, un po’ per pressioni interne. A questo si somma la previsione che il centrodestra si riorganizzerà con un partito unitario popolar-populista dotato di regole e mura invalicabili in modo da proteggere gli uni e gli altri da tentazioni trasformistiche.
Fermo restando che i cantori delle larghe intese sono più influenti nei giornali dell’establishment, che maggioritari nelle aule del Palazzo, ostacolati da un conflitto bipolare fresco e cruento che ha rivelato un paese non
“deberlusconizzabile”.
A dimostrazione dell’assunto, c’è il capitolo relativo alla legge elettorale.
Prodi e i Ds vorrebbero una riconversione al maggioritario, non così una parte dei Dl e gli altri alleati. Il sistema di voto non verrà toccato prima che i due Poli abbiano offerto garanzie solide di tenuta.
E semmai si procederà a una correzione verso il doppio turno alla francese o il modello tedesco (misto di maggioritario a turno unico e proporzionale con sbarramento alto). Ci sarà tempo per pensarci. E va da sé che presto o tardi le aspettative di vita del governo Prodi si riveleranno per quello che sono: bassine.
Come spiega al Foglio Giovanni Sartori: “Prodi numericamente ha vinto, nel senso che dispone d’una maggioranza. Ma in relazione alle aspettative ha perso, aveva cominciato la campagna elettorale con 5-6 punti percentuali di vantaggio e la sua coalizione aveva vinto tutte le elezioni intermedie dal 2001 in poi. Oggi si ritroverebbe a Palazzo Chigi per poche decine di migliaia di voti, non è un successo di leadership, né parlamentare.
Con quattro voti di maggioranza al Senato voglio vedere come fa”. Potrebbe resistere un paio d’anni come nel biennio dal ’96-’98. “Allora è caduto gridando al complotto – prosegue Sartori – mentre la verità è che si è autoassassinato per un voto, rifiutando peraltro l’offerta di soccorso da parte di Francesco Cossiga e del suo gruppo.
Il fatto è che l’arte di governare di Prodi non è mai stata eccelsa.
L’uomo è rigidissimo e cocciuto, non dispone della flessibilità necessaria per fare grandi manovre in un contesto così difficile. Del resto è lo spazio d’azione della sua attuale maggioranza a essere minimo, e anche uno più bravo di lui non riuscirebbe a fare cose buone”.
Sartori non crede all’effetto unificante della vittoria, in queste condizioni. “Una vittoria così miracolosa non compatta, la sinistra ha vinto in modo fortuito e fortunoso, per un’incollatura di voti. Non possono essere contenti neppure i Ds perché non sono usciti bene dalle urne. Temo ci sia molto malumore da quelle parti”.
saluti