Un governo senza numeri è solo potere

di Gabriele Cazzulini - 20 aprile 2006

La diatriba sui risultati delle elezioni, emersa in seguito all'incredibile e inaspettato esito del voto del 9 aprile, ha scritto ieri quello che sarà, molto probabilmente, il suo capitolo finale. L'inchiostro ce l'hanno messo i giudici della Corte di Cassazione che, dopo ponderati conteggi delle schede sospette e rilettura dei verbali di scrutinio, hanno finalmente parlato. Parole secche: è confermata la maggioranza millimetrica di 24.755 voti che fanno pendere l'ago della bilancia dalla parte dell'Unione - questa volta, a quanto pare, senza più possibilità di ribaltare i piatti.

I falchi dell'ideologia anti-Berlusconi si erano prontamente avventati sulla legittima richiesta di rivedere il conteggio dei voti , che sembrava assegnare all'Unione una illegittima vittoria. Se invece di ibernare il cervello ci avesse pensato per qualche minuto, anche l'Unione avrebbe capito che questa operazione, anche se rinviava i botti dei festeggiamenti, avrebbe potuto rimpolpare la sua scarna maggioranza tecnica. Ha però prevalso la rabbia e la frenesia di varcare la soglia del Palazzo, comunque sia.

Per qualche momento è parso ai commentatori più apocalittici che il destino politico dell'Italia fosse, ancora una volta, nelle mani dei giudici, pronti a decretare con una sentenza la vittoria di una metà dell'Italia sull'altra. Ma questa visione così funesta non si è realizzata. Eppure rispetto al 9 aprile non sembrano esserci novità decisive per tirare fuori la politica da questo pantano. La Casa delle Libertà resta compatta, mentre l'Unione ha già mal di pancia sulle nomine dei presidenti delle due camere. La «voglia matta» di acciuffare la poltrona di premier sta spingendo Prodi a febbrili consultazioni con i partiti dell'Unione, comportandosi come se Ciampi gli avesse conferito l'incarico. Scelta che invece il Capo dello Stato si è ben guardato dal compiere; ma per Prodi tra fantasia e politica c'è poca differenza.

La politica continua a restare inchiodata in questa stasi. La CdL non ha perso, non è stata distrutta e Berlusconi è il vincitore morale, mentre l'Unione si ritrova vincitrice per caso, senza legittimità. I numeri quindi non cambiano e non fanno cambiare il senso di questo clima politico impazzito, senza regole presenti e senza un futuro prevedibile. Un futuro ove si intravede un sottile filo rosso, colore più che mai in voga, che ricuce su questo informe tessuto senza capo né coda le nomine dei presidenti di camera e senato. Esse spettano all'Unione, ma i ragionamenti sugli equilibrismi tra le domande di tutti gli aspiranti alla seconda e terza carica dello Stato sono circondati da una premessa di fondo. Le condizioni minime per tentare una qualche attuazione del macchinoso programma dell'Unione si sono sfasciate l'11 aprile. Niente legittimazione elettorale per Prodi, niente trionfo della lista unitaria, anzi una débacle per Ds e un passo falso per la Margherita. «Last but not least» una maggioranza artificiale alla Camera e una da inventarsi al Senato. Impossibile tentare di portare avanti una linea politica con un'adeguata opera legislativa.

Cosa resta? Svanito il progetto di governare, l'Unione pensa a «durare», ad occupare, a mantenersi al governo, con o senza Prodi. Poco importano i cognomi dei candidati o i colori dei loro partiti. Occorre fortificare le Camere per farne i bastioni da cui difendere il potere dell'Unione - che non vuol dire soltanto il governo dell'Unione ma il ramificato controllo del potere della sinistra sull'intero Paese. In questi giorni il centrosinistra si rivolge alle camere con lo sguardo di chi cerca trincee per apprestarsi ad una lunga guerra di posizione. E' quella che Gramsci raccomandava al partito comunista di seguire - ma non di subire.