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    Predefinito Toscana: terra celtica e germanica

    I Giovani del Granducato invitano alla lettura dell'ultimo libro ad opera di Luciano Cini : Toscana sacro Romano Impero di nazione germanica. Libro che gli aderenti al Fronte Indipendentista Toscano stanno già comperando in abbondanti copie per poterne fare un testo chiave della propaganda culturale interna ed esterna al Movimento che nascerà.

    A livello culturale gli aderenti al Fronte in Toscana si adopereranno per cancellare la leggenda che vuole i Toscani eredi biologici degli Etruschi mentre al contrario il tessuto etnico toscano è impregnato di celticità e soprattutto di germanicità. In quest'ultima caratteristica etnica i Toscani, abitanti della terra Longobarda per antonomasia, possono dirsi ben più nordici di altri popoli padani.

    Un esempio concreto? Un censimento dell'esercito, a pochi anni dalla sciagurata unificazione, rivelava come la Toscana avesse il più alto tasso di biondismo tra le regioni italiane.

    Lorenzo Proia
    Responsabile Ufficio Stampa Lega Nord Toscana
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  2. #2
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    Predefinito Chi è Luciano Cini

    Luciano Cini è nato a Pisa nel 1952, laureato in storia economica, è autore di articoli di carattere storico su quotidiani e riviste. È relatore di conferenze sulla storia medievale, sul periodo risorgimentale e sull’attuale situazione economica. Attualmente sta lavorando di concerto con l’Università di Pavia e il prof. Cavalli Sforza, in sinergia con l’Avis di Livorno e Bergamo, ad un progetto che prevede la mappatura genetica sul territorio toscano. L’intento è quello di verificare la possibilità di prevenzione delle malattie genetiche.

    Ha vinto nel 1993 il Premio Letterario Tavolozza di Carnevale di Viareggio.

    Ha pubblicato tra l’altro:
    “Toscana sacro Romano Impero di nazione germanica” edizione Donnino 2005
    Lorenzo Proia
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  3. #3
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    Predefinito Toscana terra Longobardica, Luciano Cini

    I Longobardi furono gli ultimi “barbari” che valicarono le Alpi, giungendo dalla Pannonia (grosso modo l’attuale Ungheria), dalla quale fuggirono in fretta e furia impauriti dal numero e dalle capacità guerriere dei Mongoli Avari, che occupavano le zone circostanti. I Winniler (così li chiamava Paolo Diacono) arrivarono dunque in Padania passando per le Alpi orientali; con loro vi erano altri gruppi etnici come gli Svevi, i Turingi, i Gepidi, i Sassoni ed i Bulgari: si calcola che il loro capo Alboino portò con sè un’orda di circa 400.000 guerrieri. Alle avanguardie si unirono le “fare”, sorta di clan parentali, e la prima città attaccata ed espugnata fu Cividale, dove Alboino lasciò il duca e nipote Ghisulfo ed un consistente nerbo di Arimanni nobili e fidatissimi, in un certo senso l’elìte della stirpe longobarda.
    In quel periodo il Friuli era una regione spopolata perché gli abitanti fuggirono quasi tutti con i Bizantini, perciò i Longobardi più nobili decisero, come abbiamo visto, di stabilirsi in questa regione particolarmente adatta al ripopolamento. Il resto della “Volkerwanderung” (migrazione di popoli) andò in cerca di fortuna attraversando la Pianura Padana. Qui l’orda teutonica non trovò altre grandi aree spopolate, ma si trovò di fronte una cospicua massa di Celto-romani, per cui con il passare del tempo l’elemento celtico si mischiò completamente con quello germanico, a differenza di quanto accadde non solo in Friuli ma anche, la cosa stupirà molti, in Toscana.
    Per rendere meglio l’idea, nella seconda metà del VI secolo dopo la nascita di Cristo i Bizantini riuscirono a creare una sorta di tenaglia strategica attorno ai Longobardi ormai insediatisi nell’intera valle del Po: tutta la laguna veneta era rimasta fedele all’Impero d’Oriente, più a meridione la Romagna e la Pentapoli bloccavano l’accesso alle coste e dall’altra parte tutta la Liguria era anch’essa in mano bizantina.
    Mancava perciò ai Longobardi uno sbocco al mare, e oltretutto c’era il problema dell’insufficienza del sale e di altre materie prime nella Pianura Padana. Probabilmente qualche goto rifugiatosi in Lunigiana riferì ad Alboino che al di là degli Appennini c’era una terra ricca di argento, ferro, rame, piombo, saline, miniere e fonderie. Insomma un vero e proprio “Eldorado”, per di più con l’aspetto ed i paesaggi simili a quelli della Germania, tanto cara ai loro ricordi, in special modo a quelli dei Sassoni (i più battaglieri ed irrequieti fra i popoli al seguito dei Longobardi): una terra la cui conquista avrebbe anche risolto il problema del tanto desiderato sbocco sul mare. Quando i Longobardi calarono in Toscana non trovarono un gran numero di Celti come nella Pianura Padana, ma non trovarono neanche gli Etruschi: essi infatti erano quasi scomparsi già ai tempi dell’Impero Romano.
    Uno storico del tempo, Procopio di Cesarea, testimonia inoltre che dopo le guerre Gotico-bizantine, prima dell’arrivo dei Longobardi, la Toscana rimase spopolata a causa delle carestie e delle pestilenze che si ebbero nella zona durante e dopo il periodo bellico. Una condizione molto simile a quella che i Longobardi trovarono anni prima in Friuli: una terra demograficamente “vuota” da ripopolare, in più ricca di risorse e simile alla madrepatria! Infatti proprio dal Friuli si mossero le fare più nobili, che vantando la propria condizione privilegiata si accaparrarono le terre toscane, considerate le migliori e le più ricche di tutto il Nord della penisola.
    Giunsero così in Toscana i Gherardeschi, mandati da Ratchis del Friuli, i Cadolingi, gli Aldobrandeschi, i Lotteringi, i Pannocchieschi, gli Alberti e successivamente i Lanfranchi, i Sismondi, i Gualandi e gli Ubaldini.
    La città di Lucca fu prescelta come capitale del ducato longobardo di Tuscia per ragioni strategiche: essa dominava il transito con la Lunigiana e teneva il contatto con gli altri possedimenti padani attraverso il passo della Cisa. Gli insediamenti più intensi si ebbero inoltre in Garfagnana, nel Pistoiese, nel Senese e nella zona delle Colline Metallifere.


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    Le città toscane, incastellate nelle loro mura, erano importanti più che altro a causa della presenza del vescovo e della sua Curia. Infatti il centro delle città era appunto la cattedrale il cui nome deriva da cattedra, che è il “trono” in pietra o in marmo dove la massima autorità ecclesiastica locale esercitava la sua funzione di pastore delle anime, di amministratore, di centro della cultura e del sapere di allora (i nobili erano quasi tutti analfabeti). Spesso il vescovo diveniva anche conte perché il furbo Margravio Ugo di Toscana fidatissimo dell’imperatore germanico, gradiva devolvere i grossi feudi comitali ad alcuni vescovi, che una volta defunti, non lasciavano eredi legittimi. Dico legittimi perché il vescovo ed il prete di allora si davano parecchio da fare con le donne quanto e più dei loro colleghi laici. Tuttavia il feudo consegnato loro dai Sassonia non poteva essere trasmesso a nessun figlio di prete! Comunque è notorio che questi alti prelati si concedevano a vieppiù numerose “conoscenze bibliche” con le cortigiane che si aggiravano nei loro palazzi. Questo per far comprendere all’uomo di oggi quanto diversa fosse la vita in quei tempi affascinanti fantasiosi e lontani. Tempi nei quali il centro “mentale” del potere supremo non era a Roma - come al giorno d’oggi - oppure a Firenze - succursale di Vienna come nella Toscana Asburgico-lorenese - bensì proprio nella Sassonia, terra dell’imperatore Ottone III. In quanto al povero villico egli nasceva e moriva conoscendo solo la campagna e la corona di morti attorno alle sue zolle ed alla povera casupola. Il suo unico viaggio era rappresentato dal recarsi al borgo nella cui piazza del mercato vendeva i suoi prodotti; e alla domenica quando andava ad affollare chiese e cattedrali dove i monaci itineranti e i preti infervorati lo arringavano sulle più profonde tematiche della fede adoperando una terminologia talmente chiara e suadente da fare invidia agli “arruffapopoli” di oggi.
    Comunque, il trionfo della convinzione ed anche della vera e sincera fede in Dio era costituito dalla scintillante bellezza delle navate delle chiese e delle cattedrali, dalle luci, dagli ori e dagli argenti che luccicavano sugli altari, sulle reliquie racchiuse in sfavillanti ostensori, nell’incenso profumato che fuoriusciva dai turiboli d’argento, sui paramenti tempestati di gemme dei presbiteri, diaconi, suddiaconi e vescovi, dei cori dolcissimi che mulinellavano tra le grandi colonne come foglie divine nel vento rassicurante della fede più vera e potente. Una messa solenne cantata nell’anno 1000 doveva essere davvero uno spettacolo suggestivo, paradisiaco ed imponente. Questo fa comprendere la grandezza della Chiesa Romana del tempo.
    La Toscana fino al 1000 come regione di frontiera del Sacro Romano Impero della nazione germanica era rimasta marginale rispetto alle grandi lotte che nel X secolo agitarono la Padania imperiale. La nostra regione divenne dopo il 1000 un centro di intermediazione tra le due massime autorità del tempo: l’imperatore, prima di Sassonia e poi di Svevia, e il Papa. I Marchesi di Tuscia svolgevano un importantissimo compito di mediazione data la posizione di confine.
    La Toscana uscì dopo il 1000 dalla depressione economica dell’Alto Medioevo, e lo fece quasi contemporaneamente alla Pianura Padana. Innanzitutto il primo stadio dello sviluppo fu l’introduzione sistematica della “rotazione triennale”. Lavorato più in profondità, concimato, irrigato, il suolo produceva di più.
    Invece di arare la terra un anno sì ed uno no per lasciarlo riposare (rotazione biennale), si diffuse la rotazione a 3 campi; uno utilizzato per un periodo estivo, un altro per un prodotto invernale ed il terzo lasciato a riposare. A questa maniera, invece di due raccolti in 4 anni, si avevano circa 3 raccolti in 4 anni.
    Si riusciva a produrre molto di più specialmente nella Toscana interna, fertile e ben irrigata. Aumentava la resa del terreno e con minor fatica. In conseguenza di ciò vi furono molti cambiamenti nel modo di vivere degli uomini.

    Il signore non aveva più bisogno di imporre al contadino di lavorare quasi esclusivamente per lui; una volta che il raccolto abbondante era assicurato, alcuni tra i servizi che una volta egli esigeva dai suoi coloni non erano più necessari. Al proprietario toscano convenne rinunciare ad essi ed esigere invece denaro o prodotti agricoli; si era spianata così la strada al sistema di conduzione mezzadrile che fece la fortuna della nostra terra.
    Ma anche il contadino trasse vantaggio dalla nuova situazione venutasi a creare: pagati al padrone i tributi dovuti, aveva il tempo per curare i propri interessi, e soprattutto nutriva meglio se stesso ed i suoi familiari. Il tempo disponibile permise al coltivatore anche di dissodare i terreni incolti confinanti col suo, di abbattere boschi selvaggi e prosciugare acquitrini frequentatissimi nella valle dell’Arno e del Serchio alla scopo di estendere il suo podere coltivato con maggior cura ed efficienza. I nuovi campi coltivati aumentarono la disponibilità di derrate alimentari, il benessere e l’incremento demografico. Certo, mangiare di più e meglio - magari con un po’ di carne tutti i giorni o quantomeno i dì di festa - significava morire più tardi: meno bambini morivano di fame, le carestie mietevano meno vittime, la popolazione aumentava. Iniziò così ad incrementare la circolazione monetaria.
    Il denaro affluiva nelle città, dove ai mercanti si affiancarono gli artigiani fino ad allora sparsi nelle campagne. Installando un laboratorio presso un mercante l’artigiano si procurava più facilmente le materie prime (lane stoffe, pelli, metalli spezie legnami pregiati sete) che gli occorrevano. Così riusciva a vendere più facilmente ed a minor costo originario i suoi manufatti. La classe mercantile ed artigianale della Marca Toscana creò una nuova e potente classe sociale: la Borghesia.
    Questa classe non crebbe più sul valore dell’accumulo di terre, bensì all’accumulo di denaro. In Toscana il rapporto città-campagna si intensificò con gran vantaggio per ambedue le realtà sociali.
    Passiamo adesso ai progressi della tecnica che nell’anno 1000 iniziarono anche in Toscana a realizzarsi come in tutto il resto dell’Italia Imperiale.
    Il grande sforzo di utilizzazione delle energie naturali ed animali compiuto in quegli anni e poi nei secoli successivi è forse paragonabile soltanto a quello fatto nel XIX e XX secolo per sfruttare la macchina a vapore prima e la energia elettrica più tardi. Nel campo dell’energia animale gli uomini medievali, rendendosi conto che il cavallo non rappresenta solo uno strumento di guerra e di svago, decidono di impiegarlo come collaboratore diretto in molteplici attività produttive. E, osservando attentamente i vecchi metodi di traino applicati senza modifiche sin dall’epoca romana, i tecnici dei trasporti si risolsero a sperimentare alcune innovazioni nella costruzione di finimenti per cavalli. In sostituzione dell’antico sistema del giogo, venne introdotto una sorta di collare con dei tiranti, il quale permetteva all’animale di sviluppare in pieno la sua potenza. Si scoprirono la ferratura, il morso e la sella moderna, mentre dal costume orientale vengono le staffe, le quali consentono alle cavallerie di rendere più efficaci i loro assalti.
    L’anno 1000 segna l’inizio anche dell’epoca dei mulini. Torna di scena il mulino ad acqua che aziona le filande, e gli impianti della segherie. Si ricomincia a lavorare. Il vetro: si ricomincia a costruire bicchieri e vasellame in vetro.
    Tuttavia le finestre continueranno ad essere protette da tela cerata. Si affinarono anche le tecniche della edilizia. La carriola sostituisce l’antiquato trasporto a spalla dei cesti ed al posto dell’argano inizia a diffondersi una specie di gru girevole.
    Le città toscane erano ancora piccole, sporche ed esposte al pericolo degli incendi, dato che molte abitazioni erano in legno. Le stesse Case-torri avevano molte strutture lignee seppur costruite in pietra. Nell’anno 1000 era papa Gerberto di Aurillac antico maestro di Ottone III di Sassonia “Imperator Romanorum Augustus”. L’elezione di Gerberto che prese il nome di Silvestro II decretò la subordinazione del Papato all’impero teutonico.
    Comunque il potere restava bene saldo nelle mani della grande nobiltà fondiaria di origine longobarda ed adesso sassone, in quanto molti nobili Sassoni vennero in Toscana inviati da Ottone. Questi si aggiunsero ai discendenti sassoni degli antichi alleati dei Longobardi che già si erano insediati da circa quattro secoli nella regione.
    Questa era la Toscana dell’Anno del Signore 1000: fredda, mistica e selvaggia fantasiosa landa appena sfornata dalla Storia nella sua inedita veste di feudo imperiale costellata da monasteri, castelli e borghi operosi nei quali iniziava il fervore dell’intrapresa. È qui che inizia la vera storia di noi toscani odierni, non la fuorviante e stantia storia antica che certa storiografia ha preferito inculcare nelle giovani menti. Infatti molti studenti odierni sanno più cose sulla baluginante storia di Coriolano e di Numa Pompilio che sulle vere vicende dei nostri Padri reali: i Toscani del medioevo, figli di tutt’altra “pallida, madre”!


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    I Celti, un popolo di stirpe Indogermanica o Indoeuropea, furono massicciamente presenti in Europa, dall’Irlanda alla Spagna, dal Galles alla Boemia (i Boi, Celti di Gallia diedero il nome non solo alla Boemia, ma anche a Bologna ed alle varie Boulogne in Francia fino a quella fascia che va dall’Arno al fiumiciattolo Fine che scorre a sud di Rosignano Marittimo).

    I Celti, o Galli, o Keltoi come li chiamavano i Greci si esprimevano in una lingua simile al latino (forse tra le indoeuropee ne era la più assonante), ma era molto simile anche al Germanico, al greco ed allo Slavo.

    Gli Etruschi di stirpe completamente diversa e mediterranea abitavano già la Toscana e parte del nord, come le città di Manthu (Mantova) e Misa (Marzabotto). Tuttavia la fede etrusca nel dio Manthu non permise al popolo asiatico di resistere alla avanzata celtica.

    La leggenda vuole che anche Livorno, l’antica Ligurnia sia stata fondata da un certo Ligure, figlio di Fetonte: segno evidente che il villaggio primigenio ebbe origini celto-liguri. Del resto le orde gallico-celtiche, i volti dipinti di blu e verde, i baffi biondi, al suon delle cornamuse attraversarono l’Arno, fondarono Siena - dai Galli Senoni derviva il suo nome - e misero a ferro e fuoco Roma. Dal punto di vista sociale i Celti, come tutti i popoli Arii, erano ripartiti in classi: quella dei sacerdoti, i Druidi, quella dei guerrieri e quella dei lavoratori. I Vati, sociologi, storiografi, scienziati, affiancavano i Druidi; i Bardi erano invece poeti cantori di miti e leggende. I Celti di Gallia occupavano dunque tutta l’attuale Francia e parte della odierna Italia fino all’Arno ed al Rubicone, cosicché Cesare nell’attraversare il Rubicone pronunciando la famosa frase «Alea iacta est!» («Il dado è tratto») sconfinò in Italia abbandonando la “Francia”!

    Nella Toscana settentrionale, paludosa e infestata da zanzare (specialmente sulla costa), si trovarono dunque a convivere Etruschi e Celto-liguri fino a quando le legioni romane soggiogarono l’Etruria e portarono le aquile imperiali fino al Galles; poi in tutta la Britannia sino al Vallo Adriano abbattendo a colpi di pilum e gladi la fiera resistenza dei Celti che, benché forti e baldanzosi combattevano quasi completamente nudi con i lunghi capelli al vento, armati in modo assolutamente inadeguato.

    Oggi i discendenti dei Celti sono i puri abitanti della Toscana Settentrionale e della Garfagnana - gente attiva e volitiva come gli antichi loro antenati. Essi possiedono i tratti somatici di quell’antico popolo; inoltre diversi toponimi, come Pallerone (da pala = pietra), Gallicano, Gallena ricordano l’antica etnia.

    La selva di castagni intorno a Filetto, nei pressi di Villafranca Lunigiana, è un bosco magico in cui nella notte dei tempi si svolgevano conciliaboli e cerimonie dei clan celto-liguri.

    Nel Medioevo la selva pagana fu cristianizzata e vi fu eretta una cappella in onore di san Ginesio, ma il bosco conserva ancora oggi il suo antico, magico fascino druidico.
    Lorenzo Proia
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  4. #4
    kalashnikov47
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    Citazione Originariamente Scritto da ilMagnifico86
    Luciano Cini è nato a Pisa nel 1952, laureato in storia economica, è autore di articoli di carattere storico su quotidiani e riviste. È relatore di conferenze sulla storia medievale, sul periodo risorgimentale e sull’attuale situazione economica. Attualmente sta lavorando di concerto con l’Università di Pavia e il prof. Cavalli Sforza, in sinergia con l’Avis di Livorno e Bergamo, ad un progetto che prevede la mappatura genetica sul territorio toscano. L’intento è quello di verificare la possibilità di prevenzione delle malattie genetiche.

    Ha vinto nel 1993 il Premio Letterario Tavolozza di Carnevale di Viareggio.

    Ha pubblicato tra l’altro:
    “Toscana sacro Romano Impero di nazione germanica” edizione Donnino 2005
    Non solo Longobarda. Ho scoperto per caso nel cuore della Toscana (Chianti) un toponimo ostrogoto.

  5. #5
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    Predefinito La Lega Toscana del 1197, Luciano Cini

    Nel 1197 le città toscane decisero di ribellarsi all’Imperatore Enrico VI, figlio di Federico Barbarossa, in quanto non intendevano per nessuna ragione rinunciare alle libertà che erano riuscite faticosamente a conquistarsi.

    L’Imperatore Federico infatti, stipulando la pace con la Lega di Pontida, precisò astutamente che le concessioni fatte ai comuni "lombardi" non si intendevano estese agli altri, e subito provò a ristabilire l’autorità imperiale in Toscana.

    Morto il Barbarossa, il suo successore e figlio Enrico VI, che sognava come il padre la creazione di un regno universale, tentò risolutamente di soggiogare la Toscana, nominando nel 1195 marchese del feudo suo fratello diciannovenne Filippo.

    L’11 novembre del 1197, dunque, nella chiesa di S. Cristoforo nel borgo di San Genesio sotto San Miniato, alla presenza di due cardinali legati del Pontefice Celestino III, fu stipulata una alleanza denominata Lega Toscana (chiamata anche Lega di San Genesio) tra le città di Firenze, Lucca, Siena, il vescovo Ildebrando signore di Volterra e le terre di Prato e di San Miniato (successivamente si unirono anche Arezzo, Certaldo, Figline e altri territori).

    Ciascuno dei componenti doveva nominare un rettore e l’assemblea composta da questi rettori doveva riunirsi almeno tre volte l’anno per decidere sugli affari della Lega.

    La presidenza della Lega veniva assegnata ogni quattro mesi ad uno dei membri, che doveva trattare tutte le questioni in cui era coinvolta la Lega, senza però mai intervenire negli affari interni dei singoli comuni associati: un perfetto esempio di federalismo !

    Inoltre i componenti dell’alleanza si impegnavano a correre in aiuto del Papa laddove i suoi territori ereditati dalla Contessa Matilde sarebbero stati minacciati dall’Impero.

    Il 4 dicembre dello stesso anno nella chiesa di S. Ippolito in S. Biagio, nel comune di Castelfiorentino, si radunarono per la prima volta i rettori (dal 1933 una targa davanti alla chiesa ricorda l’evento) ed iniziarono a rendere pratica ed operante l’alleanza.

    Lo smacco maggiore l’Impero lo subì a San Miniato, dove gli uomini della Lega distrussero il castello sede dell’amministrazione imperiale in Toscana.

    Ma se la Lega Toscana non riuscì ad avere lo stesso successo della più famosa Lega Lombarda, ciò è dovuto principalmente a tre fattori.

    Il primo riguarda l’atteggiamento della Chiesa: Papa Innocenzo III, succeduto a Celestino, non si accontentava di far parte della lega anti-imperiale ma desiderava palesemente appropriarsi di tutto il feudo toscano e rendere schiave le sue ricche e vivacissime città !

    Il nuovo papa, infatti, scrisse subito ai due cardinali legati che accettarono i patti della Lega, Pandolfo Masca di Pisa e Bernardo canonico di S. Frediano di Lucca, affermando che l’alleanza andava disapprovata poiché alla Chiesa apparteneva formalmente la signoria sul marchesato di Toscana, di conseguenza essa non poteva patteggiare con i propri sudditi.

    Ma le città toscane non si arresero di fronte alle "sottigliezze legali" del papa, così Innocenzo III presto abbandonò l’idea di un dominio temporale sulla vicina Toscana, limitandosi ad ostacolare in vari modi l’attività della Lega.

    Il secondo fattore riguarda il fatto che la Lega Toscana non poteva essere completa senza Pisa: la città alfea in quel periodo era, in Toscana, il corrispettivo di Milano in Lombardia: basti pensare che mentre Firenze iniziava a svilupparsi con circa 30.000 cittadini, la grande Repubblica Marinara era già una metropoli commerciale di 120.000 abitanti !

    Pisa restò fedele agli Svevi Hohenstaufen (invano i cardinali legati vi si recarono più volte per far sì che divenisse guelfa) fino al punto di andare contro i suoi stessi interessi: rifiutando di entrare nella Lega, infatti, perse l’occasione di egemonizzare la Toscana, lasciando questa opportunità a Firenze che la sfrutterà fino in fondo.

    La terza riflessione riguarda l’aspetto etnico: i Lombardi, nonostante il nome, erano per la stragrande maggioranza dei Celti e consideravano i Tedeschi come degli stranieri.

    Al contrario i Toscani avevano solo una piccola componente celtica mentre oltre la metà della popolazione era di etnia germanica, a causa del ripopolamento longobardo che si verificò all’indomani delle devastanti guerre gotico-bizantine.

    Di conseguenza anche l’atteggiamento verso gli altri popoli germanici era differente: lo dimostra lo stesso Dante, il più illustre dei toscani, che "brama l’Impero", lo dimostra anche col suo stesso cognome: Alighieri, cioè Haldger !

    Lo prova soprattutto la lingua toscana che ha la pronuncia celtica solo nel nord della regione, mentre il toscano vero e proprio si ritiene sia scaturito dall’abbandono forzato dell’antico idioma germanico a favore del latino.

    Così si spiega la parlata limpida dei toscani, con le loro "h" aspirate che si ritrovano solo nel tedesco.

    Gli studi e le ricerche sull’origine dei cognomi toscani e dei nomi delle località sparse sul territorio della regione forniscono un’ulteriore conferma del fatto che la Toscana, insieme al Friuli, è la regione che ha risentito maggiormente degli effetti prodotti dall’arrivo dei longobardi di Alboino: nel 600, infatti, essi calarono numerosissimi in Toscana attratti dal sale, dal ferro, dall’argento (tutte ricchezze quasi assenti nel resto del Nord) e dal tanto sospirato sbocco al mare.

    E’ difficile ancor oggi rendersi conto della guerra culturale che la chiesa sostenne contro il mondo "barbarico" nei cosiddetti secoli bui dell’alto medioevo: figuriamoci in Toscana, la regione che aveva il più alto numero di nobili e commercianti di origine tedesca proprio a due passi dal Patrimonio di San Pietro !

    Per tutti i motivi che abbiamo esaminato, quindi, la Lega Toscana non è riuscita a conquistarsi un successo pari a quello della Lombarda, ma è di fondamentale importanza ricordare che, nonostante tutte le difficoltà che incontrò, quest’alleanza riuscì a far fallire i disegni di conquista sia dell’Impero che del Papato, ponendo le premesse per una Toscana che rimase libera fino al 1860.
    Lorenzo Proia
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  6. #6
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    Citazione Originariamente Scritto da ilMagnifico86
    Quando i Longobardi calarono in Toscana non trovarono un gran numero di Celti come nella Pianura Padana, ma non trovarono neanche gli Etruschi: essi infatti erano quasi scomparsi già ai tempi dell’Impero Romano.
    Uno storico del tempo, Procopio di Cesarea, testimonia inoltre che dopo le guerre Gotico-bizantine, prima dell’arrivo dei Longobardi, la Toscana rimase spopolata a causa delle carestie e delle pestilenze che si ebbero nella zona durante e dopo il periodo bellico.
    .
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    Gli Etruschi di stirpe completamente diversa e mediterranea abitavano già la Toscana e parte del nord, come le città di Manthu (Mantova) e Misa (Marzabotto). Tuttavia la fede etrusca nel dio Manthu non permise al popolo asiatico di resistere alla avanzata celtica.
    La leggenda vuole che anche Livorno, l’antica Ligurnia sia stata fondata da un certo Ligure, figlio di Fetonte: segno evidente che il villaggio primigenio ebbe origini celto-liguri. Del resto le orde gallico-celtiche, i volti dipinti di blu e verde, i baffi biondi, al suon delle cornamuse attraversarono l’Arno, fondarono Siena - dai Galli Senoni derviva il suo nome - e misero a ferro e fuoco Roma.
    .
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    Il discorso sul biondismo è curioso. Infatti ricordo che la domanda: ma quanti biondi con occhi chiari ci sono a Firenze? che mi sono posto qualche volta, non ha mai trovato adeguata risposta. Davvero, non è difficile trovare gente che ha poco di mediterraneo, dal punto di vista estetico.

  9. #9
    Non sono d'esempio in nulla
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    Italia arcaica: le origini

    Quando la Grecia si avviava ormai alla denordizzazione, l'altro serbatoio accumulato dall'ondata indoeuropea del 1200 era appena intaccato, e l'Italia successe alla Grecia nella leadership della civiltà classica.

    Che le lingue italiche - e tra esse il latino - siano state diffuse da un tipo razziale relativamente «chiaro», appare verosimile, data la loro provenienza dall'area centroeuropea. Nonostante le proteste del buon Sergi alla fine del secolo («i veri Italici sono gli indigeni neolitici mediterranei»), la più recente antropologia ha riconosciuto la connessione tra i linguaggi italici e il tipo xantocroico (dal greco xanthòs = biondo e chròes = colorazione). Già il Livi, il medico militare che eseguì i primi rilievi antropologici in Italia sulle classi 1867-70, aveva notato due zone di biondismo, una nell'Italia settentrionale (in particolare nella Lombardia occidentale), che egli metteva in relazione con la migrazione longobarda, l'altra più tenue, lungo l'arco dell'Appennino, riconducibile alle più antiche migrazioni italiche.

    Scrive il Sera, nell'Enciclopedia Italiana: «Ma il fatto più singolare che le due grandi carte del Livi pongono in luce, ... è la presenza di una forte componente xantocroica in tutta l'Italia centrale e soprattutto orientale: Umbria, Toscana, Abruzzo e parte settentrionale e orientale dell'Italia meridionale, Molise, Beneventano, Puglia settentrionale, parte settentrionale e orientale della Lucania. Da questa zona si irradierebbero le propaggini disperse del tipo che si riscontrano nelle altre parti della penisola e nella Sicilia... La localizzazione della maggiore massa di questo tipo fa pensare a una provenienza dal Nord e dall'Oriente, cioè che esso sia disceso in Italia seguendo la costa adriatica, senza penetrare addentro nella pianura padana, ma - deduzione assai più importante - sembra che a mano a mano che si discende verso il Sud, esso abbia sede tra i monti. Si può pensare a una preferenza originalmente data a questo ambiente per una minore resistenza del tipo stesso al clima caldo del mezzogiorno italiano, o anche perché il tipo, un tempo esteso alla costa, sia ivi scomparso per fatti di selezione eliminativa. A ogni modo... è chiaro che detto tipo dovette respingere perifericamente una popolazione bruna e branchíoide, che si ha ragione credere fosse autoctona nella regione... E' probabile che questo tipo xantocroico sia disceso in Italia all'epoca del ferro, se non prima, e che sia stato il portatore del linguaggio ariano. La serie preistorica di Alfedena dovrebbe contenere abbondantemente tale tipo».

    Che i popoli italici - e tra essi i Romani - si distinguessero per una maggiore impronta nordica da quelle genti che affondavano le loro radici nella preistoria mediterranea, potrebbe mostrarlo lo stacco esistente tra il carattere nazionale latino-italico da una parte, e quello etrusco dall'altra, stacco tanto più considerevole se si tien conto della vicinanza reciproca e della comunanza di civiltà. Agli Etruschi, con la loro cultura piena di vivacità e di colore, con la loro intuizione sensuale del mondo, ora cupa ora gioiosa, si contrappone la severità rigida, scabra, quiritaria delle genti latine e sabelliche, prolificazioni di un ethnos differente.

    Così un grande interprete dell'antichità ha sintetizzato il carattere nazionale etrusco: «Etrusca era la gioia ai piaceri dell'esistenza, ai conviti, alle donne e ai begli adolescenti, ai giochi scenici, crudeli o comici, alla lotta dei gladiatori, al circo e alla farsa, all'indolenza, amabile e contemplativa... Ma etruschi erano anche l'eroe cavalleresco e il combattente individuale,che agognavano all'avventura e alla fama, profondamente diversi dagli ubbidienti e disciplinati soldati di formazione romana. E come la vita etrusca si svolgeva nell'opposta tensione di riso e crudeltà, di piacere sensuale ed avventura, di indolenza svagata ed affermazione eroica, non diversamente nell'opposizione di cavaliere e dama: la donna dominava sull'uomo e nella casa e prendeva parte anche alla vita pubblica. Una visione femminile del mondo s'esprime in Etruria dovunque ... ».

    E' l'elemento «dionisiaco», lo «schiumante entusiasmo, il piacere e la sfrenata crudeltà dell'antico Mediterraneo», da Schuchhardt contrapposti all'apollineo «alto sentire, accorto agire e misurato decidere del Nord»: come in Grecia l'orfismo, così in Italia gli Etruschi rappresentano il polo «anticlassico».

    Di fronte alla sensuale vivacità delle genti indigene, sta l'ethos dei popoli discesi dal Nord. Sono i duri Sabini (Properzio, 1, 1, 32, 47) con le rigidae Sabinae (Ovidio, Amores, 11, 4, 15), fortissimi viri, severissimi homines (Cicerone, pro Ligario 32; in P. Vattinium 15, 36), avi di forti generazioni di soldati e contadini (rusticorum militum). Sono i Romani con la loro tenuta asciutta, severa, impersonale, le generazioni latine d'età repubblicana che presero le armi contro Annibale prima ancora che la «bionda peluria - flava lanugo - imbiondisse loro le gote» (Silio Italico, Punica, 11, 319), i militi romani dalle «teste bionde» (xanthà kàrena), di cui l'eco è negli "Oracoli Sibillini" (XIV, 346): «Nel senato dell'epoca repubblicana e del quinto fino al primo secolo l'essenza nordica ha sempre dimostrato di essere la forza preponderante e deterrninante: audacia illuminata, attitudine dominata, parola concisa e composta, risoluzione ben meditata, audace senso di dominio. Nelle famiglie senatoriali, anzitutto nel patriziato, e poi nella nobilitas, sorse e cercò di realizzarsi l'idea del vero romano, come una particolare incarnazione romana della natura nordica. In tale modello umano valsero le virtù etiche di impronta nordica: la virilità, virtus, il coraggio, fortitudo, la saggia riflessione, sapientia, la formazione di sé, disciplina, la dignità, gravitas, e il rispetto, pietas... in più quella misurata solennità, solemnitas, che le famiglie senatoriali consideravano come qualcosa di specificamente romano».

    Che questi caratteri spirituali fossero sostenuti da una ben precisa sostanza razziale, è stato affermato dal Sieglin e dal Günther. L'onomastica latina attesta una certa frequenza di caratteri nordici. «Ex habitu corporis Rufos Longosque fecerunt», «dal fisico chiamavano Rufo uno coi capelli rossi, e Longo uno di alta statura»: così Quintiliano ricorda della origine dei nomi propri. Il Sieglin dà una lunga serie di Flavii, Flaviani, Rubii, Rufi, Rufini e Rutilii. Questi nomi sembrano esser stati tradizionali nelle genti Giulia, Licinia, Lucrezia, Sergia, Virginia, Cornelia, Junia, Pompeia, Sempronia: ossia nella più gran parte della classe dirigente romana. La famiglia degli Ahenobarbi (barba di rame) faceva risalire la sua denominazione a una leggenda secondo la quale due giovinetti, messaggeri d'una divinità, avevano toccato la barba d'un guerriero romano che era diventata rossa. L. Gabriel de Mortillet suppone che rutilus, col significato d'un biondo infuocato, sia stato usato soprattutto pel sesso maschile, flavus, un biondo più mite, per le donne. Per l'azzurro degli occhi l'aggettivo comune è caesius donde nomi come Caeso, Caesar, Caesulla, Caesilla, Caesennius e Caesonius.

    Ancora la Historia Augusta (Aelius Verus, 2, 4) spiega Cesare con caesius. Per gli occhi grigi l'aggettivo era ravus o ravidus, donde nomi come Ravilia o Ravilla:

    Raviliae a ravis oculis, quemadmodum a caesiis Caesullae.

    Ad alte stature si riferiscono ì nomi Longus, Longinus, Magnus, Maximus, e anche Macer, Scipio (bastone). Albus, Albinus, Albius indicano colorito chiaro. In appendice all'Incerti auctoris liber de praenominibus, d'epoca tiberiana, si legge che nomi di fanciulla come Rutilia, Caesella, Rodocilia, Murcula e Burra designano capelli e compressioni chiare. Murcula viene da murex, porpora, Rodacilla dal greco rhodax, rosellina, Burra - come anche Burrus - dal greco pyrròs: tutte a colore ductae.

    Che il tipo fisico dei Romani, almeno in epoca repubblicana, dovesse essere abbastanza settentrionale, può mostrarlo anche quel detto tramandato da Orazio:

    hic niger est, hunc tu, Romane, caveto!

    «quello è nero, guardati da lui, Romano!», che esprime una diffidenza spontanea verso l'individuo troppo scuro di pelle che non ha perduto neppure oggi la sua attualità. D'altra parte, la credenza che al momento della morte Proserpina staccasse al moribondo il capello biondo che ognuno doveva portare sul capo (Eneide, IV, 698: nondum illi Ilavom Proserpina vertíce crinem abstulerat), non può che esser sorta in un'epoca in cui i capelli biondi erano comuni tra i Romani.

    Il Sieglin, che ha passato in rassegna le fonti sui caratteri fisici degli antichi Italici, scrive che accanto a 63 biondi sono menzionati solo 17 bruni. Ancora nelle pitture dì Pompei il 75% delle immagini ritrae individui chiari. Sempre secondo il Sieglin, 27 divinità romane sono descritte come bionde, e solo 9 come scure. In particolare, Giove, Marte, Mercurio, Minerva, Proserpina, Cerere, Venere, e anche divinità allegoriche come Pietas, Victoria, Bellona, vengono spesso ritratte come bionde. 10 personaggi delle antiche leggende sono biondi, nessuno bruno. Così delle personalità poetiche: 17 bionde e due brune.

    Caratteri nordici ci sono tramandati di diversi personaggi della storia romana. Rosso di capelli e con gli occhi azzurri era Catone il Censore, questa personalità in cui parvero incarnarsi tutte le più antiche virtù del romano. Biondo e occhiceruleo era Silla, il restauratore. Coi capelli biondi e lisci, occhi chiari, flemmatico e composto nella persona, ci appare Augusto, il fondatore dell'Impero. Cesare aveva occhi e capelli neri, ma complessione bianchissima e alta statura.

    L'ideale fisico d'un popolo s'esprime nell'ideale dei suoi poeti. Tibullo canta una Delia bionda, Ovidio una bionda Corinna e Properzio una bionda Cinzia. Una fanciulla troppo nera non doveva essere molto pregiata se Ovidio (Ars Amandi, 11, 657) suggeriva si nigra est, fusca vocetur. Le lodi maggiori van sempre alla candida puella. Giovenale ci parla della flava puella Ogulnia di nobile stirpe.

    Importante è l'Eneide, per quel suo carattere celebrativo delle origini che fa di Virgilio un poeta «archeologo»,in una specie di passione per lo stile degli antichi Romani, in una esaltazione della latinità. Nell'Eneide tutti i personaggi sono biondi. Così Lavinia (Eneide, XII, 605: filia prima manu flavos Lavinia crinis et roseas laniata genas: flavos è preferibile a floros); Enea, spirante nobiltà nel volto e nelle chiome come avorio cinto d'oro (En. I, 592: quale manus addunt ebori decus, aut ubi flavo - argentum Pariusque lapis circundatur auro); il giovinetto Iulo; Mercurio nella sua apparizione (Eri. IV, 559: et crinis Ilavos et membra decora iuventa), mentre tra i guerrieri è un fulvus Camers di nazione ausonia (X, 562), tanto più notevole in quanto di nessuno dei guerrieri o degli altri personaggi dell'Eneide si dice che abbiano capelli neri. Persino la cartaginese Didone è bionda (IV, 590: flaventisque abscissa comas), così forte è l'inclinazione a vedere antichi eroi ed eroine circonfusi in una nube di biondezza originaria. Anche nei Fasti d'Ovidio, composti con uno stesso intento archeologico e celebrativo, eroi ed eroine dell'antichità romana ci appaiono biondi. Bionda è Lucrezia quando piacque a Tarquinio (forma placet, niveusque color flavique capilli, 11, 763), biondi Romolo e Remo, marzia prole:

    Martia ter senos proles adoleverat annos et suberat flavae iam nova barba comae
    (III, 60).

    Ha scritto il Sieglin: «Gli invasori elleni e italici erano, secondo le non poche testimonianze che possediamo, biondi. Bionda è la maggioranza delle persone di cui ci viene descritto l'aspetto fisico; in particolare erano gli appartenenti alle famiglie nobili che si distinguevano per il colore chiaro della loro pelle e dei loro capelli. In tutte le epoche dell'antichità classica, biondo ebbe il significato di distinto».

    L'epoca aurea della romanità «nordica» va dalle origini alla fine delle guerre puniche. E' l'epoca della repubblica aristocratica, sorta dal patriziato e dai migliori elementi della plebe. E' l'epoca in cui Ennio poté scrivere moribus antiquis res stat romana virisque, in cui i valori romani poggiavano ancora su di un'adeguata base razziale. L'ideale della probitas, dell'integritas, quello del vir frugi, del vir ingenuus, in cui simplex suonava ancora come una lode, è difficilmente riducibile a uno standard meridionale: «L'essenza del "vero romano", del vir ingenuus non si spiega alla luce dell'anima "meridionale", delle popolazioni preitaliche di razza mediterranea, che dovettero invece formare la maggioranza dell'antica plebe, o almeno la plebe della capitale (plebs urbana)» .

    Questo prisco ideale repubblicano d'una severità di contegno derivante non da astratti precetti, ma da una nobile natura di sangue nordico, l'ha espresso Properzio nella figura di Cornelia figlia dell'Africano:

    Mihi natura dedit leges a sanguina ductas
    (IV, 11)

    Già nel Il secolo a.C. son visibili tracce di decadenza. E' lo spopolamento delle campagne, in seguito alla speculazione e al tasso di sangue troppo alto estorto dalle continue guerre. Di qui, le lotte per la riforma agraria, i Gracchi, e le difficoltà sempre crescenti in spedizioni militari di second'ordine, come a Numanzia, o in Numidia. All'epoca di Pirro, e anche a quella d'Annibale, i Romani avevano potuto mettere in campo quante truppe avevano voluto: «I Romani, scrive Plutarco, colmavano senza fatica e senza indugio i vuoti nelle loro truppe come attingendo da una fonte inesauribile». Nel II secolo già il contadinato italico dava segni d'esaurimento. Ma con la scomparsa del contadinato italico, delle forti generazioni contadine che avevano fatto argine contro Annibale «prima ancora che la bionda peluria vestisse le loro guance», incominciava la denordizzazione della romanità.

    Contemporaneamente, i contatti con la grecità decaduta, con l'Oriente levantino, portavano i primi germi di disfacimento in Roma. Syria prima nos victa corrupit, rìconosceva Floro (Epitome, 1, 47). Già alla metà del II secolo il numero degli schiavi eguagliava quello degli Italici, con conseguenze incalcolabili pel tralignamento del carattere nazionale romano. Il tipo del levantino portato schiavo e emancipato, del liberto di razza ignobile ma ricco e potente, diventa sempre più frequente sulla scena romana per dominarvi incontrastato nei secoli dell'Impero. Siri, greculi, ebrei - nationes natae servituti - secondo il severo giudizio romano, diventavano sempre più numerosi, con l'influsso dissolvente della brillante civilizzazione ellenistica. «I nostri cittadini sembrano schiavi della Siria - diceva il nonno di Cicerone - tanto meglio parlano il greco, e tanto più sono corrotti». «Tacciano codesti, cui l'Italia non fu madre, ma matrigna», aveva detto Scipione Nasica di fronte alla turba tumultuante nel foro, una turba d'importazione.

    Al tipo del romano di ceppo italico succedeva una massa anonima sempre più mediterranea e levantina. Anche la ritrattistica permette di osservare l'avvento di tipi sempre più nettamente levantini - specialmente banchieri e uomini d'affari - che si contrappongono al romano nobile d'impronta nordica o nordico-dinarica. Il tipo fortemente scuro e così scarsamente europeo che caratterizza ancora oggi tanta parte della popolazione dell'Italia - color iste servilis, diceva Cicerone - si può far risalire all'invasione di schiavi orientali, Asiatici Graeci, dell'ultima età repubblicana e di quella imperiale. Che questa massa non potesse offrire sostegno alle vecchie istituzioni aristocratiche repubblicane, e avesse bisogno d'un padrone, spiega il trapasso dalla repubblica all'Impero.

    L'ordine imperiale romano era destinato a reggere ancora alcuni secoli - anche perché la Roma repubblicana aveva già sgombrato il campo da tutti i possibili competitori - in un quadro di splendore ma anche nella coscienza d'una crescente putrefazione della società. I confini di Augusto non dovevano più essere ampliati o quasi in quattro secoli d'Impero. Una fioritura culturale non si ebbe più dopo la fine del I secolo d.C. e si perpetuò un accademismo alessandrino. La filosofia dell'epoca è lo stoicismo, l'individualismo orgoglioso e disperato d'un'anima nordica che si chiude in sé stessa di fronte a una società orinai snordizzata che non le può offrire sostegno.

    Malos homines nunc terra educat atque pusillos, lamentava Giovenale (XV, 70). In effetti, la statura minima dell'esercito imperiale era scesa fino a 1,48 e sempre più la Romanorum brevitas contrastava con la Germanorum proceritas (Vigezio, 1, 1). Nonostante che le ultime genti che potevano far risalire le loro origini ai Latini dei Colli Albani, tra cui i Giulii, si fossero estinte agli albori del principato una certa impronta nordica doveva continuare a tralucere tra i membri della classe dirigente dell'Impero. Si potrebbe fare una lunga lista di Cesari biondi: da Augusto a Tiberio, da Caligola a Nerone, da Tito a Traiano, da Claudio a Probo, da Costantino a Valentiniano. I capelli biondi erano sempre pregiati nella bellezza femminile - Poppea era bionda - e le donne romane se li tingevano (summa cum diligente capillos cinere rutilarunt, Valerio Massimo, 11, 1, 5) o mettevano parrucche di capelli tagliati alle prigioniere germaniche. Ma la sostanza era che l'Impero Romano andava lentamente soggiacendo a una totale orientalizzazione.

    La capacità dell'impero di reggersi nei secoli si dovette alla forza della forma politico-spirituale creata da Roma. Una forma spirituale è creata da un certo tipo razziale, ma almeno in parte gli sopravvive, almeno finché trova una materia umana segnata anche da una minima parte di quel sangue. Ma una volta che anche l'ultima parte del sangue originario è perduta, non resta che una forma vuota, incapace di influenzare una materia umana totalmente recidiva. L'arco della romanità è compreso tra le due affermazioni - moribus antiquis res stat romana virisque - in cui l'età repubblicana aveva orgogliosamente affermato la disponibilìtà d'un'adeguata sostanza razziale, e quell'altra - mores enim ipsi interierunt virorum penuria - con cui la romanità ammetteva l'incapacità di perpetuarsi in un ambiente umano ormai levantino.

    Al vecchio contadinato italico d'impronta nordica, quasi estinto (la desolazione e lo spopolarnento dell'Italia, la vastatio Italiae, è un tema comune della pubblicistica d'età imperiale) poté surrogare, fino al II secolo d.C., la romanità dei coloni delle provincie, delle guarnigioni periferiche. Poi, estinto anche questo flusso d'italicità provinciale da cui erano usciti Traiano, Adriano, Marc'Aurelio, l'orientalizzazione procedette inarrestabile con una rapidità di cui testimoniano il diffondersi dei nomi greci e i successi del cristianesimo. Il cristianesimo, uscito dalle viscere della nazione ebraica - multitudo iudaeorum flagrans nonnunquam in contionibus, civitas tam suspiciosa et malefica - viene dall'Oriente, si afferma nelle province orientali, e incontra resistenza nella parte europea dell'Impero, tranne nelle regioni marittime conquistate dal cosmopolitismo orientalizzante. Col cristianesimo si diffonde anche un nuovo ideale fisico orientale, presto visibile nei mosaici e negli ipogei. Il cristianesimo nell'Impero Romano, una fede di individui politicamente, economicamente e spiritualmente poveri, era la religione dello strato più basso della popolazione, di immigrati d'origine orientale e africana, i quali non erano sensibili né allo spirito ellenico né all'arte politica di Roma.

    L'ultima resistenza nordica ed europea contro l'orientalizzazione del mondo classico - la penetrazione eccessiva di elementi estranei nell'impero Romano mediante la diffusione della concezione della vita e della religiosità dell'Oriente - viene da parte degli Illirici, questa gente di soldati bionda e grande, che darà a Roma Aureliano, Decio, Diocleziano. E', sotto il segno del Sole Invitto, la reazione dei provinciali, degli europei, dei legionari, contro la levantinizzazione dell'Impero e la civiltà cristiano-cosmopolitica. E' l'estremo baluardo del paganesimo contro i demagoghi dell'Oriente e, insieme, la difesa del danarium romano e della piccola borghesia italica contro l'oro dell'Oriente. La svalutazione, e il trasferimento della capitale a Costantinopoli, nel cuore dell'Oriente cristiano e antiromano, segnano la fine della romanità europea di ceppo nordico. Invano il poeta Prudenzio doveva mettere in versi la speranza che l'Impero si rinnovasse e che i capelli della Dea Roma «divenissero di nuovo biondi» (rursus flavescere): la Roma indoeuropea non era più.

    Paradossalmente, l'Impero dovette ancora un secolo di vita ai suoi più acerrimi avversari, i Germani. Come alla romanità italica d'epoca repubblicana era succeduta la romanità italico-provinciale del principato, come a essa era succeduta, alla metà del II secolo, la romanità illirica dei legionari e delle guarnigioni, così nell'ultimo secolo di Roma prese forma una romanità-germanica la cui eco giunge fino a Teodorico.

    L'esercito romano del IV secolo è già completamente germanizzato, germanici i suoi generali, da Stilicone a Ezio, mentre sui vessilli delle legioni conservatici dalla Notitia Dignitatum stanno le rune del sole, del cervo: i primordiali simboli della Valcamonica ritornano, per un attimo ancora, nella luce morente dello splendore romano. E' significativo come per questi Germani la parola «romano» abbia acquistato il significato di «imbelle», «malfido». Il «romano» è ormai, nell'accezione corrente, un tipo umano piccolo, nero, gesticolante, accorto e abile, ma anche vile e falso, esattamente come era apparso il graeculus ai Romani d'età repubblicana, e come Platone, a sua volta in una Grecia non ancora snordizzata - aveva descritto Siri ed Egiziani. Questo trapasso di significati può illustrare meglio di ogni altro esempio la parabola discendente della civiltà classica. I popoli parlanti greco e latino nel secolo V d.C., serbavano l'eredità linguistica (Sprachenerbe) degli Elleni e degli Italici indoeuropei, non quella del sangue (Blutserbe).

    I Germani si stanziarono dapprima entro la cinta dell'Impero come coloni e federati. Presero possesso delle campagne ormai spopolate e schiave dei pochi centri urbani e marittimi dipendenti dall'Oriente (Roma, Ravenna). Si fecero accogliere come soldati, coloni, contadini, poi quando l'esaurimento biologico e spirituale della romanità fu troppo grande per restar loro velato dal residuo mito di Roma - si imposero come condottieri, difensori, padroni. Ma con i Germani tornava a penetrare nel bacino mediterraneo quello stesso elemento nordico che già nella preistoria aveva indirizzato in senso «europeo» l'Europa del Sud. La Scandinavia è di nuovo madre di popoli - Scandia insula quasi vagina populorum velut officina gentium: Goti del Vástergótland, Burgundi di Bornholm (Burgundholmr), Vandali del Vendsyssel. Di nuovo la Germania è madre di bionde nazioni: ai biondi Indiani, Persiani, Elleni, Italici, succedono i biondi Franchi, Lombardi, Goti, che vanno a rinsanguare l'esausta Romània.

    Nasce un nuovo cielo di civiltà, la civiltà romanica-germanica dell'Occidente: romanica, non più romana, perché anche i popoli latini sono trasformati nella loro sostanza dall'apporto germanico. Una nuova élite nordica rinsangua l'Europa col suo «sangue azzurro» - sangre azul, come apparve alle popolazioni scure della Spagna la pelle rosea e mostrante le vene dei loro signori visigoti. Sono i «figli dei biondi» - i beni asfar, come apparvero agli Arabi quei crociati che, paradossalmente, rovesciavano il movimento Oriente-Occidente invertito da Costantino ottocento anni prima, e colpivano nell'Islam quella cultura arabomagica che proprio col cristianesimo era mossa alla conquista dell'Europa . Sono i cavalieri tedeschi - decor flavae Germaniae - che col Sacro Romano Impero di nazione germanica rialzano il simbolo imperiale dell'Occidente.



    Adriano Romualdi


    articolo tratto dal libro Gli Indoeuropei. Origini e migrazioni, Edizioni di Ar, Padova 1978.

  10. #10
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    La terza riflessione riguarda l’aspetto etnico: i Lombardi, nonostante il nome, erano per la stragrande maggioranza dei Celti e consideravano i Tedeschi come degli stranieri.

    Al contrario i Toscani avevano solo una piccola componente celtica mentre oltre la metà della popolazione era di etnia germanica, a causa del ripopolamento longobardo che si verificò all’indomani delle devastanti guerre gotico-bizantine.

    Di conseguenza anche l’atteggiamento verso gli altri popoli germanici era differente: lo dimostra lo stesso Dante, il più illustre dei toscani, che "brama l’Impero", lo dimostra anche col suo stesso cognome: Alighieri, cioè Haldger !

    Lo prova soprattutto la lingua toscana che ha la pronuncia celtica solo nel nord della regione, mentre il toscano vero e proprio si ritiene sia scaturito dall’abbandono forzato dell’antico idioma germanico a favore del latino.

    Così si spiega la parlata limpida dei toscani, con le loro "h" aspirate che si ritrovano solo nel tedesco.
    .
    Lorenzo Proia
    Responsabile Ufficio Stampa Lega Nord Toscana
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    Vice Coordinatore Movimento Giovani Toscani

 

 
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