Domenico Savino
28/04/2006
Carlo Maria Martini durante una recente conferenza: «Noi dobbiamo fare tutto per lottare contro l'AIDS, l'uso di preservativi in certe situazioni può costituire un male minore»Cosa c'è dietro la sortita del cardinale Martini, dietro l' intervista rilasciata dall'ex-arcivescovo di Milano al settimanale l'Espresso, su Fede, AIDS, preservativi ed embrioni?
Il tentativo di «occupare il vuoto di potere aperto dal placido inattivismo di Papa Ratzinger, che in un anno di regno non ha spezzato una sola canna fessa, non ha spento un solo lucignolo fumigante» - come ha scritto Maurizio Blondet?
Forse c'è anche questo, ma non solo e non tanto questo.
Questo, ma ci sarebbe anche molto di più, almeno secondo taluni «boatos» che circolano in ambienti progressisti.
Nonostante la malattia che lo affligge (1), Carlo Maria Martini è lucido e determinato.
Somministra sapientemente la vecchia astuzia gesuitica, la cultura raffinata, lo stile snob, il tono pacato e le sembianze miti e caritatevoli con l'ambivalente e mortale ecclesiologia del dialogo e dell'apertura al Mondo.
Già promotore di un «evocato» Vaticano III, di un governo collegiale della Chiesa e di una riscrittura del ministero petrino, sostenitore dei preti sposati, degli ordini sacri alle donne, della partecipazione dei laici ai ministeri, di una «più comprensiva» morale sessuale, della comunione ai divorziati risposati, dell'ecumenismo più spinto, con le sue posizioni Martini incarna senza mezzi termini il più subdolo e pericoloso veleno inoculato all'interno del corpo ecclesiale negli ultimi 20 anni e costituisce la voce melliflua e letale di un'autodemolizione ecclesiale e il centro di una metastasi esplosa nel Corpo Mistico di Cristo dopo il Vaticano II e tuttavia latente in Esso già da molti decenni.



La sua azione va ostacolata senza risparmio di energia, perché senza risparmio di energie profonderà i propri sforzi per fare sì che la malapianta di una «Chiesa-altra» non appassisca, specie ora che l'«evento» Concilio è stato in parte metabolizzato e ridimensionato dalla Chiesa ufficiale e da Papa Ratzinger in particolare, con una strategia di riduzione del danno e di normalizzazione, all'interno - per quanto possibile - di un tentativo di continuità nella «tradizione».
Uscito sconfitto dal conclave, a Martini è bastata qualche settimana appena per abbozzare e dettare la nuova strategia di «resistenza articolata» al nuovo Pontificato: nessuno scontro diretto, nessuna contrapposizione violenta, nessun muro contro muro.
Piuttosto un diffuso rumore di fondo, un mormorio incessante, sapientemente amplificato dai «media amici», che disturbi continuamente la predicazione papale, contrapponendo all'agenda del Papa e delle gerarchie un'agenda parallela di problemi e questioni spinose e alle alte linee di vetta del Magistero le rughe e i peccati della «plebs Dei», cui la Chiesa non potrebbe più imporre di portare pesi troppo onerosi.
La prima occasione per mettere in atto questa strategia gli venne offerta circa un anno fa dall'omaggio che la diocesi di Milano, a cominciare dal suo cardinale e arcivescovo Dionigi Tettamanzi, volle rendergli per il venticinquesimo anniversario della sua nomina a vescovo (decisa nel dicembre '79 da Wojtyla, ma formalmente avvenuta nel gennaio dell'80).
Il Corriere della Sera titolò: «Relativismo, dopo il Papa il manifesto di Martini - L'ex arcivescovo rilancia il dialogo. Una risposta alle teorie dei neoconservatori».



In quella circostanza, al discorso del Pontefice sul «relativismo», indicato come principale male del nostro tempo, Martini obiettò: «... ma esiste anche un relativismo cristiano».
Obliquamente, come è nello stile dell'uomo e astutamente, come è per chi ha come obiettivo quello di logorare, non potendo costruire, Martini si guardò bene dal contraddire il discorso del Pontefice, anzi.
Lo svuotò però da dentro, affermando in sostanza che nessuno può porsi come interprete degli accadimenti storici e nessuno li può giudicare, essendo il giudizio sulla «storia» rimesso al giudizio finale di Dio.
Martini vantò addirittura il «proprio relativismo», invitando a «leggere tutte le cose che ci circondano 'in relazione' al momento in cui tutta la storia sarà palesemente giudicata, […] perché sarà allora, quando verrà il Signore, che finalmente tutti sapremo. Allora si compirà il giudizio sulla storia, e sapremo chi aveva ragione. Allora le opere degli uomini appariranno nel loro vero valore, e tutte le cose si chiariranno, si illumineranno, si pacificheranno. […]
Quello di cui abbiamo tutti un immenso bisogno - disse - è imparare a vivere insieme nella diversità: rispettandoci, non distruggendoci a vicenda, non ghettizzandoci, non disprezzandoci. Senza la pretesa di convertire gli altri da un giorno all'altro, il che crea spesso muri ancora più invalicabili».
Insomma- sembra affermare Martini - non pretenda la Chiesa di giudicare il Mondo, poiché giudice della «storia» è Dio solo.



Dunque la Chiesa non potrebbe esprimere giudizi di valore, né ammaestrare, indirizzare, sostenere o contrastare e neppure pretendere di convertire: insomma il quinto Evangelo, quello secondo Carlo Maria Martini, prevede una presenza puramente testimoniale del cristianesimo, non espansiva, analgesica verso i dolori del «mondo», una vicinanza dolce, che accarezzi il «mondo» per indurlo a scoprire non meglio specificate «comuni realtà profonde» al di là delle differenze anche religiose e confessionali: «[…] tollerarsi non basta - proseguiva Martini - Allora, se faremo così, tutti gli uomini si riconosceranno in tali valori, si sentiranno più vicini, più compagni e compagne di cammino, sentiranno di avere in comune delle realtà profonde e vere, delle realtà che forse non avrebbero saputo scoprire senza le parole di Gesù. Allora, al di là di differenze etniche, sociali, addirittura religiose e confessionali, l'umanità troverà una sua capacità di vivere insieme, di crescere nella pace, di vincere la violenza e il terrorismo, di superare le differenze reciproche.Abbiamo tutti un immenso bisogno di imparare a vivere insieme come diversi, rispettandoci, non distruggendoci a vicenda, non ghettizzandoci,
non disprezzandoci e neanche soltanto tollerandoci, perché sarebbe troppo poco la tolleranza. Ma nemmeno - direi - tentando subito la conversione, perché questa parola in certe situazioni e popoli suscita muri invalicabili. Piuttosto 'fermentandoci' a vicenda in maniera che ciascuno sia portato a raggiungere più profondamente la propria autenticità, la propria verità di fronteal mistero di Dio. A questo scopo non c'è mezzo più concreto, più accessibile, delle parole di Gesù nel Discorso della montagna. Parole che nessuno può rifiutare perché ci parlano di gioia, di beatitudine, ci parlano di perdono, ci parlano di lealtà, ci parlano di rifiuto dell'ambizione, ci parlano di moderazione del desiderio di guadagno, ci parlano di coerenza nel nostro agire ('sia il vostro parlare sì, sì; no, no'), ci parlano di sincerità».



Peccato che in questo «happy end» della «storia» l'eminente biblista e porporato dimentichi l'ultima delle Beatitudini, quella che sconquassa ogni irenismo tra Chiesa e «mondo» e che manda a carte e quarantotto quella stucchevole melassa di buoni sentimenti, cara forse a certi porporati sincretisti, ma del tutto estranea alla predicazione evangelica: «beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli».
La recente sortita di Martini, dunque, non sorprende affatto.
Se e finchè ne avrà la forza, altre ne seguiranno e sempre troveranno - come hanno trovato - voci pronte ad amplificarne la portata.
Dopo anni di semina di «zizzania», egli sa di poter contare su una vasta ragnatela di rapporti, su un ampio consenso nei «cenacoli cristiani» d'elite e nelle altrettanto elitarie e sedicenti «comunità di base», sull'appoggio incondizionato di vasta parte della cultura e dell'editoria cattolica cresciuta nel post-concilio, su consolidati sostegni in ambienti laicisti, sulla simpatia delle chiese cristiane di matrice protestante, sulla benevolenza degli ambienti anglicani e massonici e infine sul favore non disinteressato di molti dei suoi «fratelli maggiori»… a Gerusalemme e non solo.
A tale proposito non sembra casuale che il cardinale Martini abbia scelto ed ottenuto ospitalità per questa intervista proprio sull'Espresso, il più laicista tra i settimanali italiani, di proprietà di Carlo De Benedetti, appartenente ad una famiglia di finanzieri ebrei, che della propria ebraicità ne hanno fatto un tale motivo di orgoglio, da mettere addirittura in crisi per un attimo la stessa Unione della comunità ebraiche in Italia (UCEI).



Non è un dettaglio insignificante: pochi sanno, probabilmente, che nello scorso mese di settembre il Consiglio dell´UCEI, riunitosi a Milano si è trovato a dover discutere le annunciate dimissioni di Amos Luzzatto.
Motivo?
In una intervista Luzzatto, per errore, definiva il finanziere Camillo De Benedetti «non ebreo».
Il figlio di costui, Mario, membro del collegio dei probiviri dell´UCEI, si dimise «per difendere l'orgoglio di essere ebreo di suo padre».
La sorella Claudia De Benedetti, sorella di Mario e anch'essa consigliera dell´UCEI, rivendicava in una intervista la propria ebraicità «da 25 generazioni , anzi da molto prima, dal 1200».
E aggiungeva: «secondo la tradizione ebraica solo chi è figlio di madre ebrea è ebreo. Mio padre, figlio di Carla Mortara, era ebreissimo. I fratelli Franco e Carlo De Benedetti, che appartengono allo stesso ceppo familiare, invece, figli di madre non ebrea, non sono ebrei. Anche se molto legati alla tradizione ebraica». E per concludere precisava: «noi non avremmo voluto mettere in piazza questa vicenda. Non volevamo diventasse dominio pubblico». (2)
Che il cardinale abbia scelto l'Espresso per rilasciare quella intervista non sembra un caso: possiamo domandarci se per caso non è anche il modo migliore per compiacere un certo mondo, sperando - magari - di «captare benevolentiam»?
Certo è il modo migliore per poter vantare il consenso di certa parte dell'opinione pubblica, culturalmente, spiritualmente e politicamente orientata, non certo quello di confermare i fratelli nella fede cattolica.
Non risulta che la sua «cattedra dei non credenti» e le sue catechesi in cattedrale quando era arcivescovo di Milano abbiano ridestato la fede in coloro in cui si era assopita, né che la pietà religiosa ne abbia tratto granché di giovamento.



Di certo invece vi è che, se con quest'ultima intervista il suo obiettivo era quello di scandalizzare le anime semplici, il cardinale ha colto nel segno.
Peggio per lui.
Anche l'intervistatore, il professor Ignazio Marino, non è un intervistatore scelto a caso: tornato dopo vent'anni di «esilio» negli Stati Uniti (era uno dei «cervelli in fuga»), direttore del centro trapianti dell'università di Philadelphia, candidato nelle liste dei DS, Ignazio Marino, amico di Rosy Bindi e di Massimo D'Alema, si è espresso a favore della «sacralità» della vita ed ha ammesso come «la Chiesa spesso sia più avanzata delle leggi».
Insomma lo scenario è quello di due anime nominalmente schierate in campi opposti, disponibili però a dimostrare una esemplare vicinanza, basata sulla magica formula dell'«ascolto reciproco».
Ed infatti l'intervista è tutta giocata sull'ambigua giustapposizione di principi e fattualità e sul sottile e «perverso» utilizzo della teoria del «male minore» come dato imprescindibile da cui partire: siccome la ricerca sulle cellule staminali c'è - domanda retoricamente il porporato - è preferibile «fare morire l'embrione o propendere per quella soluzione che permette a una vita di espandersi piuttosto che lasciarla morire?».
Come e perché quell'embrione se ne stia lì congelato, chi ce lo abbia messo, se tutto ciò corrisponda a «verità» o meno, se sia giusto o meno, sono problemi che il Cardinale - tutto intento a compiacere il suo interlocutore - neppure sfiora.



Siccome l'aborto c'è, lascia intendere il porporato, non è forse meglio che «uno Stato moderno intervenga almeno per impedire una situazione selvaggia e arbitraria?».
Siccome l'AIDS c'è - afferma ancora Martini - «bisogna fare di tutto per contrastare l'AIDS. Certamente l'uso del profilattico può costituire in certe situazioni un male minore».
Il fatto che, ad esempio in Africa, l'AIDS sia assai meno diffuso nelle aree a forte presenza cattolica?
Ignorato.
Il problema dell'educazione sentimentale?
Assente.
Unico dubbio del cardinale?
«Se convenga che siano le autorità religiose a propagandare un tale mezzo di difesa, quasi ritenendo che gli altri mezzi moralmente sostenibili, compresa l'astinenza, vengano messi in secondo piano, mentre si rischia di promuovere un atteggiamento irresponsabile».
Sarebbe come dire: siccome il «male» c'è, non combattiamolo nella radice, riduciamone gli effetti. E' la trasposizione ecclesiale della sociologia del «controllo sociale» della devianza, elaborata nel corso degli ultimi anni e cara a certi scienziati sociali di impostazione «liberal».
Il subdolo utilizzo della teoria del male minore, nei modi in cui essa è impiegata dal cardinale Martini, appare in realtà un grimaldello usato per scardinare l'intera costruzione della morale cattolica a proposito di vita, procreazione e sessualità, ben sapendo che aprire una falla seppur piccola in questa materia significa distruggerne l'intero edificio.



La stessa difesa della vita fatta dal cardinale è argomentata in modo perlomeno cervellotico, laddove egli afferma che «la prosecuzione della vita umana fisica non è di per sè il principio primo e assoluto. Sopra di esso sta quello della dignità umana, dignità che nella visione cristiana e di molte religioni comporta una apertura alla vita eterna che Dio promette all'uomo. […] Le ragioni di fondo dei cristiani stanno nelle parole di Gesù, il quale affermava che 'la vita vale più del cibo e il corpo più del vestito' (confronta Matteo 6,25), ma esortava a non avere paura 'di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l'anima' (confronta Matteo 10,28). La vita fisica va dunque rispettata e difesa, ma non è il valore supremo e assoluto» […]
«V'è dunque una dignità dell'esistenza che non si limita alla sola vita fisica, ma guarda alla vita eterna».
Che vuol dire?
Forse che vale la pena di vivere solo una vita piena di dignità?
E se la dignità della vita deriva dalla vocazione alla vita eterna, chi ammaestrerà gli uomini a meritarla con le buone opere?
Certo che «la vita vale più del cibo e il corpo più del vestito!».
Ma questo vale se uno offre la propria vita per il Regno dei Cieli!
Che c'entra a proposito dell'aborto e della vita del feto?
Qual è il retropensiero nascosto dalla reticenza a definire l'aborto per quello che è, cioè un omicidio?



O forse che l'embrione è vita meno degna di quella di colui che è già persona compiuta?
E perché dare per scontata l'affermazione del professor Marino, secondo cui l'ovocita allo stadio dei due protonuclei non sarebbe embrione, senza neppure prendere in considerazione - come ha fatto monsignor Sgreccia, presidente della Pontificia Accademia per la vita - che questa teoria non è affatto condivisa da molti embrionologi e che nel dubbio ci si dovrebbe comunque astenere da qualsiasi utilizzazione o manipolazione?
Non vado oltre, potendo il lettore leggersi integralmente l'intervista, oltrechè sul periodico che l'ha ospitata, oramai anche sulla rete. (3)
Quello che preme mettere in evidenza è il tipo di argomentazioni addotte da Martini, l'approccio e la metodologia del suo discorso: un approccio da «radicali clericali».
Pannella ed i suoi nella loro azione politica ci hanno abituato in questi anni ad una strategia articolata secondo un modulo fisso:
a) sollevare i problemi da inserire nell'agenda di lavoro con il massimo clamore;
b) rappresentare questi problemi con la massima drammaticità;
c) definirli come problemi di estrema urgenza che investono un vasto corpo sociale;
d) chiedere che i problemi stessi vengano affrontati non partendo dall'assunto generale,
ma da quello particolare, non dalla norma ma dall'eccezione alla norma, non dal comportamento conforme al principio, ma da quello deviante;
e) proporre una soluzione del problema inclusiva di tutte le opzioni (o del più vasto numero
di opzioni), in maniera che il principio etico recepito nella norma non sia mai prescrittivo,
ma solo descrittivo, essendo il primo - quello prescrittivo - riservato alla coscienza individuale
di ciascuno.
Non dissimile nella sostanza è l'approccio di Martini, anche se certo i suoi toni sono ben diversi
da quelli irruenti, ma schietti, d'un Capezzone o di un Pannella.

(continua...)

Domenico Savino



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Note
1) Il cardinal Martini nello scorso mese di maggio 2005 venne anche ricoverato improvvisamente all'Ospedale Gemelli, dove fu sottoposto a diversi esami clinici di controllo.
2) Confronta Il Corriere della Sera del 15 settembre 2005, pagina 6, «Tensione nella comunità Luzzatto pronto a lasciare. Polemiche dopo la replica a Crosetto sui banchieri. Gli ebrei romani: il presidente non deve dimettersi», di Dino Martirano. http://www.ucei.it/uceinforma/rasseg...ino/160905.asp
http://www.ucei.it/uceinforma/rasseg...a/160905_1.asp
3) si veda ad esempio http://www.chiesa.espressonline.it/d...o.jsp?id=51790





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