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    Veritas liberabit vos
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    Unhappy L'Inferno esiste e molti si dannano

    L'inferno esiste e molti si dannano.


    Scritti biblici , del Magistero , dei santi e di altri importanti autori sull’inferno e sui molti che vi cadono.

    di don Tullio Rotondo



    Testi biblici


    Matteo cap. 5
    21Avete inteso che fu detto agli antichi: Non uccidere; chi avrà ucciso sarà sottoposto a giudizio. 22Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio. Chi poi dice al fratello: stupido, sarà sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: pazzo, sarà sottoposto al fuoco della Geenna.
    29Se il tuo occhio destro ti è occasione di scandalo, cavalo e gettalo via da te: conviene che perisca uno dei tuoi membri, piuttosto che tutto il tuo corpo venga gettato nella Geenna. 30E se la tua mano destra ti è occasione di scandalo, tagliala e gettala via da te: conviene che perisca uno dei tuoi membri, piuttosto che tutto il tuo corpo vada a finire nella Geenna.

    Matteo cap.13
    31Un'altra parabola espose loro: "Il regno dei cieli si può paragonare a un granellino di senapa, che un uomo prende e semina nel suo campo. 32Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande degli altri legumi e diventa un albero, tanto che vengono gli uccelli del cielo e si annidano fra i suoi rami".
    33Un'altra parabola disse loro: "Il regno dei cieli si può paragonare al lievito, che una donna ha preso e impastato con tre misure di farina perché tutta si fermenti".
    34Tutte queste cose Gesù disse alla folla in parabole e non parlava ad essa se non in parabole, 35perché si adempisse ciò che era stato detto dal profeta:
    Aprirò la mia bocca in parabole,
    proclamerò cose nascoste fin dalla fondazione del mondo.
    36Poi Gesù lasciò la folla ed entrò in casa; i suoi discepoli gli si accostarono per dirgli: "Spiegaci la parabola della zizzania nel campo". 37Ed egli rispose: "Colui che semina il buon seme è il Figlio dell'uomo. 38Il campo è il mondo. Il seme buono sono i figli del regno; la zizzania sono i figli del maligno, 39e il nemico che l'ha seminata è il diavolo. La mietitura rappresenta la fine del mondo, e i mietitori sono gli angeli. 40Come dunque si raccoglie la zizzania e si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo. 41Il Figlio dell'uomo manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti gli operatori di iniquità 42e li getteranno nella fornace ardente dove sarà pianto e stridore di denti. 43Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro. Chi ha orecchi, intenda!




    Matteo 25
    31Quando il Figlio dell'uomo verrà nella sua gloria con tutti i suoi angeli, si siederà sul trono della sua gloria. 32E saranno riunite davanti a lui tutte le genti, ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri, 33e porrà le pecore alla sua destra e i capri alla sinistra. 34Allora il re dirà a quelli che stanno alla sua destra: Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo. 35Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, 36nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi. 37Allora i giusti gli risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere? 38Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo vestito? 39E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti? 40Rispondendo, il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me. 41Poi dirà a quelli alla sua sinistra: Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli. 42Perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e non mi avete dato da bere; 43ero forestiero e non mi avete ospitato, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato. 44Anch'essi allora risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo visto affamato o assetato o forestiero o nudo o malato o in carcere e non ti abbiamo assistito? 45Ma egli risponderà: In verità vi dico: ogni volta che non avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli, non l'avete fatto a me. 46E se ne andranno, questi al supplizio eterno, e i giusti alla vita eterna".

    Luca 16
    19C'era un uomo ricco, che vestiva di porpora e di bisso e tutti i giorni banchettava lautamente. 20Un mendicante, di nome Lazzaro, giaceva alla sua porta, coperto di piaghe, 21bramoso di sfamarsi di quello che cadeva dalla mensa del ricco. Perfino i cani venivano a leccare le sue piaghe. 22Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli nel seno di Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. 23Stando nell'inferno tra i tormenti, levò gli occhi e vide di lontano Abramo e Lazzaro accanto a lui. 24Allora gridando disse: Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell'acqua la punta del dito e bagnarmi la lingua, perché questa fiamma mi tortura. 25Ma Abramo rispose: Figlio, ricordati che hai ricevuto i tuoi beni durante la vita e Lazzaro parimenti i suoi mali; ora invece lui è consolato e tu sei in mezzo ai tormenti. 26Per di più, tra noi e voi è stabilito un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi non possono, né di costì si può attraversare fino a noi. 27E quegli replicò: Allora, padre, ti prego di mandarlo a casa di mio padre, 28perché ho cinque fratelli. Li ammonisca, perché non vengano anch'essi in questo luogo di tormento. 29Ma Abramo rispose: Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro. 30E lui: No, padre Abramo, ma se qualcuno dai morti andrà da loro, si ravvederanno. 31Abramo rispose: Se non ascoltano Mosè e i Profeti, neanche se uno risuscitasse dai morti saranno persuasi".

    2Pietro 2:4 Dio infatti non risparmiò gli angeli che avevano peccato, ma li precipitò negli abissi tenebrosi dell'inferno, serbandoli per il giudizio;

    Apocalisse 6:8 Ed ecco, mi apparve un cavallo verdastro. Colui che lo cavalcava si chiamava Morte e gli veniva dietro l'Inferno. Fu dato loro potere sopra la quarta parte della terra per sterminare con la spada, con la fame, con la peste e con le fiere della terra.

    Apocalisse 19:20 Ma la bestia fu catturata e con essa il falso profeta che alla sua presenza aveva operato quei portenti con i quali aveva sedotto quanti avevan ricevuto il marchio della bestia e ne avevano adorato la statua. Ambedue furono gettati vivi nello stagno di fuoco, ardente di zolfo.

    Apocalisse 20:10 E il diavolo, che li aveva sedotti, fu gettato nello stagno di fuoco e zolfo, dove sono anche la bestia e il falso profeta: saranno tormentati giorno e notte per i secoli dei secoli.
    Apocalisse 20:14 Poi la morte e gli inferi furono gettati nello stagno di fuoco. Questa è la seconda morte, lo stagno di fuoco.

    Apocalisse 20:15 E chi non era scritto nel libro della vita fu gettato nello stagno di fuoco.

    Apocalisse 21:8 Ma per i vili e gl'increduli, gli abietti e gli omicidi, gl'immorali, i fattucchieri, gli idolàtri e per tutti i mentitori è riservato lo stagno ardente di fuoco e di zolfo. È questa la seconda morte».



    Testi magisteriali

    Simbolo Quicumque: DS 76;
    "... quanti operarono il bene andranno alla vita eterna quelli che operarono il male al fuoco eterno"
    Sinodo di Costantinopoli (anno 543), Anathematismi contra Origenem, 9: DS 411;
    "Se qualcuno dice o ritiene che il castigo dei demoni e degli uomini empi è temporaneo e che esso avrà fine dopo un certo tempo, cioè ci sarà un ristabilimento dei demoni o degli uomini empi, sia anatema"
    Concilio Lateranense IV, Cap. 1, De fide catholica: DS 801

    La fede cattolica
    Crediamo fermamente e confessiamo semplicemente che uno solo è il vero Dio, eterno e immenso, onnipotente, immutabile, incomprensibile e ineffabile, Padre, Figlio e Spirito Santo, tre persone, ma una sola essenza, sostanza o natura semplicissima. Il Padre (non deriva) da alcuno, il Figlio dal solo Padre, lo Spirito Santo dall'uno e dall'altro, ugualmente, sempre senza inizio e senza fine. Il Padre genera, il Figlio nasce, lo Spirito Santo procede. Sono consostanziali e coeguali, coonnipotenti e coeterni, principio unico di tutto, creatore di tutte le cose visibili e invisibili, spirituali e materiali. Con la sua onnipotente potenza fin dal principio del tempo creò dal nulla l'uno e l'altro ordine di creature: quello spirituale e quello materiale, cioè gli angeli e il mondo, e poi l'uomo, quasi partecipe dell'uno e dell'altro, composto di anima e di corpo. Il diavolo infatti, e gli altri demoni, da Dio sono stati creati buoni per natura, ma sono diventati malvagi da sé stessi. E l'uomo ha peccato per suggestione del demonio. Questa santa Trinità, una, secondo la comune essenza, distinta secondo le proprietà delle persone, ha rivelato al genere umano, per mezzo di Mosé, dei santi profeti e degli altri suoi servi la dottrina di salvezza, secondo una sapientissima disposizione dei tempi. E finalmente il Figlio unigenito di Dio, Gesù Cristo, incarnatosi per opera comune della Trinità, concepito da Maria sempre vergine con la cooperazione dello Spirito Santo, divenuto vero uomo, composto di anima razionale e di carne umana, una sola persona in due nature, manifestò più chiaramente la via della vita. Immortale e impassibile secondo la divinità, Egli si fece passibile e mortale secondo l'umanità; anzi, dopo aver sofferto sul legno della croce ed esser morto per la salvezza del genere umano, discese negli inferi, risorse dai morti e salì al cielo; ma discese con l'anima, risorse con la carne, salì con l'uno e l'altro; e verrà alla fine dei tempi per giudicare i vivi e i morti e per compensare ciascuno secondo le sue opere, i cattivi come i buoni. Tutti risorgeranno coi propri corpi di cui ora sono rivestiti, per ricevere un compenso secondo i meriti, buoni o cattivi che siano stati: quelli con il diavolo riceveranno la pena eterna, questi col Cristo la gloria eterna.
    Concilio di Lione II, Professione di fede di Michele Paleologo: DS 858

    “Le anime di coloro che muoiono in peccato mortale, o con il solo peccato originale, subito discendono all'inferno, dove sono punite con pene differenti”
    Benedetto XII, Cost. Benedictus Deus: DS 1002;

    “Noi inoltre definiamo che, secondo la generale disposizione di Dio, le anime di coloro che muoiono in peccato mortale attuale, subito dopo la loro morte discendono all'inferno dove sono tormentate con supplizi infernali e che non di meno nel giorno del giudizio tutti gli uomini compariranno davanti al tribunale di Cristo con i loro corpi, per rendere conto delle loro azioni affinché ciascuno riporti le conseguenze di quanto ha operato con il corpo, sia il bene che il male. “
    Concilio di Firenze, Decretum pro Iacobitis: DS 1351

    “Le anime di quelli che dopo aver ricevuto il battesimo non sono incorse in nessuna macchia; e anche quelle che, dopo aver contratto la macchia del peccato, sono state purificate o durante la loro vita, o, come sopra è stato detto, dopo essere state spogliate dai loro corpi, vengono subito accolte in cielo e vedono chiaramente Dio stesso, uno e trino, cosi com'è, nondimeno uno più perfettamente dell'altro, a seconda della diversità dei meriti. Invece, le anime di quelli che muoiono in peccato mortale attuale, o anche solo nel peccato originale, scendono subito nell'inferno; subiranno tuttavia la punizione con pene diverse.”
    Concilio di Trento, Sess. 6a, Decretum de iustificatione, canone 25: DS 1575

    “25. Se qualcuno afferma che in ogni opera buona il giusto pecca almeno venialmente, o (cosa ancor più intollerabile) mortalmente, e quindi merita le pene eterne, e che non viene condannato solo perché Dio non gli imputa a dannazione quelle opere: sia anatema”
    Paolo VI, Credo del popolo di Dio, 12: AAS 60 (1968) 438.

    “Noi crediamo in Nostro Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio. Egli è il Verbo eterno, nato dal Padre prima di tutti i secoli, e al Padre consustanziale, homoousios to Patri (8), e per mezzo di Lui tutto è stato fatto. Egli si è incarnato per opera dello Spirito nel seno della Vergine Maria, e si è fatto uomo: eguale , pertanto al Padre secondo la divinità, e inferiore al Padre secondo l’umanità, ed Egli stesso uno, non per una qualche impossibile confusione delle nature, ma per l’unità della persona .”
    Egli ha dimorato in mezzo a noi, pieno di grazia e di verità. Egli ha annunciato e instaurato il Regno di Dio, e in Se ci ha fatto conoscere il Padre. Egli ci ha dato il suo Comandamento nuovo, di amarci gli altri com’Egli ci ha amato. Ci ha insegnato la via delle Beatitudini del Vangelo: povertà in spirito, mitezza, dolore sopportato nella pazienza, sete della giustizia, misericordia, purezza di cuore, volontà di pace, persecuzione sofferta per la giustizia . Egli ha patito sotto Ponzio Pilato, Agnello di Dio che porta sopra di sé i peccati del mondo, ed è morto per noi sulla Croce, salvandoci col suo Sangue redentore. Egli è stato sepolto e, per suo proprio potere, è risorto nel terzo giorno, elevandoci con la sua Resurrezione alla partecipazione della vita divina, che è la vita della grazia. Egli è salito al Cielo, e verrà nuovamente, nella gloria, per giudicare i vivi e i morti, ciascuno secondo i propri meriti; sicché andranno alla vita eterna coloro che hanno risposto all'Amore e alla Misericordia di Dio, e andranno nel fuoco inestinguibile coloro che fino all’ultimo vi hanno opposto il loro rifiuto.
    E il suo Regno non avrà fine.”

    Dal Catechismo tridentino:

    Che cosa voglia dire, genericamente, "inferno"

    68 DISCESE ALL'INFERNO. Nella prima parte dell'articolo ci viene proposto di credere che, dopo la morte di Gesù Cristo, la sua anima discese all'inferno e vi rimase finché il corpo restò nel sepolcro. Con queste parole riconosciamo che, in quel tempo, la medesima persona di Gesù Cristo fu nell'inferno e giacque nel sepolcro, il che non deve sorprendere. Infatti, come spesso abbiamo ripetuto, sebbene l'anima fosse uscita dal corpo, tuttavia la divinità non si separò mai né dall'anima, né dal corpo.
    II parroco getterà molta luce sul senso dell'articolo, spiegando subito che cosa si debba intendere qui con il termine "inferno". Ammonirà anzitutto che esso non sta a significare il "sepolcro", come alcuni, non meno empiamente che ignorantemente, interpretarono. Abbiamo infatti appreso già dall'articolo precedente che Gesù Cristo nostro Signore fu sepolto; ne v'era motivo perché gli Apostoli, nel redigere la regola della fede, ripetessero il medesimo concetto, con formula più oscura. Qui il vocabolo in questione vuole significare quelle nascoste sedi, in cui stanno le anime di coloro che non hanno conseguito la beatitudine celeste. La Sacra Scrittura offre molteplici esempi di questo uso. In san Paolo leggiamo: "In nome di Gesù, ogni ginocchio si curvi, in cielo, in terra, nell'inferno" (Fil 2,10). Negli Atti degli Apostoli san Pietro assicura che Gesù Cristo nostro Signore risuscitò, dopo aver superato i dolori dell'inferno (At 2,24).

    Che cosa voglia dire specificamente

    69 Tali sedi non son tutte del medesimo genere. Una è quella prigione tenebrosa e orribile, nella quale le anime dei dannati giacciono in un fuoco perpetuo e inestinguibile, insieme agli spiriti immondi. In questo significato abbiamo i termini equivalenti di Geenna, abisso, inferno propriamente detto. In secondo luogo c'è la sede del fuoco purgante, soffrendo nel quale, per un determinato tempo, le anime dei giusti subiscono l'espiazione, onde possano salire alla patria eterna, chiusa a ogni ombra di colpa. Anzi, sulla verità di questa dottrina, che i santi concili proclamano contenuta nella Scrittura come nella Tradizione apostolica, il parroco insisterà con rinnovata diligenza, poiché viviamo in tempi nei quali la sana dottrina non trova agevole accesso presso gli uomini. Infine una terza sede è quella in cui le anime dei santi furono ospitate prima della venuta di Gesù Cristo nostro Signore. Esse vi dimorarono quietamente, immuni da ogni pena, alimentate dalla beatifica speranza della redenzione.

    Reale discesa dell'anima di Gesù Cristo nell'inferno.

    70 Gesù Cristo scendendo nell'inferno liberò appunto le anime di questi giusti, aspettanti il Salvatore nel seno di Abramo. Ne dobbiamo credere che vi sia disceso in modo da farvi pervenire soltanto la sua virtù e la sua potenza, ma non la sua anima. Dobbiamo invece ritenere con tutta fermezza che la sua anima discese realmente e con la sua presenza nell'inferno. Abbiamo in proposito l'esplicita testimonianza di David: "Non lascerai l'anima mia nell'inferno" (Sal 15,10).
    La discesa di Gesù Cristo all'inferno nulla detrasse all'infinita sua potenza, né gettò alcun'ombra offuscatrice sullo splendore della sua santità. Al contrario fu cosi solennemente confermato quanto era stato dichiarato circa la sua santità e la sua figliolanza da Dio, già manifestata da tanti miracoli. Ce ne persuaderemo senza indugio, se riflettiamo alle ben diverse ragioni, per le quali scesero in quella sede Gesù Cristo e gli altri. Tutti vi erano penetrati prigionieri; egli invece, libero e vincitore fra morti, vi entrò per debellare i demoni, dai quali essi erano tenuti prigionieri a causa della colpa originale. Inoltre, di tutti gli altri che erano discesi nell'inferno, una parte era stretta dalle più opprimenti pene; un'altra parte, pur libera da dolori sensibili, era amareggiata dalla privazione della visione di Dio e dall'aspettativa ansiosa della sperata beatitudine. Cristo signore invece vi discese non per soffrire, bensì per liberare i giusti dalla molestia dell'ingrata prigione e conferir loro il frutto della propria passione. Nella sua discesa dunque non si riscontra nessuna diminuzione dell'infinita sua dignità e potenza.

    Condanna degli empi.

    94 Rivolto poi a quelli che staranno alla sua sinistra, fulminerà contro di essi la sua giustizia con queste parole: "Via da me, maledetti, al fuoco eterno, preparato per il diavolo e i suoi angeli" (Mt 25,41 ). Con le prime, "Via da me", viene espressa la maggiore delle pene che colpirà gli empi, con l'essere cacciati il più possibile lungi dal cospetto di Dio, ne li potrà consolare la speranza che un giorno potranno fruire di tanto bene. Questa è dai teologi chiamata "pena del danno", per la quale gli empi saranno privati per sempre, nell'inferno, della luce della visione divina. L'altra parola, "maledetti", aumenterà sensibilmente la loro miseria e calamità. Se mentre son cacciati dalla presenza di Dio fossero stimati degni almeno di qualche benedizione, questo tornerebbe a grande loro sollievo; ma poiché nulla di simile potranno aspettarsi, che allevi la loro disgrazia, la divina giustizia, cacciandoli giustamente, li colpisce con ogni sua maledizione.
    Seguono poi le parole: "al fuoco eterno"; è il secondo genere di pena che i teologi chiamano "pena del senso", perché si percepisce con i sensi del corpo, come avviene dei flagelli, delle battiture o di altro più grave supplizio, tra i quali non è a dubitare che il tormento del fuoco provochi il più acuto dolore sensibile. Aggiungendo a tanto male la durata perpetua, se ne deduce che la pena dei dannati rappresenta il colmo di tutti i supplizi. Ciò è meglio spiegato dalle parole che terminano la sentenza: "preparato per il diavolo e per i suoi angeli". Siccome la nostra natura è tale che noi più facilmente sopportiamo le nostre molestie, se abbiamo come socio delle nostre disgrazie qualcuno, la cui prudenza e gentilezza ci possano in qualche modo giovare, quale non sarà la miseria dei dannati, cui non sarà mai concesso, in tanti tormenti, separarsi dalla compagnia dei perdutissimi demoni. Tale sentenza giustamente il Signore e Salvatore nostro emanerà contro gli empi, perché questi hanno trascurato tutte le opere di vera pietà: non hanno offerto cibo all'affamato e bevanda all'assetato; non hanno alloggiato l'ospite, vestito l'ignudo, visitato l'infermo e il carcerato.

    Dal Catechismo della Chiesa Cattolica:


    IV. L'inferno

    1033 Non possiamo essere uniti a Dio se non scegliamo liberamente di amarlo. Ma non possiamo amare Dio se pecchiamo gravemente contro di lui, contro il nostro prossimo o contro noi stessi: "Chi non ama rimane nella morte. Chiunque odia il proprio fratello è omicida, e voi sapete che nessun omicida possiede in se stesso la vita eterna" ( 1Gv 3,15 ). Nostro Signore ci avverte che saremo separati da lui se non soccorriamo nei loro gravi bisogni i poveri e i piccoli che sono suoi fratelli [Cf Mt 25,31-46 ]. Morire in peccato mortale senza essersene pentiti e senza accogliere l'amore misericordioso di Dio, significa rimanere separati per sempre da lui per una nostra libera scelta. Ed è questo stato di definitiva auto-esclusione dalla comunione con Dio e con i beati che viene designato con la parola "inferno".
    1034 Gesù parla ripetutamente della "Geenna", del "fuoco inestinguibile", [Cf Mt 5,22; Mt 5,29; 1034 Mt 13,42; Mt 13,50; Mc 9,43-48 ] che è riservato a chi sino alla fine della vita rifiuta di credere e di convertirsi, e dove possono perire sia l'anima che il corpo [Cf Mt 10,28 ]. Gesù annunzia con parole severe che egli "manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno. . . tutti gli operatori di iniquità e li getteranno nella fornace ardente" ( Mt 13,41-42 ), e che pronunzierà la condanna: "Via, lontano da me, maledettinel fuoco eterno!" ( Mt 25,41 ).

    1035 La Chiesa nel suo insegnamento afferma l'esistenza dell'inferno e la sua eternità. Le anime di coloro che muoiono in stato di peccato mortale, dopo la morte discendono immediatamente negli inferi, dove subiscono le pene dell'inferno, "il fuoco eterno" [Cf Simbolo "Quicumque": Denz. -Schnöm., 76; Sinodo di Costantinopoli: ibid., 409. 411; 274]. La pena principale dell'inferno consiste nella separazione eterna da Dio, nel quale soltanto l'uomo può avere la vita e la felicità per le quali è stato creato e alle quali aspira.

    1036 Le affermazioni della Sacra Scrittura e gli insegnamenti della Chiesa riguardanti l'inferno sono un appello alla responsabilità con la quale l'uomo deve usare la propria libertà in vista del proprio destino eterno. Costituiscono nello stesso tempo un pressante appello alla conversione: "Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che entrano per essa; quanto stretta invece è la porta e angusta la via che conduce alla Vita, e quanto pochi sono quelli che la trovano!" ( Mt 7,13-14 ).
    Siccome non conosciamo né il giorno né l'ora, bisogna, come ci avvisa il Signore, che vegliamo assiduamente, affinché, finito l'unico corso della nostra vita terrena, meritiamo con lui di entrare al banchetto nuziale ed essere annoverati tra i beati, né ci si comandi, come a servi cattivi e pigri, di andare al fuoco eterno, nelle tenebre esteriori dove "ci sarà pianto e stridore di denti" [Conc. Ecum. Vat. II, Lumen gentium, 48].

    1037 Dio non predestina nessuno ad andare all'inferno; [ Cf Concilio di Orange II: Denz. -Schönm. , 397; Concilio di Trento: ibid. , 1567] questo è la conseguenza di una avversione volontaria a Dio (un peccato mortale), in cui si persiste sino alla fine. Nella liturgia eucaristica e nelle preghiere quotidiane dei fedeli, la Chiesa implora la misericordia di Dio, il quale non vuole "che alcuno perisca, ma che tutti abbiano modo di pentirsi" ( 2Pt 3,9 ):
    Accetta con benevolenza, o Signore, l'offerta che ti presentiamo noi tuoi ministri e tutta la tua famiglia: disponi nella tua pace i nostri giorni, salvaci dalla dannazione eterna, e accoglici nel gregge degli eletti [Messale Romano, Canone Romano].

  2. #2
    Ashmael
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    Benvenuto nel Ventunesimo secolo. Baby cresci...

  3. #3
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    Citazione Originariamente Scritto da antonio
    che l'Inferno esista, come realta' ultraterrena, e' incontestabile.. .ma non credo che inizi nell'aldila'...
    Scusami, è una batuta o ti riferisci ad un punto preciso del dossier che ho postato.

  4. #4
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    Citazione Originariamente Scritto da Ashmael
    Benvenuto nel Ventunesimo secolo. Baby cresci...
    Perché Ashmael vuoi rovinarti con le tue mani. Il dossier che solo in parte ho riprodotto, è dottrina cattolica, confermata da tutti i papi, compreso G. P.II. Il Mondo è libero di disobbediore a Dio e alla sua Chiesa . L'Onnipotente penserà a rimettere tutto in ordine. Sono certo di ciò che potrei firmarti milioni di cambiali o testimoniare con la vita, come i martiri cristiani che Extra Ecclesiam, nulla Salus.
    Preferisco l'Eternità al fugace battito d'ali (la metafora è di un poeta greco classico, nn di saffo però ) che è questa vita

  5. #5
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    Citazione Originariamente Scritto da antonio
    io penso che la vita terrena possa offrire concrete anticipazioni dell'inferno.
    La vita terrena è una palestra, un campo di combatimento spirituale e le sofferenze inevitabili, vista la nostra conditio post peccatum, devono fortificarci e farci tendere alla meta. In altre parole, il cristiano nn si procura il dolore, ma lo accetta e lo offre quale olocausto per sé e per gli altri. La lacrimarum valle terrena, però, nn è assimilabile in toto alla condizione infera, che è definitiva ed escludente la beatifica visione divina(ho semplificato. NN me ne volgiano i teologi tradizionalisti )

    Dire che la vita sulla terra è un inferno ha valore solamente retorico-linguistico, come pura metafora, nn stretamente teologico.
    Il principe di questo è satana, ma Dio l'ha creato, l'ha riscattato col sangue di Cristo e lo farà rifiorire al momento della punizione degli empi e del Giudizio, momento bellissimo di Giustizia e di Gioia (altro che catastrofismo )

    Saluti a te, amico della Sardegna

  6. #6
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    Citazione Originariamente Scritto da antonio
    io penso che la vita terrena possa offrire concrete anticipazioni dell'inferno.
    Ma la prospettiva con cui le si affronta è o può essere ben diversa. Le sofferenze che affrontiamo su questa terra possono farci aprire il cuore a qualcosa di più grande, farci capire quello che Dio vuole e del resto un cristiano sa che tutto è per un bene più grande, anche quando tutto sembra urlarti che non è vero. Nella mia esperienza devo ammettere che tutto ciò che mi è avvenuto finora, anche quello che sembrava essere la peggior cosa per la mia vita, ciò su cui si decideva tutto di me, era solo un passaggio verso un bene maggiore. Viceversa mi sembra che nell'inferno vi sia solo disperazione e nulla che rimandi a qualcosa d'altro, si è soli e disperati.

  7. #7
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    eppure... ahimè, siamo sinceri: quanti preti oggi parlano dell'inferno?

    zero via zero!

  8. #8
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    Citazione Originariamente Scritto da Dreyer
    eppure... ahimè, siamo sinceri: quanti preti oggi parlano dell'inferno?

    zero via zero!
    Sottoscrivo in pieno la tua notazione (purtroppo.. )

  9. #9
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    Dossier sull'esistenza dell'Inferno II Parte


    Testi di Santi, Papi, Dottori della Chiesa e altri importanti autori.



    S. Alfonso de’Liguori

    Dall’ ”Apparecchio alla morte”

    CONSIDERAZIONE XXVI –
    DELLE PENE DELL'INFERNO

    «Et ibunt hi in supplicium aeternum» (Matth. 25. 46). -
    PUNTO I

    Due mali fa il peccatore, allorché pecca, lascia Dio sommo bene, e si rivolta alle creature: «Duo enim mala fecit populus meus, me dereliquerunt fontem aquae vivae, et foderunt sibi cisternas; cisternas dissipatas, quae continere non valent aquas» (Ier. 2. 13). Perché dunque il peccatore si volta alle creature con disgusto di Dio, giustamente nell'inferno sarà tormentato dalle stesse creature, dal fuoco e da' demonii, e questa è la pena del senso. Ma perché la sua colpa maggiore, dove consiste il peccato, è il voltare le spalle a Dio, perciò la pena principale che sarà nell'inferno, sarà la pena del danno. Ch'é1 la pena d'aver perduto Dio.
    Consideriamo prima la pena del senso. È di fede che vi è l'inferno. In mezzo alla terra vi è questa prigione riservata al castigo de' ribelli di Dio. Che cosa è questo inferno? è il luogo de' tormenti. «In hunc locum tormentorum», così chiamò l'inferno l'Epulone dannato (Luca 16. 28). Luogo di tormenti, dove tutti i sensi e le potenze del dannato hanno da avere il lor proprio tormento; e quanto più alcuno in un senso avrà offeso Dio, tanto più in quel senso avrà da esser tormentato: «Per quae peccat quis, per haec et torquetur» (Sap. 11. 17). «Quantum in deliciis fuit, tantum date illi tormentum» (Apoc. 18. 7).2 Sarà tormentata la vista colle tenebre. «Terram tenebrarum, et opertam mortis caligine» (Iob. 10. 21). Che compassione fa il sentire che un pover'uomo sta chiuso in una fossa oscura per mentre vive, per 40-50 anni di vita! L'inferno è una fossa chiusa da tutte le parti dove non entrerà mai raggio di sole o d'altra luce. «Usque in aeternum non videbit lumen» (Psal. 48. 20). Il fuoco che sulla terra illumina, nell'inferno sarà tutt'oscuro. «Vox Domini intercidentis flammam ignis» (Psal. 28. 7). Spiega S. Basilio Il Signore dividerà dal fuoco la luce, onde tal fuoco farà solamente l'officio di bruciare, ma non d'illuminare; e lo spiega più in breve Alberto Magno:4 «Dividet a calore splendorem». Lo stesso fumo che uscirà da questo fuoco, componerà quella procella di tenebre, di cui parla S. Giacomo, che accecherà gli occhi de' dannati: «Quibus procella tenebrarum servata est in aeternum» (Iac. 2. 13).5 Dice S. Tommaso (3. p. q. 97. n. 4),6 che a' dannati è riservato tanto di luce solamente, quanto basta a più tormentarli. «Quantum sufficit ad videndum illa, quae torquere possunt». Vedranno in quel barlume di luce la bruttezza degli altri reprobi e de' demoni, che prenderanno forme orrende per più spaventarli.
    Sarà tormentato l'odorato. Che pena sarebbe trovarsi chiuso in una stanza con un cadavere fracido? «De cadaveribus eorum ascendit foetor» (Is. 34. 3). Il dannato ha da stare in mezzo a tanti milioni d'altri dannati, vivi alla pena, ma cadaveri per la puzza che mandano. Dice S. Bonaventura7 che se un corpo d'un dannato fosse cacciato dall'inferno, basterebbe a far morire per la puzza tutti gli uomini. E poi dicono alcuni pazzi: Se vado all'inferno, non sono solo. Miseri! quanti più sono nell'inferno, tanto più penano. «Ibi (dice S. Tommaso)8 miserorum societas miseriam non minuet, sed augebit» (S. Thom. Suppl. q. 89. a. 1). Più penano (dico) per la puzza, per le grida e per la strettezza; poiché staran nell'inferno l'un sopra l'altro, come pecore ammucchiate in tempo d'inverno: «Sicut oves in inferno positi sunt» (Psal. 48. 15). Anzi più, staran come uve spremute sotto il torchio dell'ira di Dio. «Et ipse calcat torcular vini furoris irae Dei» (Apoc. 19. 15). Dal che ne avverrà poi la pena dell'immobilità. «Fiant immobiles quasi lapis» (Exod. 15. 16). Sicché il dannato siccome caderà nell'inferno nel giorno finale, così avrà da restare senza cambiare più sito e senza poter più muovere né un piede, né una mano, per mentre Dio sarà Dio.
    Sarà tormentato l'udito cogli urli continui e pianti di quei poveri disperati. I demonii faranno continui strepiti. «Sonitus terroris semper in aure eius» (Iob. 15. 21). Che pena è quando si vuol dormire e si sente un infermo che continuamente si lamenta, un cane che abbaia, o un fanciullo che piange? Miseri dannati, che han da sentire di continuo per tutta l'eternità quei rumori e le grida di quei tormentati! Sarà tormentata la gola colla fame; avrà il dannato una fame canina: «Famem patientur ut canes» (Psal. 58. 15). Ma non avrà mai una briciola di pane. Avrà poi una tale sete, che non gli basterebbe tutta l'acqua del mare; ma non ne avrà neppure una stilla: una stilla ne domandava l'Epulone,9 ma questa non l'ha avuta ancora, e non l'avrà mai, mai.

    Affetti e preghiere.

    Ah mio Signore, ecco a' piedi vostri chi ha fatto tanto poco conto della vostra grazia e de' vostri castighi. Povero me, se Voi, Gesù mio, non aveste avuto di me pietà, da quanti anni starei in quella fornace puzzolente, dove già vi stanno ad ardere tanti pari miei! Ah mio Redentore, come pensando a ciò non ardo del vostro amore? come potrò per l'avvenire pensare ad offendervi di nuovo! Ah non sia mai, Gesu-Cristo mio, fatemi prima mille volte morire. Giacché avete cominciato, compite l'opera. Voi mi avete cacciato dal lezzo di tanti miei peccati, e con tanto amore mi avete chiamato ad amarvi; deh fate ora che questo tempo che mi date, io lo spenda tutto per Voi. Quanto desidererebbero i dannati un giorno, un'ora del tempo che a me concedete; ed io che farò? seguirò a spenderlo in cose di vostro disgusto? No, Gesù mio, non lo permettete, per li meriti di quel sangue, che sinora m'ha liberato dall'inferno. V'amo, o sommo bene, e perché v'amo mi pento di avervi offeso; non voglio più offendervi, ma sempre amarvi.
    Regina e Madre mia Maria, pregate Gesù per me, ed ottenetemi il dono della perseveranza e del suo santo amore.
    1 [13.] danno. Ch'è) danno, ch'è BR2.
    2 [24.] Apoc., 18, 7: «Quantum glorificavit se et in deliciis fuit, tantum date illi tormentum et luctum».
    3 [1.] METAPHRASTES, Sermones 24 selecti, sermo 14 de futuro iudicio, n. 2; PG 32, 1299: «Ut cum duae sint in igne facultates, quarum una comburit, altera illustrat... adeo ut supplicii quidem ignis obscurus sit... cuius quidem lumen, iustorum oblectamento: urendi vero molestia, puniendorum tribuetur ultioni». Cfr. S. BASILIUS M., Hom. in Ps. 28, n. 6: PG 29, 298: «Quamquam… ignis consiliis humanis insecabilis ac individuus videtur esse, nihilominus tamen Dei iussu interciditur ac dividitur…, adeo ut supplicii quidem ignis obscurus sit; lux vero requietis, vi careat comburendi». IDEM, Hom. in Ps. 33, n. 8; PG 29, 371: «Postea animo tibi fingas barathrum profundum, tenebras inextricabiles, ignem splendoris expertem, vim quidem urendi in tenebris habentem, sed luce destitutum».
    4 [3.] S. ALBERTUS M., Summa theologica, p. II, q. 12, membrum 2; Opera, XVIII, Lugduni 1651, 85, col. 2: «Unde Basilius etiam dicit super illud Ps. 18: Vox Domini intercidentis flammam ignis, quod in die iudicii lumen quod est in igne, ascendet ad locum beatorum: et ardor fuliginosus descendet ad locum damnatorum: et sic vox Domini sive praeceptum intercidit flammam ignis».
    5 [7.] Iud., 13, non Iac., 2, 13: «Iudicium enim sine misericordia illi, qui non fecit misericordiam».
    6 [7.] S. THOMAS, Suppl. III partis Summae theol., q. 97, a. 4, c.: «Unde simpliciter loquendo locus est tenebrosus; se tamen ex divina dispositione est ibi aliquid luminis, quantum sufficit ad videndum illa quae animam torquere possunt».
    7 [16.] Il testo è comune tra gli autori spirituali, che mai indicano il luogo preciso di s. Bonaventura: BESSEUS P., Conciones... super quatuor novissima. De inferno, concio 4; Venetiis 1617, 472: «Unde Isaias (XXXIV, 3): De cadaveribus eorum ascendet foetor; at tam enormis et pestilens, ut Bonaventura dicere ausus sit mundum universum confestim lue inficiendum, si vel unius damnati corpus in eum inferretur». DREXELIUS, Infermus damnatorum carcer et rogus, c. V, par. 2, Lugduni 1658, 156, col. 2: «Divus Bonaventura ausus est dicere: Si vel unius damnati cadaver in orbe hoc nostro sit, orbem totum ab eo inficiendum». ROSIGNOLI C. G., Verità eterne, lez. VI, parag. I: Bologna 1689, 105-106: «Più ebbe a dire S.
    Bonaventura che se il cadavere d'un dannato fosse tratto dall'inferno, e riposto sopra la superficie della terra ad esalare il suo lezzo, basterebbe ad appestare tutta la terra». Vedi anche SPANNER, op. cit., I, Venetiis 1709, 431.
    8 [3.] S. THOMAS, Suppl. III partis Summae theol., q. 89, a. 4, c.: «Nec ob hoc minuitur aliquid de daemonum poena, quia in hoc etiam quod alios torquent, ipsi torquebuntur: ibi enim miserorum societas miseriam non minuet, sed augebit».
    9 [25.] Luc., 16, 24: «Mitte Lazarum, ut intingat extremum digiti sui in aquam, ut refrigeret linguam meam, quia crucior in hac flamma».

    PUNTO II.

    La pena poi che più tormenta il senso del dannato, è il fuoco del l'inferno, che tormenta il tatto. «Vindicta carnis impii ignis, et vermis» (Eccli. 7. 19). Che perciò il Signore nel giudizio ne fa special menzione: «Discedite a me, maledicti, in ignem aeternum» (Matth. 41).1 Anche in questa terra la pena del fuoco è la maggior2 di tutte; ma vi è tanta differenza dal fuoco nostro a quello dell'inferno, che dice S. Agostino3 che 'l nostro sembra dipinto. «In eius comparatione noster hic ignis depictus est». E S. Vincenzo Ferreri dice che a confronto il nostro4 è freddo. La ragione è,5 perché il fuoco nostro è creato per nostro utile, ma il fuoco dell'inferno è creato da Dio a posta per tormentare. «Longe alius (dice Tertulliano)6 est ignis, qui usui humano, alius qui Dei iustitiae deservit». Lo sdegno di Dio accende questo fuoco vendicatore. «Ignis succensus est in furore meo» (Ier. 15. 14). Quindi da Isaia il fuoco dell'inferno è chiamato spirito d'ardore: «Si abluerit Dominus sordes... in spiritu ardoris» (Is. 4).7 Il dannato sarà mandato non al fuoco, ma nel fuoco: «Discedite a me, maledicti, in ignem aeternum». Sicché il misero sarà circondato dal fuoco, come un legno dentro una fornace. Si troverà il dannato con un abisso di fuoco da sotto,8 un abisso di sopra, e un abisso d'intorno. Se tocca, se vede, se respira; non tocca, non vede, né respira altro che fuoco. Starà nel fuoco come il pesce nell'acqua. Ma questo fuoco non solamente starà d'intorno al dannato, ma entrerà anche dentro le sue viscere a tormentarlo. Il suo corpo diventerà tutto di fuoco, sicché bruceranno le viscere dentro del ventre, il cuore dentro del petto, le cervella dentro il capo, il sangue dentro le vene, anche le midolla dentro l'ossa: ogni dannato diventerà in se stesso una fornace di fuoco. «Pone eos ut clibanum ignis» (Ps. 20. 10). Taluni non possono soffrire di camminare per una via battuta dal sole, di stare in una stanza chiusa con una braciera,9 non soffrire una scintilla, che svola da una candela; e poi non temono quel fuoco, che divora, come dice Isaia:
    «Quis poterit habitare de vobis cum igne devorante?» (Is. 33. 14). Siccome una fiera divora un capretto, così il fuoco dell'inferno divora il dannato; lo divora, ma senza farlo mai morire. Siegui pazzo, dice S. Pier Damiani10 (parlando al disonesto), siegui11 a contentare la tua carne, che verrà un giorno in cui le tue disonestà diventeranno tutte pece nelle tue viscere, che farà più grande e più tormentosa la fiamma che ti brucerà nell'inferno: «Venit dies, imo nox, quando libido tua vertetur in picem, qua se nutriat perpetuus ignis in tuis visceribus» (S. P. Dam. Epist. 6). Aggiunge S. Girolamo (Epist. ad Pam.)12 che questo fuoco porterà seco tutti i tormenti e dolori che si patiscono in questa terra; dolori di fianco e di testa, di viscere, di nervi: «In uno igne omnia supplicia sentiunt in inferno peccatores». In questo fuoco vi sarà anche la pena del freddo. «Ad nimium calorem transeat ab aquis nivium» (Iob. 24. 19). Ma sempre bisogna intendere che tutte le pene di questa terra sono un'ombra, come dice il Grisostomo,13 a paragone delle pene dell'inferno: «Pone ignem, pone ferrum, quid, nisi umbra ad illa tormenta?»Le potenze anche avranno il lor proprio tormento. Il dannato sarà tormentato nella memoria, col ricordarsi del tempo che ha avuto in questa vita per salvarsi, e l'ha speso per dannarsi; e delle grazie che ha ricevute da Dio, e non se ne ha voluto servire. Nell'intelletto, col pensare al gran bene che ha perduto, paradiso e Dio; e che a questa perdita non vi è più rimedio. Nella volontà, in vedere che gli sarà negata sempre ogni cosa che domanda. «Desiderium peccatorum peribit» (Ps. 111. 10). Il misero non avrà mai niente di quel che desidera, ed avrà sempre tutto quello che abborrisce, che saranno le sue pene eterne. Vorrebbe uscir da' tormenti, e trovar pace, ma sarà sempre tormentato, e non avrà mai pace.
    Affetti e preghiere.

    Ah Gesù mio, il vostro sangue e la vostra morte sono la speranza mia. Voi siete morto, per liberare me dalla morte eterna. Ah Signore, e chi più ha partecipato de' meriti della vostra passione, che io miserabile, il quale tante volte mi ho meritato l'inferno? Deh non mi fate vivere più ingrato a tante grazie che mi avete fatte. Voi m'avete liberato dal fuoco dell'inferno, perché non volete ch'io arda in quel fuoco di tormento, ma arda del dolce fuoco dell'amor vostro. Aiutatemi dunque, acciocché io possa compiacere il vostro desiderio. Se ora stessi nell'inferno, non vi potrei più amare; ma giacché posso amarvi, io vi voglio amare. V'amo bontà infinita, v'amo mio Redentore, che tanto mi avete amato. Come ho potuto vivere tanto tempo scordato di Voi! Vi ringrazio che Voi non vi siete scordato di me. Se di me vi foste scordato, o starei al presente nell'inferno, o non avrei dolore de' miei peccati. Questo dolore che mi sento nel cuore di avervi offeso, questo desiderio che provo di amarvi assai, son doni della vostra grazia, che ancora mi assiste. Ve ne ringrazio, Gesù mio. Spero per l'avvenire di dare a Voi la vita che mi resta. Rinunzio a tutto. Voglio solo pensare a servirvi e darvi gusto. Ricordatemi sempre l'inferno che mi ho meritato, e le grazie che mi avete fatte; e non permettete ch'io abbia un'altra volta a voltarvi le spalle, ed a condannarmi da me stesso a questa fossa di tormenti.
    O Madre di Dio, pregate per me peccatore. La vostra intercessione m'ha liberato dall'inferno, con questa ancora liberatemi, o Madre mia, dal peccato, che solo può condannarmi di nuovo all'inferno.
    1 [21.] Matth., 25, 41.
    2 [22.] maggior) maggiore VR BR1 BR2.
    3 [24.] V. BELLOVACENSIS, Spec. morale, l. II, p. 3, dist. 2, Venetiis 1591, f. 146, col. 4: «Augustinus de Civ. Dei... Item ignis iste ad comparationem illius non est nisi quasi umbra vel pictura». DREXELIUS, op. cit., c. VI, parag. I; Lugduni 1658, 159, col. 2: «Noster ignis Augustino pictus videtur, sed ille alter, verus». GISOLFO P., op. cit., p. I, disc. 17; II, Roma 1694, 506: «E 'l fuoco infernale ha tanta maggior attività, ha tanto più intenso ardore, che afferma S. Agostino, esservi quella differenza tra l'uno e l'altro fuoco, quale appunto è co 'l fuoco dipinto in un quadro, e tra il fuoco vero materiale: In cuius comparatione noster hic ignis depictus est: S. August., tom. 10, serm. 181 de tempore, fol. 691». Cfr. S. AUGUST., Enarratio in Ps. XLIX, n. 7; PL 36, 569: «Non erit iste ignis sicut focus tuus, quo tamen si manum mittere cogaris, facies quidquid voluerit qui hoc minatur». Cfr. CC 38, 580-81.
    4 [2.] il nostro) del nostro ND1 VR ND3 BR1 NS7: lo sbaglio è evidente pel controsenso che ne risulta; seguiamo la lezione più corretta «il» che si trova in BR2.
    5 [2.] Pare che s. Alfonso riferisca a senso il pensiero del Ferreri che sovente parla del fuoco infernale «intolerabilis» ed «inextinguibilis»: vedi VINCENTIUS FERRERI, Sermones hiemales, Venetiis 1573, 377; Sermones aestivales, Venetiis 1573, 195, 230, 472, 478; Sermones de Sanctis, Coloniae Agrippinae 1675, 560-61, ecc. Nei Sermoni compendiati, serm. X, n. 5; Napoli 1771, 40 s. Alfonso attribuisce la stessa idea a s. Anselmo.
    6 [4.] GISOLFO P., op. cit., disc. 17, 501: «Altro è il fuoco, che serve ad uso, e alle comodità degli uomini, dice Tertulliano, e altro è il fuoco, che serve alla divina giustizia: Longe alius est ignis, qui usui humano, alius qui Dei iustitiae deservit». Cfr. TERTULLIANUS, Apologeticus, c. 48; PL I, 527-528: «Noverunt philosophi diversitatem arcani et publici ignis. Ita longe alius est qui usui humano, alius qui iudicio Dei apparet… Et hoc erit testimonium ignis aeterni, hoc exemplum iusti iudicii poenam nutrientis. Montes uruntur et durant: quid nocentes et Dei hostes?» Cfr. CC I, 168.
    7 [8.] Is., 4, 4: «Si abluerit Dominus sordes filiarum Sion, et sanguinem Ierusalem laverit de medio eius, in spiritu iudicii et spiritu ardoris.»
    8 [12.] da sotto) di sotto VR BR1 BR2.
    9 [22.] un braciere.
    10 [4.] S. PETRUS DAMIANUS, De caelibatu sacerdotum, c. III; PL 145, 385: «Veniet profecto dies, imo nox, quando libido ista tua vertatur in picem, qua se perpetuus ignis in tuis visceribus inextinguibiliter nutriat, et medullas tuas simul et ossa indefectiva conflagratione depascat».
    11 [4.] Segui.
    12 [9.] MANSI, Bibliotheca mor. praedic., tr. 34, disc. 7; II, Venetiis 1703, 614 col. 2: «Siquidem in uno igne omnia supplicia sentiunt in inferno peccatores, ut inquit Hieronymus (Ep. I ad Pammach.)». Tra altri anche SEGNERI P., Cristiano Istruito, p. II, ragion. XVIII; Opere, III, Venezia 1742, 165, col. I, attribuisce con la stessa citazione a s. Girolamo il testo, che però manca nelle lettere genuine.
    13 [16.] GISOLFO P., op. cit., disc. XV; I, 437: «Onde S. Giovan Crisostomo: Pone, si libet, ignem, ferrum et bestias, et si quid his difficilius: attamen nec umbra sunt haec ad inferni tormenta». Cfr. CHRYS., In epist. ad Rom., hom. 31, n. 5; PG 60, 674: «Quid enim mihi grave dicere possis? Paupertatem, morbum, captivitatem, mutilationem corporis. Verum illa omnia risu sunt digna si cum supplicio illo [inferni] comparentur».

    PUNTO III

    Ma tutte queste pene son niente a rispetto della pena del danno. Non fanno l'inferno le tenebre, la puzza, le grida e 'l fuoco; la pena che fa l'inferno è la pena di aver perduto Dio. Dice S. Brunone:1 «Addantur tormenta tormentis, ac Deo non priventur» (Serm. de Iud. fin.). E S. Gio. Grisostomo:2 «Si mille dixeris gehennas, nihil par dices illius doloris» (Hom. 49. ad Pop.). Ed aggiunge S. Agostino3 che se i dannati godessero la vista di Dio, «nullam poenam sentirent, et infernus ipse verteretur in paradisum» (S. Aug. to. 9. de Tripl. hab.). Per intendere qualche cosa di questa pena, si consideri che se taluno perde (per esempio) una gemma, che valea 100 scudi, sente gran pena, ma se valea 200 sente doppia pena: se 400 più pena. In somma quanto cresce il valore della cosa perduta, tanto cresce la pena. Il dannato qual bene ha perduto? un bene infinito, ch'è Dio; onde dice S. Tommaso4 che sente una pena in certo modo infinita: «Poena damnati est infinita, quia est amissio boni infiniti» (D. Th. 1. 2. q. 87. a. 4).
    Questa pena ora solo si teme da' santi. «Haec amantibus, non contemnentibus poena est», dice S. Agostino.5 S. Ignazio di Loiola dicea:6 Signore, ogni pena sopporto, ma questa no, di star privo di Voi. Ma questa pena niente si apprende da' peccatori, che si contentano di vivere i mesi e gli anni senza Dio, perché i miseri vivono fra le tenebre. In morte non però han da conoscere il gran bene che perdono. L'anima in uscire da questa vita, come dice S. Antonino,7 subito intende ch'ella è creata per Dio: «Separata autem anima a corpore intelligit Deum summum bonum et ad illud esse creatam». Onde subito si slancia per andare ad abbracciarsi col suo sommo bene; ma stando in peccato, sarà da Dio discacciata. Se un cane vede la lepre, ed uno lo tiene con una catena, che forza fa il cane per romper la catena ed andare a pigliar la preda? L'anima in separarsi dal corpo, naturalmente è tirata a Dio, ma il peccato la divide da Dio, e la manda lontana all'inferno. «Iniquitates vestrae diviserunt inter vos, et Deum vestrum» (Is. 59. 2). Tutto l'inferno dunque consiste in quella prima parola della condanna: «Discedite a me, maledicti». Andate, dirà Gesu-Cristo, non voglio che vediate più la mia faccia. «Si mille quis ponat gehennas, nihil tale dicturus est, quale est exosum esse Christo» (Chrysost. hom. 24. in Matth.).8 Allorché Davide9 condannò Assalonne a non comparirgli più davanti, fu tale questa pena ad Assalonne che rispose: Dite a mio padre, che o mi permetta di vedere la sua faccia o mi dia la morte (2. Reg. 14. 24).10 Filippo II11 ad un grande che vide stare irriverente in chiesa, gli disse: Non mi comparite più davanti. Fu tanta la pena di quel grande, che giunto alla casa se ne morì di dolore. Che sarà, quando Dio in morte intimerà al reprobo: Va via che io non voglio vederti più. «Abscondam faciem ab eo, et invenient eum omnia mala» (Deut. 31. 17). Voi (dirà Gesù a' dannati nel giorno finale) non siete più miei, io non sono più vostro. «Voca nomen eius, non populus meus, quia vos non populus meus, et ego non ero vester» (Osea 1. 9). Che pena è ad un figlio, a cui gli muore il padre, o ad una moglie quando le muore lo sposo, il dire: Padre mio, sposo mio, non t'ho da vedere più. Ah se ora udissimo un'anima dannata che piange, e le chiedessimo: Anima, perché piangi tanto? Questo solo ella risponderebbe: Piango, perché ho perduto Dio, e non l'ho da vedere più. Almeno potesse la misera nell'inferno amare il suo Dio, e rassegnarsi alla sua volontà. Ma no; se potesse ciò fare, l'inferno non sarebbe inferno; l'infelice non può rassegnarsi alla volontà di Dio, perché è fatta nemica della divina volontà. Né può amare più il suo Dio, ma l'odia e l'odierà per sempre; e questo sarà il suo inferno, il conoscere che Dio è un bene sommo e il vedersi poi costretto ad odiarlo, nello stesso tempo che lo conosce degno d'infinito amore. «Ego sum ille nequam privatus amore Dei», così rispose quel demonio, interrogato chi fosse da S. Caterina da Genova.12 Il dannato odierà e maledirà Dio, e maledicendo Dio, maledirà anche i beneficii che gli ha fatti, la creazione, la redenzione, i sagramenti, specialmente del battesimo e della penitenza, e sopra tutto il SS. Sagramento dell'altare. Odierà tutti gli angeli e santi ma specialmente l'angelo suo custode e i santi suoi avvocati, e più di tutti la divina Madre; ma principalmente maledirà le tre divine Persone, e fra queste singolarmente il Figlio di Dio, che un giorno è morto per la di lei salute, maledicendo le sue piaghe, il suo sangue, le sue pene e la sua morte.

    Affetti e preghiere.

    Ah mio Dio, Voi dunque siete il mio sommo bene, bene infinito, ed io volontariamente tante volte v'ho perduto. Sapeva io già che col mio peccato vi da un gran disgusto, e che perdeva la vostra grazia, e l'ho fatto? Ah che se non vi vedessi trafitto in croce, o Figlio di Dio, morire per me, non avrei più animo di cercarvi13 e di sperare da Voi perdono. Eterno Padre, non guardate me, guardate questo amato Figlio, che vi cerca14 per me pietà; esauditelo, e perdonatemi. A quest'ora dovrei star nell'inferno da tanti anni senza speranza di potervi più amare, e di ricuperare la vostra grazia perduta. Dio mio, mi pento sopra ogni male di quest'ingiuria che v'ho fatta, di rinunziare alla vostr'amicizia e di disprezzare il vostro amore per li gusti miserabili di questa terra. Oh fossi morto prima mille volte! Come ho potuto essere così cieco e così pazzo! Vi ringrazio, Signor mio, che mi date tempo di poter rimediare al mal fatto. Giacché per misericordia vostra sto fuori dell'inferno, e vi posso amare, Dio mio, vi voglio amare. Non voglio più differire di convertirmi tutto a Voi. V'amo bontà infinita, v'amo15 mia vita, mio tesoro, mio amore, mio tutto. Ricordatemi sempre, o Signore, l'amore che mi avete portato, e l'inferno dove dovrei stare; acciocché questo pensiero mi accenda sempre a farvi atti d'amore e a dirvi sempre: io v'amo, io v'amo, io v'amo.
    O Maria Regina, speranza e Madre mia, se stessi nell'inferno, neppure potrei amar più Voi. V'amo Madre mia, e a Voi confido di non lasciare più d'amar Voi e 'l mio Dio. Aiutatemi, pregate Gesù per me.
    1 [31.] MANSI, op. cit., tr. 34, disc. 22; II, 646, col. 2: «Sanctus tamen Bruno in sermone de Iudicio finali, longe clarioribus verbis hanc ipsam confirmat veritatem, dicens: Addantur
    tormenta tormentis, et poenae poenis; saeviant saevius ministri; at Deo non privemur».
    2 [2.] DREXELIUS, Infernus damnatorum, c. II, parag. 2; Opera, I, Lugduni 1658, 148, col. 2: «Hic attonitus Chrysostomus: Nam si mille, ait, dixeris gehennas, nihil illius par dices doloris, quem sustinet anima. Intolerabilis gehenna est, confiteor, et multum intolerabilis, tamen intolerabilior haec regni amissio». Cfr. CHRYSOST., In ep. ad Philipp., c. IV, hom. 14, n. 4; PG 62, 280: «Si sexcentas gehennas attuleris, nihil par afferes dolori illi, quo tunc angitur anima, cum universus quatitur orbis... Intolerabilis res est gehenna, fateor, et valde quidem intolerabilis; attamen intolerabilius mihi videtur de regno cecidisse».
    3 [3.] Ps. AUGUSTINUS, De triplici habitaculo, l. unus, c. 4; PL 40, 995: «Cuius faciem si omnes carcere inferni inclusi viderent, nullam poenam, nullum dolorem nullamque tristitiam sentirent; cuius praesentia, si in inferno cum sanctis habitatoribus appareret, continuo infernus in amoenum converteretur paradisum». È in Appendice delle opere di s. Agostino, ma non è autentico (cfr. Glorieux, 28).
    4 [10.] S. THOMAS, Summa theol., I-II, q. 87, a. 4, c.: «Ex parte igitur aversionis, respondet peccato poena damni, quae etiam est infinita: est einm amissio infiniti boni, scilicet Dei».
    5 [14.] S. AUGUST., Enarrat. in Ps. XLIX, n. 7; PL 36, 569: «Si non veniret ignis die iudicii, et sola peccatoribus immineret separatio a facie Dei, in qualibet essent affluentia deliciarum, non videntes a quo creati sunt, et separati ab illa dulcedine ineffabili vultus eius, in qualibet aeternitate et impunitate peccati, plangere se deberent. Sed quid loquor, aut quibus loquor? Haec amantibus poena est, non contemnentibus». Cfr. CC 38, 580.
    6 [14.] ORLANDINI, Historia Societatis Iesu, l. X, nn. 55-62; Romae 1615, 318.
    7 [2.] S. ANTONINUS, Summa theol., p. I, tit. V, c. 3, parag. 3; Veronae 1740, col. 402: «Quum anima separatur a corpore, sibi subito infunduntur species omnium rerum naturalium… Et sic cognoscens quod Deus est summum bonum et summe utilis animae, videns se eo privatum sua miseria, quum capax fuerit adquirendi, summe dolet».
    8 [15.] CHRYSOST., In Matthaeum, hom. 23 (al. 24), n. 8; PG 57, 317: «Intolerabilis quippe est illa gehenna illaque poena. Attamen licet mille quis gehennas proposuerit, nihil tale dicturus est, quale est ex beata illa excidere gloria, Christo exosum esse, audire ab illo: Non novi vos».
    9 [15.] Davide) Davidde VR BR1 BR2.
    10 [18.] II Reg., 14, 32.
    11 [18.] SINISCALCHI L., La scienza della salute, med. V, punto 2; Padova 1773, 136: «Due cavalieri in Ispagna tosto che udirono dal re Filippo II in pena della poca compostezza, con cui stavano in chiesa: Non mi comparite più innanzi, tornati a casa ne morirono per la doglia».
    12 [14.] PEPE F., Discorsi in lode di Maria SS. per tutti i sabbati dell'anno, II, Napoli 1756, 228: «Dimandato un demonio dalla B. Catarina da Genova chi egli si fusse. Dopo un profondo sospiro, rispose: Sono un infelice spirito senza amor di Dio». Alquanto diversamente racconta il fatto ROSIGNOLI C. G., Verità eterne, Bologna 1689, 325: «Imperocché, scongiurandosi un demonio dell'inferno nel corpo di un'energumena, e costretto dal sacerdote cogli esorcismi, a manifestare il suo nome disse con voce lacrimevole: Ego sum ille nequam privatus amore Dei. Io son lo scelerato privo dell'amor di Dio. Alle quali parole la B. Caterina di Genova ivi presente tanto s'inorridì, che come percossa da un fulmine esclamò: Oh orribile miseria, esser privo dell'amor di Dio! Oh inferno degl'inferni, esser privo dell'amor di Dio». Cfr. MARABOTTO, Vita ammirabile e dottrina celeste di S. Caterina Fiesca Adorna, c. XIV, n. 12; Padova 1743, 59-60.
    13 [3.] cercarvi) chiedervi VR BR1 BR2.
    14 [5.] cerca) chiede VR BR1 BR2.
    15 [15.] v'amo) vi amo BR2.

    CONSIDERAZIONE XXVII –
    DELL'ETERNITÀ DELL'INFERNO

    «Et ibunt hi in supplicium aeternum» (Matth. 25. 46).

    PUNTO I

    Se l'inferno non fosse eterno, non sarebbe inferno. Quella pena che non dura molto, non è gran pena. A quell'infermo si taglia una postema, a quell'altro si foca una cancrena; il dolore è grande, ma perché finisce tra poco, non è gran tormento. Ma qual pena sarebbe, se quel taglio o quell'operazione di fuoco continuasse per una settimana, per un mese intero?1 Quando la pena è assai lunga, ancorché sia leggiera, come un dolore d'occhi, un dolore di mole, si rende insopportabile. Ma che dico dolore? anche una commedia, una musica che durasse troppo, o fosse per tutto un giorno, non potrebbe soffrirsi per lo tedio. E se durasse un mese? un anno? Che sarà l'inferno? dove non si ascolta sempre la stessa commedia, o la stessa musica: non vi è solo un dolore d'occhi, o di mole: non si sente solamente il tormento d'un taglio, o di un ferro rovente, ma vi sono tutti i tormenti, tutti i dolori; e per quanto tempo? per tutta l'eternità: «Cruciabuntur die ac nocte in saecula saeculorum» (Apoc. 20. 10).
    Quest'eternità è di fede; non è già qualche opinione, ma è verità attestataci da Dio in tante Scritture: «Discedite a me, maledicti, in ignem aeternum» (Matth. 25. 41). «Et hi ibunt in supplicium aeternum» (Ibid. num. 46). «Poenas dabunt in interitu aeternas» (2. Thess. 1. 9). «Omnis igne salietur» (Marc. 9. 48). Siccome il sale conserva le cose, così il fuoco dell'inferno nello stesso tempo che tormenta i dannati, fa l'officio di sale conservando loro la vita. «Ignis ibi consumit (dice S. Bernardo),2 ut semper reservet» (Medit. cap. 3).
    Or qual pazzia sarebbe quella di taluno, che per pigliarsi una giornata di spasso, si volesse condannare a star chiuso in una fossa per venti, o trenta anni? Se l'inferno durasse cent'anni; che dico cento? durasse non più che due o tre anni, pure sarebbe una gran pazzia, per un momento di vil piacere, condannarsi a due o tre anni di fuoco. Ma non si tratta di trenta, di cento, né di mille, né di cento mila anni; si tratta d'eternità, si tratta di patire per sempre gli stessi tormenti, che non avranno mai da finire, né da alleggerirsi un punto. Hanno avuto ragione dunque i santi, mentre stavano in vita, ed anche in pericolo di dannarsi, di piangere e tremare. Il B. Isaia3 anche mentre stava nel deserto tra digiuni e penitenze, piangeva dicendo: Ah misero me, che ancora non sono libero dal dannarmi! «Heu me miserum, quia nondum a gehennae igne sum liber!»




    Affetti e preghiere.

    Ah mio Dio, se mi aveste mandato all'inferno, come già più volte l'ho meritato, e poi me ne aveste cacciato per vostra misericordia, quanto ve ne sarei restato obbligato? ed indi qual vita santa avrei cominciato a fare? Ed ora che con maggior misericordia Voi mi avete preservato dal cadervi, che farò Tornerò ad offendervi e provocarvi a sdegno, affinché proprio mi mandiate ad ardere in quella carcere de' vostri ribelli, dove tanti già ardono per meno peccati de' miei? Ah mio Redentore, così ho fatto per lo passato; in vece di servirmi del tempo che mi davate per piangere i miei peccati, l'ho speso a più sdegnarvi. Ringrazio la vostra bontà infinita, che tanto mi ha sopportato. S'ella non era infinita, e come mai avrebbe potuto soffrirmi? Vi ringrazio dunque di avermi con tanta pazienza aspettato sinora; e vi ringrazio sommamente della luce che ora mi date, colla quale mi fate conoscere la mia pazzia e il torto che vi ho fatto in oltraggiarvi con tanti miei peccati. Gesù mio, li detesto e me ne pento con tutto il cuore; perdonatemi per la vostra passione; ed assistetemi colla vostra grazia, acciocché più non vi offenda. Giustamente or debbo temere che ad un altro peccato mortale Voi mi abbandoniate. Ah Signor mio, vi prego, mettetemi avanti gli occhi questo giusto timore, allorché il demonio mi tenterà di nuovo ad offendervi. Dio mio, io vi amo, né vi voglio più perdere; aiutatemi colla vostra grazia.
    Aiutatemi, o Vergine SS., fate ch'io sempre ricorra a Voi nelle mie tentazioni, acciocché non perda più Dio. Maria, Maria4 Voi siete la speranza mia.
    1 [10.] intero) intiero ND1 VR BR1 BR2.
    2 [27.] PS. BERNARDUS, Medit. piissimae de cognitione humanae conditionis, c. III, n. 10; PL 184, 491: «Sic enim ignis consumit, ut semper reservet; sic tormenta aguntur, ut semper renoventur» (cfr. Glorieux, 71).
    3 [8.] SPANNER A., Polyanthea sacra, I, Venetiis 1709: «Me miserum! me miserum! quia nondum a gehennae igne sum liber: nondum mihi constat, quoniam hinc sim profecturus». Cfr. S. ISAIAS Ab., Orationes, or. XIV, n. I; PG 40, 1139: «Me miserum, me miserum, quia nondum a gehennae igne sum liber. Qui ad illam homines detrahunt, adhuc in me operantur: et omnia opera eius moventur in corde meo». Alcuni scrivono anche: Esaias.
    4 [5.] Maria, om. una volta in BR1 BR2.

    PUNTO II

    Chi entra una volta nell'inferno, di là non uscirà più in eterno. Questo pensiero facea tremare Davide,1 dicendo: «Neque absorbeat me profundum, neque urgeat super me puteus os suum» (Ps. 68. 16). Caduto ch'è il dannato in quel pozzo di tormenti, si chiude la bocca e non si apre più. Nell'inferno v'è porta per entrare, ma non v'è porta per uscire: «Descensus erit (dice Eusebio Emisseno),2 ascensus non erit». E così spiega le parole del Salmista: «Neque urgeat os suum; quia cum susceperit eos, claudetur sursum, et aperietur deorsum». Fintanto che il peccatore vive, sempre può avere speranza di rimedio, ma colto ch'egli sarà dalla morte in peccato, sarà finita per lui ogni speranza. «Mortuo homine impio, nulla erit ultra spes» (Prov. 11. 7). Almeno potessero i dannati lusingarsi con qualche falsa speranza, e così trovare qualche sollievo alla loro disperazione. Quel povero impiagato, confinato in un letto, è stato già disperato da' medici di poter guarire; ma pure si lusinga, e si consola con dire: Chi sa se appresso si troverà qualche medico e qualche rimedio che mi sani. Quel misero condannato alla galea in3 vita anche si consola, dicendo: Chi sa che può succedere, e mi libero da queste catene. Almeno (dico) potesse il dannato dire similmente così, chi sa se un giorno uscirò da questa prigione; e così potesse ingannarsi almeno con questa falsa speranza. No, nell'inferno non v'è alcuna speranza né vera né falsa, non vi è «chi sa». «Statuam contra faciem» (Ps. 49. 21). Il misero si vedrà sempre innanzi agli occhi scritta la sua condanna, di dover sempre stare a piangere in quella fossa di pene: «Alii in vitam aeternam, et alii in opprobrium, ut videant semper» (Dan. 12. 2). Onde il dannato non solo patisce quel che patisce in ogni momento, ma soffre in ogni momento la pena dell'eternità, dicendo: Quel che ora patisco, io l'ho da patire per sempre. «Pondus aeternitatis sustinet», dice Tertulliano.4
    Preghiamo dunque il Signore, come pregava S. Agostino «Hic ure, hic seca, hic non parcas, ut in aeternum parcas». I castighi di questa vita passano. «Sagittae tuae transeunt, vox tonitrui tui in rota» (Ps. 76. 18). Ma i castighi dell'altra vita non passano mai. Di questi temiamo; temiamo di quel tuono («vox tonitrui tui in rota»), s'intende di quel tuono della condanna eterna, che uscirà dalla bocca del giudice nel giudizio contro i reprobi: «Discedite a me, maledicti, in ignem aeternum».6 E dice, «in rota»; la ruota è figura dell'eternità, a cui non si trova termine. «Eduxi gladium meum de vagina sua irrevocabilem» (Ez. 21. 5). Sarà grande il castigo dell'inferno, ma ciò che più dee atterrirci, è che sarà castigo irrevocabile.
    Ma come, dirà un miscredente, che giustizia è questa? castigare un peccato che dura un momento con una pena eterna? Ma come (io rispondo) può aver l'ardire un peccatore per un gusto d'un momento offendere un Dio d'infinita maestà? Anche nel giudizio umano (dice S. Tommaso, I. 2. q. 87. a. 3)7 la pena non si misura secondo la durazione del tempo, ma secondo la qualità del delitto: «Non quia homicidium in momento committitur, momentanea poena punitur». Ad un peccato mortale un inferno è poco: all'offesa d'una maestà infinita si dovrebbe un castigo infinito, dice S. Bernardino da Siena:8 «In omni peccato mortali infinita Deo contumelia irrogatur; infinitae autem iniuriae infinita debetur poena». Ma perché, dice l'Angelico9 la creatura non è capace di pena infinita nell'intensione, giustamente fa Dio che la sua pena sia infinita nella estensione.
    Oltreché questa pena dee esser necessariamente eterna, prima perché il dannato non può più soddisfare per la sua colpa. In questa vita intanto può soddisfare il peccator penitente, in quanto gli sono applicati i meriti di Gesu-Cristo; ma da questi meriti è escluso il dannato; onde non potendo egli placare più Dio, ed essendo eterno il suo peccato, eterna dee essere ancora la sua pena. «Non dabit Deo placationem suam, laborabit in aeternum» (Ps. 48. 8). Quindi dice il Belluacense (lib. 2. p. 3):10 «Culpa semper poterit ibi puniri, et nunquam poterit expiari»; poiché al dire di S. Antonino11 «ibi peccator poenitere non potest»;12 e perciò il Signore starà sempre con esso sdegnato. «Populus cui iratus est Dominus usque in aeternum» (Malach. 1. 4). Di più il dannato, benché Dio volesse perdonarlo, non vuol esser perdonato, perché la sua volontà è ostinata e confermata nell'odio contro Dio. Dice Innocenzo III:13 «Non humiliabuntur reprobi, sed malignitas odii in illis excrescet» (Lib. 3. de Cont. mundi c. 10). E S. Girolamo:14 «Insatiabiles sunt in desiderio peccandi» (In Proverb. 27). Ond'è che la piaga del dannato è disperata, mentre ricusa anche il guarirsi. «Factus est dolor eius perpetuus, et plaga desperabilis renuit curari» (Ier. 15. 18).15

    Affetti e preghiere.

    Dunque, mio Redentore, se a quest'ora io fossi dannato, siccome ho meritato, starei ostinato nell'odio contro di Voi, mio Dio, che siete morto per me? Oh Dio, e qual inferno sarebbe questo, odiare Voi che mi avete tanto amato, e siete una bellezza infinita, una bontà infinita, degna d'infinito amore! Dunque, se ora stessi nell'inferno, starei in uno stato sì infelice, che neppure vorrei il perdono ch'ora Voi m'offerite? Gesù mio, vi ringrazio della pietà che m'avete usata, e giacché ora posso essere perdonato, e posso amarvi, io voglio esser perdonato e voglio amarvi. Voi m'offerite il perdono, ed io ve lo domando, e lo spero per li meriti vostri. Io mi pento di tutte l'offese che v'ho fatte, o bontà infinita, e Voi perdonatemi. Io v'amo con tutta l'anima mia. Ah Signore, e che male Voi mi avete fatto, che avessi ad odiarvi come mio nemico per sempre? E quale amico ho avuto io mai, che ha fatto e patito per me, quel che avete fatto e patito Voi, o Gesù mio? Deh non permettete ch'io cada più in disgrazia vostra, e perda il vostro amore; fatemi prima morire, ch'abbia a succedermi questa somma ruina.
    O Maria, chiudetemi sotto il vostro manto, e non permettete ch'io n'esca più a ribellarmi contro Dio e contro Voi.
    1 [9.] Davide) Davidde VR BR1 BR2.
    2 [14.] EUSEBIUS EMISSENUS, Homil. de Epiphania, hom. 3; Opera, Parisiis 1575, f. 247: «Ardens inferni puteus aperietur, descensus erit, reditus non erit… Ideo autem dixit: Neque urgeat puteus super me os suum: quia cum susceperit reos claudetur sursum, et aperietur deorsum, dilatabitur in profundum, nullum spiramen, nullus liber anhelitus, claustris desuper urgentibus, relinquetur». Cfr. Maxima Bibl. Patrum, VI, Lugduni 1677, 655. Circa l'attribuzione di queste Omilie ad Eusebio Emisseno o ad Eusebio Gallicano, vedi PG 86, 287-291, 461-464.
    3 [24.] Meglio: a vita.
    4 [8.] NEPVEU F., Riflessioni cristiane, I, Venezia 1721, 26: «I dannati in ogni momento, dice Tertulliano, sostengono il peso di tuta l'eternità: Pondus aeternitatis sustinent». HOUDRY V., Bibl. concionatoria, Infernus, parag. VI; II, Venetiis 1764, 345: «Damnati quolibet momento, Tertullianus ait, totius aeternitatis sustinent pondus». Vedi pure [SARNELLI G.], La via facile e sicura del paradiso, I, Napoli 1738, 311. Cfr. TERTULLIANUS, Apologet., c. 48; PL 1, 527: «Tunc restituetur omne humanum genus ad expungendum quod in isto aevo boni seu mali meruit, et exinde pendendum in immensam aeternitatis perpetuitatem». CC I, 167-68.
    5 [10.] DREXELIUS, De aeternitate, cons. V, n. 3; Opera, I, Lugduni 1658, 15: «Hinc tam serio clamat et precatur Augustinus: Domine, hic ure, hic seca, modo in aeternum parcas». La frase è ripetuta da molti autori ascetici, ma in s. Agostino non si trova che l'idea: S. AUGUST., Enarrat. in Ps. XXXIII, sermo II, n. 20; PL 36, 319: «Ideo [Deus] videtur non exaudire, ut sanet et parcat in sempiternum». CC 38, 295. ID., Sermo 70, n. 2; PL 38, 443.
    6 [17.] Matth., 25, 41.
    7 [25.] S. THOMAS, Summa theol., I-II, q. 87, a. 3, ad I: «In nullo iudicio requiritur ut poena adaequetur culpae secundum durationem. Non enim quia adulterium vel homicidium in momento committitur, propter hoc momentanea poena punitur».
    8 [4.] S. BERNARDINUS SEN., Quadragesimale de Evang. aeterno, sermo XII, a. 2, c. 2; Opera, II, Venetiis 1745, 76: «In omni peccato mortali, infinita Deo contumelia irrogatur... Infinitae autem iniuriae vel contumeliae, infinita de iure debetur poena». Op. omnia, III, Ad Claras Aquas 1956, 237.
    9 [6.] S. THOMAS, Supplem. III partis, q. 99, a. I, c.: «Unde, cum non posset esse infinita poena per intensionem, quia creatura non est capax alicuius qualitati infinitae; requiritur quod sit saltem duratione infinita». Cfr. anche S. ANTONINUS, Summa theol., tit. V, c. 3; IV, Veronae 1740, col. 400: «Poena autem infinita non potest esse secundum intensionem, quia sic consumeret naturam; oportet ergo ut sit infinita secundum extensionem, id est, secundum durationem, ut sic poena respondeat culpae».
    10 [16.] V. BELLOVACENSIS, Spec. morale, l. II, p. 3, dist. 3; Venetiis 1591, 147, col. 3: «Quia culpa semper poterit ibi puniri, et numquam poterit expiari, sic nec in corpore poterunt tormenta finiri, nec corpus ipsum tormentis examinari».
    11 [17.] S. Antonino) S. Antonio, G. Antonelli (1833); S. Agostino, Marietti, (1846).
    12 [17.] S. ANTONINUS, op. cit., p. IV, tit. 14, c. 5, parag. II; IV, Veronae 1740, col. 792: «In vita praesenti habent etiam maximi peccatores subsidium multiplex a Deo praecipue per poenitentiam... Sed damnatus non dabit Deo placationem suam, in psal. XLVIII, quia poenitere non potest... In inferno quis confitebitur tibi? quasi diceret, nullus, ita nec contritio nec satisfactio». A proposito di questa citazione vedi Introduzione generale, Restituzione del Testo, 99-100.
    13 [1.] INNOCENTIUS III, De contemptu mundi, l. III, c. 10; PL 217, 741: «Non humiliabuntur reprobi iam desperati de venia, sed malignitas odii tantum in illis excrescet, ut velint illum omnino non esse, per quem sciunt se tam infeliciter esse».
    14 [3.] STRABUS W., Glossa ordinaria in Prov. XXVII, 20; PL 113, 1110 (cfr. Prol. 11, ss.): «Inferni tormenta non replentur, terminum accipiendo. Similiter et intentionem eorum qui terrena sapiunt, insatiabiles sunt in desiderio peccandi. Ideo enim sine fine puniuntur, quia voluntatem habuerunt sine fine peccandi, si naturam haberent sine fine vivendi».
    15 [5.] Ier., 15, 18: «Quare factus est dolor meus perpetuus, et plaga mea desperabilis renuit curari?»
    PUNTO III
    La morte in questa vita è la cosa più temuta da peccatori, ma nell'inferno sarà la più desiderata. «Quaerent mortem, et non invenient; et desiderabunt mori, et mors fugiet ab eis» (Apoc. 9. 6). Onde scrisse S. Girolamo:1 «O mors quam dulcis esses, quibus tam amara fuisti!» (Ap. S. Bon. Soliloq.). Dice Davide2 che la morte si pascerà de' dannati: «Mors depascet eos» (Psal. 48. 15). Spiega S. Bernardo3 che siccome la pecora pascendosi dell'erba, si ciba delle frondi, ma lascia le radici, così la morte si pasce de' dannati, gli uccide ogni momento, ma lascia loro la vita per continuare ad ucciderli colla pena in eterno: «Sicut animalia depascunt herbas, sed remanent radices; sic miseri in inferno corrodentur a morte, sed iterum reservabuntur ad poenas». Sicché dice S. Gregorio4 che il dannato muore ogni momento senza mai morire: «Flammis ultricibus traditus semper morietur» (Lib. Mor. c. 12). Se un uomo muore ucciso dal dolore, ognuno lo compatisce; almeno il dannato avesse chi lo compatisse. No, muore il misero per lo dolore ogni momento, ma non ha, né avrà mai chi lo compatisca. Zenone imperadore,5 chiuso in una fossa, gridava: Apritemi per pietà. Non fu da niuno inteso, onde fu ritrovato morto da disperato, poiché si avea mangiate le stesse carni delle sue braccia. Gridano i presciti dalla fossa dell'inferno, dice S. Cirillo Alessandrino,6 ma niuno viene a cacciarneli, e niuno ne ha compassione: «Lamentantur, et nullus eripit; plangunt et nemo compatitur».
    E questa loro miseria per quanto tempo durerà? per sempre, per sempre. Narrasi negli Esercizi spirituali del P. Segneri Iuniore (scritti dal Muratori)7 che in Roma essendo dimandato il demonio, che stava nel corpo d'un ossesso, per quanto tempo doveva star nell'inferno; rispose con rabbia, sbattendo la mano su d'una sedia: «Sempre, sempre». Fu tanto lo spavento, che molti giovani del Seminario Romano, che ivi si trovavano, si fecero una confessione generale, e mutarono vita a questa gran predica di due parole: «Sempre, sempre». Povero Giuda! son passati già mille e settecento anni che sta nell'inferno, e l'inferno suo ancora è da capo. Povero Caino! egli sta nel fuoco da cinque mila e 700 anni, e l'inferno suo è da capo. Fu interrogato un altro demonio,8 da quanto tempo era andato all'inferno, e rispose: «Ieri». Come ieri, gli fu detto, se tu sei dannato da cinque mila e più anni? Rispose di nuovo: Oh se sapessivo9 9a che viene a dire eternità, bene intendereste che cinque mila anni non sono a paragone neppure un momento. Se un angelo dicesse ad un dannato: Uscirai dall'inferno, ma quando son passati tanti secoli, quante sono le goccie dell'acqua, le frondi degli alberi e le arene del mare, il dannato farebbe più festa, che un mendico in aver la nuova10 d'esser fatto re. Sì, perché passeranno tutti questi secoli, si moltiplicheranno infinite volte, e l'inferno sempre sarà da capo. Ogni dannato farebbe questo patto con Dio: Signore, accrescete la pena mia quanto volete; fatela durare quanto vi piace; metteteci termine, e son contento. Ma no, che questo termine non vi sarà mai. La tromba della divina giustizia non altro suonerà nell'inferno che «sempre, sempre, mai, mai».
    Dimanderanno i dannati ai demoni: A che sta la notte? «Custos, quid de nocte?» (Is. 21. 11). Quando finisce? quando finiscono queste tenebre, queste grida, questa puzza, queste fiamme, questi tormenti? E loro è risposto: «Mai, mai». E quanto dureranno? «Sempre, sempre». Ah Signore, date luce a tanti ciechi, che pregati a non dannarsi, rispondono: All'ultimo, se vado all'inferno, pazienza. Oh Dio, essi non hanno pazienza di sentire un poco di freddo, di stare in una stanza troppo calda, di soffrire una percossa; e poi avranno pazienza di stare in un mar di fuoco, calpestati da' diavoli e abbandonati da Dio e da tutti per tutta l'eternità!

    Affetti e preghiere.

    Ah Padre delle misericordie, Voi non abbandonate chi vi cerca. «Non dereliquisti quaerentes te, Domine» (Psal. 9. 11). Io per lo passato vi ho voltate tante volte le spalle, e Voi non mi avete abbandonato: non mi abbandonate ora che vi cerco. Mi pento, o sommo bene, di aver fatto tanto poco conto della vostra grazia, che l'ho cambiata per niente. Guardate le piaghe del vostro Figlio, udite le sue voci, che vi pregano a perdonarmi, e perdonatemi. E Voi, mio Redentore, ricordatemi sempre le pene che avete patito per me,11 l'amore, che mi avete portato, e l'ingratitudine mia, per cui tante volte mi ho meritato l'inferno: acciocché io pianga sempre il torto che vi ho fatto, e viva sempre ardendo del vostro amore. Ah Gesù mio, come non arderò del vostro amore, pensando che da tanti anni dovrei ardere nell'inferno, e seguire ad ardere per tutta l'eternità, e che Voi siete morto per liberarmene, e con tanta pietà me ne avete liberato? Se fossi nell'inferno, ora vi odierei, e vi avrei da odiare per sempre; ma ora v'amo, e voglio amarvi per sempre. Così spero al12 sangue vostro. Voi mi amate, ed io ancora v'amo. Voi mi amerete sempre, se io13 non vi lascio. Ah mio Salvatore, salvatemi da questa disgrazia ch'io abbia a lasciarvi, e poi fatene di me quel che volete. Io merito ogni castigo, ed io l'accetto, acciocché mi liberiate dal castigo d'esser privo del vostro amore.
    O Maria rifugio mio, quante volte io stesso mi son condannato all'inferno, e Voi me ne avete liberato? Deh liberatemi ora dal peccato, che solo può privarmi della grazia di Dio e portarmi all'inferno.
    1 [5.] S. BONAVENTURA, Soliloquium, c. III; Opera, VII, Lugduni 1668, 118: «Ad districti ergo iudicis iustitiam pertinet, ut numquam careant supplicio, quorum mens in hac vita numquam voluit carere peccato. Hieronymus: O mors, quam dulcis esses quibus tam amara fuisti! Te solummodo desiderant, qui te vehementer odiebant». Nell'edizione critica del Soliloquium è stata soppressa l'attribuzione del testo a s. Girolamo: cfr. S. BONAVENTURA, Soliloquium, c. III, parag. 3; Opera, VIII, Ad Claras Aquas 1898, 54.
    2 [6.] Davide) Davidde VR BR1 BR2.
    3 [7.] S. BERNARDINUS SEN., Quadrag. de Evang. aeterno, sermo XI, art. III, c. 3, parag. 3; Opera, II, Venetiis 1745, 73: «Sicut enim animalia depascunt herbas, quia penitus non eradicant eas, sed remanent radices, unde iterum crescit herba: sic miseri in inferno corrodentur a morte, sed afflicti iterum reservabuntur ad poenas». Op. omnia, III, Ad Claras Aquas 1956, 227.
    4 [13.] S. GREGORIUS M., Moralia in Iob, l. XV, c. 17, n. 21; PL 75, 1092: «Damnati semper moriuntur numquam morte consumendi. Persolvit enim in tormento ea quae hic illicite servavit desideria; et, flammis ultricibus traditus, semper moritur, quia semper in morte servatur».
    5 [18.] BARONIUS C., Annales Ecclesiastici, an. 491, n. 1; VIII, Lucae 1741, 532: «Satellites porro, qui ad sepulcrum, in quo repositus fuit, custodiendum erant collocati, retulerunt se per duas noctes lamentabilem vocem audivisse ex sepulcro elatam: Miseremini et aperite mihi… Sed cum non aperirent, ferunt... inventum Zenonem, qui prae fame suos ipse lacertos mandiderat, et caligas quas portabat».
    6 [3.] S. CYRILLUS ALEX., Homilia 14, De exitu animi et de secundo adventu; PG 77, 1075, 1078: «Illic vae, vae perpetuo, illic eheu, illic vociferantur, nec est qui succurrat; clamant, nec ullus est qui liberet... Gemunt continenter et sine intermissione, sed nullus est qui misereatur… lamentantur, sed nullus est qui liberet. Exclamant, et plangunt, sed nullus est qui commoveatur».
    7 [8.] MURATORI L. A., Esercizi spirituali esposti secondo il metodo del P. Paolo Segneri iuniore, med. sopra l'inferno; Venezia 1739, 222: «Scongiurando in Roma un valente esorcista una persona indemoniata, e venendogli in pensiero, che quello spirito desse qualche buon avvertimento a gli astanti, l'interrogò dove stesse allora. Rispose: Nell'inferno. E per quanto tempo, replicò il religioso, hai tu da starvi? Ripugnò un pezzo il maligno: ma vinto dal comando proruppe in fine con voce miserabilissima in queste parole: Per sempre, per sempre, sbuffando, e battendo ogni volta le mani in terra con incredibil furia… Era ivi presente per curiosità gran numero di cavalieri, e d'altra gente; e tale spavento s'impresse in tutti, che tutti perderono la parola. Basta dire che molti andarono tosto a fare una confessione generale, ed alcuni migliorarono notabilmente la vita loro, mossi da quella gran predica fatta lor dal demonio in una sola parola: Per sempre».
    8 [17.] PEPE F., op. cit., I, Napoli 1756, 305: «Dimandato un demonio da quanto tempo era stato scacciato dal cielo. Ieri, rispose. Bugiardo, ripigliò l'esorcista. Se sapessi, che cosa è eternità, ripigliò il demonio, tutt'il tempo dalla creazione del mondo fino a questo punto lo riputeresti un'ora».
    9 [19.] sapessivo) sapeste VR BR1 BR2.
    9a [19.] Dialettismo: sapeste.
    10 [4.] nuova) nova NS7.
    11 [29.] sempre le pene che avete patito per me, rigo om. NS7.
    12 [3.] spero al) spero nel VR BR1 BR2.
    13 [4.] se io) s'io VR BR1 BR2.

    CONSIDERAZIONE XXVIII
    RIMORSI DEL DANNATO

    «Vermis eorum non moritur» (Marc. 9. 47).
    PUNTO I

    Per questo verme che non muore, spiega S. Tommaso1 che s'intende il rimorso di coscienza, dal quale eternamente sarà il dannato tormentato nell'inferno. Molti saranno i rimorsi2 con cui la coscienza roderà il cuore de' reprobi, ma tre saranno i rimorsi3 più tormentosi: il pensare al poco per cui si son dannati: al poco che dovean fare per salvarsi: e finalmente al gran bene che han perduto. Il primo rimorso4 dunque che avrà il dannato sarà il pensare per quanto poco s'è perduto. Dopo che Esaù ebbesi cibato di quella minestra di lenticchie, per cui avea5 venduta la sua primogenitura, dice la Scrittura che per lo dolore e rimorso della perdita fatta si pose ad urlare: «Irrugiit clamore magno» (Gen. 27. 34). Oh quali altri urli e ruggiti darà il dannato pensando che per poche soddisfazioni momentanee e avvelenate si ha perduto un regno eterno di contenti, e si ha da vedere eternamente condannato ad una continua morte! Onde piangerà assai più amaramente, che non piangeva Gionata, allorché videsi condannato a morte da Saulle suo padre, per essersi cibato d'un poco di mele.6 «Gustans gustavi paulum mellis, et ecce morior» (1. Reg. 14. 43). Oh Dio, e qual pena apporterà al dannato il vedere allora la causa della sua dannazione? Al presente che cosa a noi sembra la nostra vita passata, se non un sogno, un momento? Or che pareranno a chi sta nell'inferno quelli cinquanta, o sessanta anni di vita, che avrà vivuti in questa terra, quando si troverà7 nel fondo dell'eternità, in cui saranno già passati cento e mille milioni d'anni, e vedrà che la sua eternità allora comincia! Ma che dico cinquanta anni di vita? cinquanta anni tutti forse di gusti? e che forse il peccatore vivendo senza Dio, sempre gode ne' suoi peccati? quando durano i gusti del peccato? durano momenti; e tutto l'altro tempo per chi vive in disgrazia di Dio, è tempo di pene e8 di rancori. Or che pareranno quelli momenti di piaceri al povero dannato? e specialmente che parerà quell'uno ed ultimo peccato fatto, per lo quale s'è perduto? Dunque (dirà) per un misero gusto brutale ch'è durato un momento, e appena avuto è sparito come vento, io avrò da stare ad ardere in questo fuoco, disperato ed abbandonato da tutti, mentre Dio sarà Dio per tutta l'eternità!

    Affetti e preghiere.

    Signore, illuminatemi a conoscere l'ingiustizia che v'ho usata in offendervi, e 'l castigo eterno che con ciò mi ho meritato. Mio Dio, sento una gran pena di avervi offeso, ma questa pena mi consola; se Voi mi aveste mandato all'inferno, come io ho meritato, questo rimorso sarebbe l'inferno del mio inferno, pensando per quanto poco mi son dannato; ma ora questo rimorso (dico) mi consola, perché mi dà animo a sperare il perdono da Voi, che avete promesso di perdonare chi si pente. Sì, mio Signore, mi pento di avervi oltraggiato, abbraccio questa dolce pena, anzi vi prego ad accrescermela e a conservarmela sino alla morte, acciocché io9 pianga sempre amaramente i disgusti che v'ho dati. Gesù mio, perdonatemi; o mio Redentore, che per avere pietà di me, non avete avuta pietà di Voi, condannandovi a morire10 di dolore, per liberarmi dall'inferno, abbiate pietà di me. Fate dunque che il rimorso di avervi offeso mi tenga continuamente addolorato, e nello stesso tempo m'infiammi tutto d'amore verso di Voi, che tanto mi avete amato, e con tanta pazienza mi avete sofferto, ed ora invece di castighi, mi arricchite di lumi e di grazie; ve ne ringrazio, Gesù mio, e v'amo; v'amo più di me stesso, v'amo con tutt'il cuore. Voi non sapete disprezzare chi v'ama. Io v'amo, non mi discacciate dalla vostra faccia. Ricevetemi dunque nella vostra grazia, e non permettete ch'io v'abbia da perdere più. Maria Madre mia, accettatemi per vostro servo, e stringetemi a Gesù vostro Figlio. Pregatelo che mi perdoni, che mi doni il suo amore e la grazia della perseveranza sino alla morte.
    1 [5.] S. THOMAS, Suppl. III partis, q. 97, a. 2, c.: «Unde vermis qui in damnatis ponitur, non debet intelligi esse materialis, sed spiritualis qui est conscientiae remorsus: qui dicitur vermis, in quantum oritur ex putredine peccati et animam affligit, sicut corporalis vermis ex putredine ortus affligit pungendo».
    2 [7.] rimorsi) morsi VR BR1 BR2.
    3 [8.] rimorsi) morsi VR BR1 BR2.
    4 [10.] rimorso) morso VR BR1 BR2.
    5 [13.] avea) aveva VR BR1 BR2.
    6 [20.] Oggi miele.
    7 [26.] troverà) ritroverà VR BR1 BR2.
    8 [5.] e, om. VR.
    9 [22.] acciocché io) acciocch'io VR BR1.
    10 [25.] morire) morir VR BR1 BR2.

    PUNTO II

    Dice S. Tommaso1 che questa sarà la pena principale de' dannati, il vedere che si son perduti per niente, e che con tanta facilità poteano acquistarsi la gloria del paradiso, se voleano: «Principaliter dolebunt, quod pro nihilo damnati sunt, et facillime vitam poterant consequi sempiternam». Il secondo rimorso2 dunque della coscienza sarà il pensare al poco che dovean fare per salvarsi. Comparve a S. Umberto3 un dannato e gli disse che quest'appunto era la maggiore4 afflizione, che cruciavalo nell'inferno, il pensiero del poco per cui s'era dannato, e del poco che avrebbe avuto a fare per salvarsi. Dirà allora il misero: S'io mi mortificava a non guardare quell'oggetto, se vincea quel rispetto umano, se fuggiva quell'occasione, quel compagno, quella conversazione, non mi sarei dannato. Se mi fossi confessato ogni settimana, se avessi frequentata la Congregazione, se avessi letto ogni giorno quel libretto spirituale, se mi fossi raccomandato a Gesu-Cristo ed a Maria, non sarei ricaduto. Ho proposto tante volte di farlo, ma non l'ho eseguito; o pure l'ho cominciato a fare, e poi l'ho lasciato, e perciò mi son perduto.
    Accresceranno la pena di questo rimorso gli esempi, che avrà avuti degli altri suoi buoni amici e compagni; e più l'accresceranno i doni che Dio gli avea concessi per salvarsi: doni di natura, come buona sanità, beni di fortuna, talenti che 'l Signore gli avea dati affin di bene impiegarli, e farsi santo: doni poi di grazia, tanti lumi, ispirazioni, chiamate, e tanti anni conceduti a rimediare il mal fatto: ma vedrà che in questo stato miserabile, al quale è arrivato, non v'è più tempo da rimediare. Sentirà l'Angelo del Signore che grida e giura: «Et Angelus, quem vidi stantem, iuravit per viventem in saecula saeculorum... quia tempus non erit amplius» (Apoc. 10. 6). Oh che spade crudeli saranno tutte queste grazie ricevute al cuore del povero dannato, allorché vedrà esser finito già il tempo di poter più dar riparo alla sua eterna ruina. Dirà dunque piangendo cogli altri suoi compagni disperati: «Transiit messis, finita est aestas, et nos salvati non sumus» (Ier. 8. 20). Dirà: Oh se le fatiche che ho fatte per dannarmi, l'avessi spese per Dio, mi troverei fatto un gran santo; ed ora che me ne trovo, se non rimorsi e pene, che mi tormenteranno in eterno? Ah che questo pensiero crucierà il dannato più che il fuoco, e tutti gli altri tormenti dell'inferno; il dire: Io poteva essere per sempre felice, ed ora ho da essere per sempre infelice.

    Affetti e preghiere.

    Ah Gesù mio, e come avete potuto tanto sopportarmi? io tante volte v'ho voltate le spalle, e Voi non avete lasciato di venirmi appresso. Io tante volte vi ho offeso, e Voi mi avete perdonato; vi ho tornato ad offendere, e Voi avete ritornato a perdonarmi. Deh fatemi parte di quel dolore, che sentiste nell'orto di Getsemani de' peccati miei, che allora vi fecero sudar sangue. Mi pento, Redentor mio caro, di aver così malamente pagato il vostro Cuore.5 O gusti miei maledetti, vi detesto e maledico, voi mi avete fatta perdere la grazia del mio Signore. Amato mio Gesù, ora io v'amo sopra ogni cosa, rinunzio a tutte le soddisfazioni illecite e propongo prima di morir mille volte, che di offendervi più. Deh per quell'affetto con cui mi amaste sulla croce ed offeriste la vostra vita divina per me, datemi luce e forza di resistere alle tentazioni, e di ricorrere al vostro aiuto, quando sarò tentato.
    O Maria speranza mia, Voi tutto potete appresso Dio, impetratemi la santa perseveranza: ottenetemi ch'io più non mi divida dal suo santo amore.
    1 [5.] Forse trattasi di un testo sunteggiato: vedi S. THOMAS, Compendium Theologiae, c. 175; Opera, XVII, Romae 1570, opusc. II, f. 31, col. 3: «Dolent ergo mali quia peccata commiserunt, non propter hoc, quia peccata eis displiceant, quia etiam tunc mallent peccata illa committere, si facultas daretur, quam Deum habere... Sic igitur et voluntas eorum perpetuo manebit obstinata in malo, et tamen gravissime dolebunt de culpa commissa et de gloria amissa; et hic dolor vocatur remorsus conscientiae, qui metaphorice in Scripturis vermis nominatur, secundum illud Isaiae ultimmo 24: Vermis eorum non morietur». Cfr. Opuscula theol., op. I Compendium Theol., c. 175, n. 348; I, Taurini 1954, 82.
    2 [9.] rimorso) morso VR BR1 BR2.
    3 [10.] ROSIGNOLI C. G., Verità eterne, lez. VI, parag. 2; Bologna 1689, 114: «Ma che accade addur favole, se ne abbiamo la testimonianza addotta da B. Umberto, d'un dannato, che comparito in mesta gramaglia tutto affannato confessò che l'inferno del suo inferno era la rimembranza delle colpe commesse: d'aver perduto un regno eterno per brevissimo diletto: d'aver gittato in vanissime cure quel tempo, con un quarticello del quale avrebbe potuto con una buona confessione ottener la salute».
    4 [11.] maggiore) maggior VR.
    5 [30.] Cuore) amore ND1 VR ND3 BR1 BR2.

    PUNTO II

    Dice S. Tommaso1 che questa sarà la pena principale de' dannati, il vedere che si son perduti per niente, e che con tanta facilità poteano acquistarsi la gloria del paradiso, se voleano: «Principaliter dolebunt, quod pro nihilo damnati sunt, et facillime vitam poterant consequi sempiternam». Il secondo rimorso2 dunque della coscienza sarà il pensare al poco che dovean fare per salvarsi. Comparve a S. Umberto3 un dannato e gli disse che quest'appunto era la maggiore4 afflizione, che cruciavalo nell'inferno, il pensiero del poco per cui s'era dannato, e del poco che avrebbe avuto a fare per salvarsi. Dirà allora il misero: S'io mi mortificava a non guardare quell'oggetto, se vincea quel rispetto umano, se fuggiva quell'occasione, quel compagno, quella conversazione, non mi sarei dannato. Se mi fossi confessato ogni settimana, se avessi frequentata la Congregazione, se avessi letto ogni giorno quel libretto spirituale, se mi fossi raccomandato a Gesu-Cristo ed a Maria, non sarei ricaduto. Ho proposto tante volte di farlo, ma non l'ho eseguito; o pure l'ho cominciato a fare, e poi l'ho lasciato, e perciò mi son perduto.
    Accresceranno la pena di questo rimorso gli esempi, che avrà avuti degli altri suoi buoni amici e compagni; e più l'accresceranno i doni che Dio gli avea concessi per salvarsi: doni di natura, come buona sanità, beni di fortuna, talenti che 'l Signore gli avea dati affin di bene impiegarli, e farsi santo: doni poi di grazia, tanti lumi, ispirazioni, chiamate, e tanti anni conceduti a rimediare il mal fatto: ma vedrà che in questo stato miserabile, al quale è arrivato, non v'è più tempo da rimediare. Sentirà l'Angelo del Signore che grida e giura: «Et Angelus, quem vidi stantem, iuravit per viventem in saecula saeculorum... quia tempus non erit amplius» (Apoc. 10. 6). Oh che spade crudeli saranno tutte queste grazie ricevute al cuore del povero dannato, allorché vedrà esser finito già il tempo di poter più dar riparo alla sua eterna ruina. Dirà dunque piangendo cogli altri suoi compagni disperati: «Transiit messis, finita est aestas, et nos salvati non sumus» (Ier. 8. 20). Dirà: Oh se le fatiche che ho fatte per dannarmi, l'avessi spese per Dio, mi troverei fatto un gran santo; ed ora che me ne trovo, se non rimorsi e pene, che mi tormenteranno in eterno? Ah che questo pensiero crucierà il dannato più che il fuoco, e tutti gli altri tormenti dell'inferno; il dire: Io poteva essere per sempre felice, ed ora ho da essere per sempre infelice.



    Affetti e preghiere.

    Ah Gesù mio, e come avete potuto tanto sopportarmi? io tante volte v'ho voltate le spalle, e Voi non avete lasciato di venirmi appresso. Io tante volte vi ho offeso, e Voi mi avete perdonato; vi ho tornato ad offendere, e Voi avete ritornato a perdonarmi. Deh fatemi parte di quel dolore, che sentiste nell'orto di Getsemani de' peccati miei, che allora vi fecero sudar sangue. Mi pento, Redentor mio caro, di aver così malamente pagato il vostro Cuore.5 O gusti miei maledetti, vi detesto e maledico, voi mi avete fatta perdere la grazia del mio Signore. Amato mio Gesù, ora io v'amo sopra ogni cosa, rinunzio a tutte le soddisfazioni illecite e propongo prima di morir mille volte, che di offendervi più. Deh per quell'affetto con cui mi amaste sulla croce ed offeriste la vostra vita divina per me, datemi luce e forza di resistere alle tentazioni, e di ricorrere al vostro aiuto, quando sarò tentato.
    O Maria speranza mia, Voi tutto potete appresso Dio, impetratemi la santa perseveranza: ottenetemi ch'io più non mi divida dal suo santo amore.
    1 [5.] Forse trattasi di un testo sunteggiato: vedi S. THOMAS, Compendium Theologiae, c. 175; Opera, XVII, Romae 1570, opusc. II, f. 31, col. 3: «Dolent ergo mali quia peccata commiserunt, non propter hoc, quia peccata eis displiceant, quia etiam tunc mallent peccata illa committere, si facultas daretur, quam Deum habere... Sic igitur et voluntas eorum perpetuo manebit obstinata in malo, et tamen gravissime dolebunt de culpa commissa et de gloria amissa; et hic dolor vocatur remorsus conscientiae, qui metaphorice in Scripturis vermis nominatur, secundum illud Isaiae ultimmo 24: Vermis eorum non morietur». Cfr. Opuscula theol., op. I Compendium Theol., c. 175, n. 348; I, Taurini 1954, 82.
    2 [9.] rimorso) morso VR BR1 BR2.
    3 [10.] ROSIGNOLI C. G., Verità eterne, lez. VI, parag. 2; Bologna 1689, 114: «Ma che accade addur favole, se ne abbiamo la testimonianza addotta da B. Umberto, d'un dannato, che comparito in mesta gramaglia tutto affannato confessò che l'inferno del suo inferno era la rimembranza delle colpe commesse: d'aver perduto un regno eterno per brevissimo diletto: d'aver gittato in vanissime cure quel tempo, con un quarticello del quale avrebbe potuto con una buona confessione ottener la salute».
    4 [11.] maggiore) maggior VR.
    5 [30.] Cuore) amore ND1 VR ND3 BR1 BR2.

    SERMONE VIII. - PER LA DOMENICA III. DOPO L'EPIFANIA

    Rimorsi del dannato.

    Filii autem regni eiicientur in tenebras exteriores; ibi erit fletus et stridor dentium. (Matth. 8. 12.)

    Nel corrente evangelio si narra che essendo entrato Gesù Cristo in Cafarnao, venne a ritrovarlo il Centurione, ed a pregarlo che desse la sanità ad un suo servo paralitico che teneva in sua casa. Il Signore gli disse: Ego veniam et curabo eum. No, replicò il Centurione, non son degno io che voi entriate nella mia casa: basta che vogliate sanarlo, e il mio servo sarà sano. Ed il Salvatore vedendo la sua fede, in quel punto lo consolò rendendo la sanità al servo, e rivolto a' suoi discepoli disse loro: Multi ab oriente et occidente venient, et recumbent cum Abraham, Isaac et Iacob in regno coelorum; filii autem regni eiicientur in tenebras exteriores; ibi erit fletus et stridor dentium. E con ciò volle il Signore darci a sapere che molti nati fra gl'infedeli si salveranno coi santi, e molti nati nel grembo della santa chiesa anderanno all'inferno, ove il verme della coscienza coi suoi morsi li farà piangere amaramente per sempre. Vediamo i rimorsi che il cristiano dannato patirà nell'inferno:
    Rimorso I. Del poco che far dovea per salvarsi;
    Rimorso II. Del poco per cui si è dannato;
    Rimorso III. Del gran bene che ha perduto per sua colpa.

    RIMORSO I. Del poco che dovea fare per salvarsi.

    Un giorno apparve un dannato a sant'Uberto, e ciò appunto gli disse che due rimorsi erano i suoi carnefici più crudeli nell'inferno, il pensare al quanto poco gli toccava a fare in questa vita per salvarsi, ed al quanto poco era stato quello per cui si era dannato. Lo stesso scrisse poi s. Tomaso: Principaliter dolebunt quod pro nihilo damnati sunt, et facillime vitam poterant consequi sempiternam. Fermiamoci a considerare il primo rimorso, cioè quanto poche e brevi sono state le soddisfazioni, per le quali ogni dannato si è perduto. Dirà il misero: se io mi astenea da quel diletto, se vincea quel rispetto umano, se fuggiva quell'occasione, quel cattivo compagno, non mi sarei dannato. Se avessi frequentata la congregazione, se mi fossi confessato ogni settimana, se nelle tentazioni mi fossi raccomandato a Dio non sarei ricaduto. Ho proposto tante volte di farlo, ma poi non l'ho fatto: l'ho cominciato a fare, ma poi l'ho lasciato, e così mi son perduto.
    Crescerà il tormento di questo rimorso col ricordarsi il dannato i buoni esempi che avrà avuti d'altri giovani suoi pari, che anche in mezzo al mondo han menata una vita casta e divota. Crescerà poi maggiormente la pena colla memoria di tutti i doni che il Signore gli ha fatti, a fine di cooperarsi ad acquistare la salute eterna, doni di natura, buona sanità, beni di fortuna, buoni natali, buon talento; tutti doni da Dio a lui concessi, non per vivere tra i piaceri di terra o per sopraffare gli altri, ma per impiegarli a bene dell'anima sua e farsi santo: tanti doni poi di grazia, lumi divini, ispirazioni sante, chiamate amorose: di più tanti anni di vita datigli da Dio per rimediare al mal fatto. Ma udirà l'angelo del Signore, che gli fa sapere che per lui è terminato il tempo di salvarsi: Et angelus quem vidi stantem, iuravit per viventem in saecula saeculorum... quia tempus non erit amplius1.Oimè che spade crudeli saranno tutti questi beneficj ricevuti al cuore del povero dannato, quando vedrassi entrato già nella carcere dell'inferno, e vedrà che più non vi è tempo di far riparo alla sua eterna ruina! Dunque, dirà piangendo da disperato insieme cogli altri suoi infelici compagni: Transiit messis, finita est aestas, et nos salvati non sumus2. E passato, dirà, il tempo di raccoglier frutti per la vita eterna, è finita l'estate in cui potevamo salvarci; ma non ci siamo salvati, ed è venuto il verno, ma verno eterno, nel quale abbiamo da vivere infelici e disperati per sempre, finché Dio sarà Dio. Dirà inoltre il misero: oh pazzo che sono stato! Se le pene che ho sofferte per soddisfare i miei capricci, le avessi sofferte per Dio: se le fatiche che ho fatte per dannarmi, le avessi fatte per salvarmi, quanto ora me ne troverei contento! Ed ora che me ne trovo, se non rimorsi e pene che mi tormentano e mi tormenteranno per tutta l'eternità! Dunque, dirà finalmente, io poteva essere per sempre felice, ed ora ho da essere per sempre infelice! Ah che questo pensiero affliggerà il dannato più che il fuoco e tutti gli altri tormenti dell'inferno.

    RIMORSO II. Del poco per cui si è perduto.

    Il re Saule fece ordine, stando nel campo, che niuno sotto pena della vita si cibasse di alcuna cosa. Gionata suo figlio, essendo giovine e trovandosi con fame, si cibò di un poco di mele; onde il padre sapendolo volle che si eseguisse l'ordine dato, e il figlio fosse giustiziato. Il povero figlio, vedendosi già condannato a morte, piangeva dicendo: Gustans gustavi paullulum mellis, et ecce morior1. Ma tutto il popolo essendosi mosso a compassione di Gionata, si interpose col padre e lo liberò dalla morte. Per il povero dannato non vi è né vi sarà mai chi ne abbia compassione, e s'interponga con Dio per liberarlo dalla morte eterna dell'inferno; anzi tutti godranno della sua giusta pena, mentre egli per un breve piacere ha voluto perdere Dio ed il paradiso.Esaù dopo essersi cibato di quella minestra di lenticchie, per la quale avea venduta la sua primogenitura, dice la scrittura, che cruciato dal dolore e dal rimorso della perdita fatta si pose ad urlare: Irrugiit clamore magno2. Oh quali alti ruggiti ed urli darà il dannato pensando che per poche soddisfazioni avvelenate e momentanee ha perduto il regno eterno del paradiso, e ha da vedersi condannato in eterno ad una continua morte!
    Starà il disgraziato nell'inferno continuamente a considerare la causa infelice della sua dannazione. A noi che viviamo su questa terra, la vita passata non sembra che un momento ed un sogno. Oimè al dannato che parranno quei cinquanta o sessanta anni di vita che avrà menati nel mondo, quando si troverà nel fondo dell'eternità, e già saran passati per lui cento e mille milioni d'anni di pena, e vedrà che la sua eternità infelice è da capo e sarà sempre da capo! Ma che, forse quei cinquant'anni saranno stati per lui tutti pieni di piaceri? Forse il peccatore, vivendo in disgrazia di Dio, gode sempre ne' suoi peccati? Quanto durano i gusti del peccato? Durano momenti; e tutt'altro tempo, per chi vive lontano da Dio, è tempo di angustie e di pene. Or che pareranno quei momenti di piacere al povero dannato, quando si troverà già sepolto in quella fossa di fuoco? Quid profuit superbia, aut divitiarum iactantia? Transierunt omnia illa tamquam umbra3. Povero me, dirà egli, io sulla terra son vissuto a mio capriccio, mi ho prese le mie soddisfazioni, ma quelle a che mi han giovato? Elle han durato momenti, e mi han fatta fare una vita inquieta ed amara, ed ora mi tocca di stare ad ardere in questa fornace per sempre disperato ed abbandonato da tutti.

    RIMORSO III. Del gran bene che per sua colpa ha perduto.

    L'infelice principessa Lisabetta regina d'Inghilterra, accecata dalla passione di regnare, disse un giorno: «Mi dia il Signore quarant'anni di regno ed io gli rinunzio il paradiso». Ebbe già la misera questi quarant'anni di regno, ma ora ch'ella sta nell'altro mondo confinata all'inferno, certamente che non si troverà contenta di tal rinunzia fatta. Oh quanto si troverà afflitta, pensando che per quarant'anni di regno terreno, posseduto sempre tra le angustie, traversie e timori, ha perduto il regno eterno del cielo? Plus coelo torquetur, quam gehenna, scrisse s. Pier Grisologo; sono i miseri dannati più tormentati dalla perdita volontariamente da essi fatta del paradiso, che dalle stesse pene dell'inferno.
    La pena somma che fa l'inferno è l'aver perduto Dio, quel sommo bene che fa tutto il paradiso.Scrisse s. Brunone: Addantur tormenta tormentis, et Deo non priventur1. Si contenterebbero i dannati che si accrescessero mille inferni all'inferno che patiscono, e non restassero privi di Dio; ma questo sarà il loro inferno, il vedersi privati di Dio in eterno per loro propria colpa. Dicea s. Teresa che se uno perde per colpa propria anche una bagattella, una moneta, un anello di poco valore, pensando che l'ha perduta per sua trascuraggine molto si affligge e non trova pace: or qual pena sarà quella del dannato, in pensare che ha perduto un bene infinito, qual è Dio, e vedere che l' ha perduto per colpa propria!Vedrà che Iddio lo voleva salvo, ed avea posta in mano di lui l'elezione della vita o della morte eterna, secondo dice l'Ecclesiastico2: Ante hominem vita et mors... quod placuerit ei dabitur illi; sicché vedrà essere stato in mano sua il rendersi, se voleva, eternamente felice; e che egli di sua elezione ha voluto dannarsi. Vedrà nel giorno del giudizio tanti suoi compagni che si sono salvati, ma esso perché non ha voluto finirla, è andato a finirla nell'inferno. Ergo erravimus, dirà rivolto a' suoi compagni infelici dell'inferno, dunque l'abbiamo sbagliata, perdendo per nostra colpa il cielo e Dio; ed al nostro errore non vi è più rimedio. Questa pena gli farà dire: Non est pax ossibus meis a facie peccatorum meorum3. Ella sarà una pena interna intrinsecata nelle ossa, che non gli farà trovar mai riposo in eterno, in vedere che egli stesso è stata la causa della sua ruina; onde non avrà oggetto di maggiore orrore, che se medesimo, provando la pena minacciata dal Signore: Statuam te contra faciem tuam4.Fratello mio, se per lo passato ancora tu sei stato pazzo in voler perdere Dio per un gusto miserabile, non voler seguitare ad esser pazzo; procura di dar presto rimedio, or che puoi rimediare. Trema; chi sa se ora non ti risolvi a mutar vita, Dio ti abbandoni e resti perduto per sempre? Quando il demonio ti tenta ricordati dell'inferno, il pensiero dell'inferno ti libererà dall'inferno: ricordati, dico, dell'inferno, e ricorri a Gesù Cristo, ricorri a Maria ss. per aiuto, ed essi ti libereranno dal peccato che è la porta dell'inferno.

    Note

    1 Apoc. 10. 6.
    2 Ier. 9. 20.
    1 1. Reg. 14. 43.
    2 Gen. 27. 34.
    3 Sap. 5. 8. et 9.
    1 Serm. de iudic. fin.
    2 15. 18.
    3 Ps. 37. 4.
    4 Ps. 9. 11.

    S. Teresa d’Avila Dottore della Chiesa

    CAPITOLO 32

    In cui narra come il Signore l’abbia trasportata in spirito in un luogo dell’inferno che, per i suoi peccati, si era meritata. Di ciò che in esso vide dà solo un’idea, rispetto a quello che fu tale spettacolo. Comincia a raccontare come poté fondare il monastero di San Giuseppe, dove ora si trova.
    1. Passato molto tempo da quando il Signore mi aveva fatto già molte delle grazie suddette e anche altre, assai notevoli, mentre un giorno ero in orazione, mi sembrò di trovarmi ad un tratto tutta sprofondata nell’inferno, senza saper come. Capii che il Signore voleva farmi vedere il luogo che lì i demoni mi avevano preparato e che io avevo meritato per i miei peccati. Tale visione durò un brevissimo spazio di tempo, ma anche se vivessi molti anni, mi sembra che non potrei mai dimenticarla. L’entrata mi pareva come un vicolo assai lungo e stretto, come un forno molto basso, scuro e angusto; il suolo, una melma piena di sudiciume e di un odore pestilenziale in cui si muoveva una quantità di rettili schifosi. Nella parete di fondo vi era una cavità come di un armadietto incassato nel muro, dove mi sentii rinchiudere in un spazio assai ristretto. Ma tutto questo era uno spettacolo persino piacevole in confronto a quello che qui ebbi a soffrire. Ciò che ho detto, comunque, è mal descritto.
    2. Quello che sto per dire, però, mi pare che non si possa neanche tentare di descriverlo né si possa intendere: sentivo nell’anima un fuoco di tale violenza che io non so come poterlo riferire; il corpo era tormentato da così intollerabili dolori che, pur avendone sofferti in questa vita di assai gravi, anzi, a quanto dicono i medici, dei più gravi che in terra si possano soffrire – perché i miei nervi si erano tutti rattrappiti quando rimasi paralizzata, senza dire di molti altri di vario genere che ho avuto, alcuni dei quali, come ho detto, causati dal demonio – tutto è nulla in paragone di quello che ho sofferto lì allora, tanto più al pensiero che sarebbero stati tormenti senza fine e senza tregua. Eppure anche questo non era nulla in confronto al tormento dell’anima: un’oppressione, un’angoscia, una tristezza così profonda, un così accorato e disperato dolore, che non so come esprimerlo. Dire che è come un sentirsi continuamente strappare l’anima è poco, perché morendo, sembra che altri ponga fine alla nostra vita, ma qui è la stessa anima a farsi a pezzi. Non so proprio come descrivere quel fuoco interno e quella disperazione che esasperava così orribili tormenti e così gravi sofferenze. Non vedevo chi me li procurasse, ma mi pareva di sentirmi bruciare e dilacerare; ripeto, però, che il peggior supplizio era dato da quel fuoco e da quella disperazione interiore.
    3. Stavo in un luogo pestilenziale, senza alcuna speranza di conforto, senza la possibilità di sedermi e stendere le membra, chiusa com’ero in quella specie di buco nel muro. Le stesse pareti, orribili a vedersi, mi gravavano addosso dandomi un senso di soffocamento. Non c’era luce, ma tenebre fittissime. Io non capivo come potesse avvenire questo: che, pur non essendoci luce, si vedesse ugualmente ciò che poteva dar pena alla vista. Il Testi di Santi, Papi, Dottori della Chiesa e altri importanti autori.


    S. Alfonso de’Liguori

    Dall’ ”Apparecchio alla morte”

    CONSIDERAZIONE XXVI –
    DELLE PENE DELL'INFERNO

    «Et ibunt hi in supplicium aeternum» (Matth. 25. 46). -
    PUNTO I

    Due mali fa il peccatore, allorché pecca, lascia Dio sommo bene, e si rivolta alle creature: «Duo enim mala fecit populus meus, me dereliquerunt fontem aquae vivae, et foderunt sibi cisternas; cisternas dissipatas, quae continere non valent aquas» (Ier. 2. 13). Perché dunque il peccatore si volta alle creature con disgusto di Dio, giustamente nell'inferno sarà tormentato dalle stesse creature, dal fuoco e da' demonii, e questa è la pena del senso. Ma perché la sua colpa maggiore, dove consiste il peccato, è il voltare le spalle a Dio, perciò la pena principale che sarà nell'inferno, sarà la pena del danno. Ch'é1 la pena d'aver perduto Dio.
    Consideriamo prima la pena del senso. È di fede che vi è l'inferno. In mezzo alla terra vi è questa prigione riservata al castigo de' ribelli di Dio. Che cosa è questo inferno? è il luogo de' tormenti. «In hunc locum tormentorum», così chiamò l'inferno l'Epulone dannato (Luca 16. 28). Luogo di tormenti, dove tutti i sensi e le potenze del dannato hanno da avere il lor proprio tormento; e quanto più alcuno in un senso avrà offeso Dio, tanto più in quel senso avrà da esser tormentato: «Per quae peccat quis, per haec et torquetur» (Sap. 11. 17). «Quantum in deliciis fuit, tantum date illi tormentum» (Apoc. 18. 7).2 Sarà tormentata la vista colle tenebre. «Terram tenebrarum, et opertam mortis caligine» (Iob. 10. 21). Che compassione fa il sentire che un pover'uomo sta chiuso in una fossa oscura per mentre vive, per 40-50 anni di vita! L'inferno è una fossa chiusa da tutte le parti dove non entrerà mai raggio di sole o d'altra luce. «Usque in aeternum non videbit lumen» (Psal. 48. 20). Il fuoco che sulla terra illumina, nell'inferno sarà tutt'oscuro. «Vox Domini intercidentis flammam ignis» (Psal. 28. 7). Spiega S. Basilio Il Signore dividerà dal fuoco la luce, onde tal fuoco farà solamente l'officio di bruciare, ma non d'illuminare; e lo spiega più in breve Alberto Magno:4 «Dividet a calore splendorem». Lo stesso fumo che uscirà da questo fuoco, componerà quella procella di tenebre, di cui parla S. Giacomo, che accecherà gli occhi de' dannati: «Quibus procella tenebrarum servata est in aeternum» (Iac. 2. 13).5 Dice S. Tommaso (3. p. q. 97. n. 4),6 che a' dannati è riservato tanto di luce solamente, quanto basta a più tormentarli. «Quantum sufficit ad videndum illa, quae torquere possunt». Vedranno in quel barlume di luce la bruttezza degli altri reprobi e de' demoni, che prenderanno forme orrende per più spaventarli.
    Sarà tormentato l'odorato. Che pena sarebbe trovarsi chiuso in una stanza con un cadavere fracido? «De cadaveribus eorum ascendit foetor» (Is. 34. 3). Il dannato ha da stare in mezzo a tanti milioni d'altri dannati, vivi alla pena, ma cadaveri per la puzza che mandano. Dice S. Bonaventura7 che se un corpo d'un dannato fosse cacciato dall'inferno, basterebbe a far morire per la puzza tutti gli uomini. E poi dicono alcuni pazzi: Se vado all'inferno, non sono solo. Miseri! quanti più sono nell'inferno, tanto più penano. «Ibi (dice S. Tommaso)8 miserorum societas miseriam non minuet, sed augebit» (S. Thom. Suppl. q. 89. a. 1). Più penano (dico) per la puzza, per le grida e per la strettezza; poiché staran nell'inferno l'un sopra l'altro, come pecore ammucchiate in tempo d'inverno: «Sicut oves in inferno positi sunt» (Psal. 48. 15). Anzi più, staran come uve spremute sotto il torchio dell'ira di Dio. «Et ipse calcat torcular vini furoris irae Dei» (Apoc. 19. 15). Dal che ne avverrà poi la pena dell'immobilità. «Fiant immobiles quasi lapis» (Exod. 15. 16). Sicché il dannato siccome caderà nell'inferno nel giorno finale, così avrà da restare senza cambiare più sito e senza poter più muovere né un piede, né una mano, per mentre Dio sarà Dio.
    Sarà tormentato l'udito cogli urli continui e pianti di quei poveri disperati. I demonii faranno continui strepiti. «Sonitus terroris semper in aure eius» (Iob. 15. 21). Che pena è quando si vuol dormire e si sente un infermo che continuamente si lamenta, un cane che abbaia, o un fanciullo che piange? Miseri dannati, che han da sentire di continuo per tutta l'eternità quei rumori e le grida di quei tormentati! Sarà tormentata la gola colla fame; avrà il dannato una fame canina: «Famem patientur ut canes» (Psal. 58. 15). Ma non avrà mai una briciola di pane. Avrà poi una tale sete, che non gli basterebbe tutta l'acqua del mare; ma non ne avrà neppure una stilla: una stilla ne domandava l'Epulone,9 ma questa non l'ha avuta ancora, e non l'avrà mai, mai.

    Affetti e preghiere.

    Ah mio Signore, ecco a' piedi vostri chi ha fatto tanto poco conto della vostra grazia e de' vostri castighi. Povero me, se Voi, Gesù mio, non aveste avuto di me pietà, da quanti anni starei in quella fornace puzzolente, dove già vi stanno ad ardere tanti pari miei! Ah mio Redentore, come pensando a ciò non ardo del vostro amore? come potrò per l'avvenire pensare ad offendervi di nuovo! Ah non sia mai, Gesu-Cristo mio, fatemi prima mille volte morire. Giacché avete cominciato, compite l'opera. Voi mi avete cacciato dal lezzo di tanti miei peccati, e con tanto amore mi avete chiamato ad amarvi; deh fate ora che questo tempo che mi date, io lo spenda tutto per Voi. Quanto desidererebbero i dannati un giorno, un'ora del tempo che a me concedete; ed io che farò? seguirò a spenderlo in cose di vostro disgusto? No, Gesù mio, non lo permettete, per li meriti di quel sangue, che sinora m'ha liberato dall'inferno. V'amo, o sommo bene, e perché v'amo mi pento di avervi offeso; non voglio più offendervi, ma sempre amarvi.
    Regina e Madre mia Maria, pregate Gesù per me, ed ottenetemi il dono della perseveranza e del suo santo amore.
    1 [13.] danno. Ch'è) danno, ch'è BR2.
    2 [24.] Apoc., 18, 7: «Quantum glorificavit se et in deliciis fuit, tantum date illi tormentum et luctum».
    3 [1.] METAPHRASTES, Sermones 24 selecti, sermo 14 de futuro iudicio, n. 2; PG 32, 1299: «Ut cum duae sint in igne facultates, quarum una comburit, altera illustrat... adeo ut supplicii quidem ignis obscurus sit... cuius quidem lumen, iustorum oblectamento: urendi vero molestia, puniendorum tribuetur ultioni». Cfr. S. BASILIUS M., Hom. in Ps. 28, n. 6: PG 29, 298: «Quamquam… ignis consiliis humanis insecabilis ac individuus videtur esse, nihilominus tamen Dei iussu interciditur ac dividitur…, adeo ut supplicii quidem ignis obscurus sit; lux vero requietis, vi careat comburendi». IDEM, Hom. in Ps. 33, n. 8; PG 29, 371: «Postea animo tibi fingas barathrum profundum, tenebras inextricabiles, ignem splendoris expertem, vim quidem urendi in tenebris habentem, sed luce destitutum».
    4 [3.] S. ALBERTUS M., Summa theologica, p. II, q. 12, membrum 2; Opera, XVIII, Lugduni 1651, 85, col. 2: «Unde Basilius etiam dicit super illud Ps. 18: Vox Domini intercidentis flammam ignis, quod in die iudicii lumen quod est in igne, ascendet ad locum beatorum: et ardor fuliginosus descendet ad locum damnatorum: et sic vox Domini sive praeceptum intercidit flammam ignis».
    5 [7.] Iud., 13, non Iac., 2, 13: «Iudicium enim sine misericordia illi, qui non fecit misericordiam».
    6 [7.] S. THOMAS, Suppl. III partis Summae theol., q. 97, a. 4, c.: «Unde simpliciter loquendo locus est tenebrosus; se tamen ex divina dispositione est ibi aliquid luminis, quantum sufficit ad videndum illa quae animam torquere possunt».
    7 [16.] Il testo è comune tra gli autori spirituali, che mai indicano il luogo preciso di s. Bonaventura: BESSEUS P., Conciones... super quatuor novissima. De inferno, concio 4; Venetiis 1617, 472: «Unde Isaias (XXXIV, 3): De cadaveribus eorum ascendet foetor; at tam enormis et pestilens, ut Bonaventura dicere ausus sit mundum universum confestim lue inficiendum, si vel unius damnati corpus in eum inferretur». DREXELIUS, Infermus damnatorum carcer et rogus, c. V, par. 2, Lugduni 1658, 156, col. 2: «Divus Bonaventura ausus est dicere: Si vel unius damnati cadaver in orbe hoc nostro sit, orbem totum ab eo inficiendum». ROSIGNOLI C. G., Verità eterne, lez. VI, parag. I: Bologna 1689, 105-106: «Più ebbe a dire S.
    Bonaventura che se il cadavere d'un dannato fosse tratto dall'inferno, e riposto sopra la superficie della terra ad esalare il suo lezzo, basterebbe ad appestare tutta la terra». Vedi anche SPANNER, op. cit., I, Venetiis 1709, 431.
    8 [3.] S. THOMAS, Suppl. III partis Summae theol., q. 89, a. 4, c.: «Nec ob hoc minuitur aliquid de daemonum poena, quia in hoc etiam quod alios torquent, ipsi torquebuntur: ibi enim miserorum societas miseriam non minuet, sed augebit».
    9 [25.] Luc., 16, 24: «Mitte Lazarum, ut intingat extremum digiti sui in aquam, ut refrigeret linguam meam, quia crucior in hac flamma».

    PUNTO II.

    La pena poi che più tormenta il senso del dannato, è il fuoco del l'inferno, che tormenta il tatto. «Vindicta carnis impii ignis, et vermis» (Eccli. 7. 19). Che perciò il Signore nel giudizio ne fa special menzione: «Discedite a me, maledicti, in ignem aeternum» (Matth. 41).1 Anche in questa terra la pena del fuoco è la maggior2 di tutte; ma vi è tanta differenza dal fuoco nostro a quello dell'inferno, che dice S. Agostino3 che 'l nostro sembra dipinto. «In eius comparatione noster hic ignis depictus est». E S. Vincenzo Ferreri dice che a confronto il nostro4 è freddo. La ragione è,5 perché il fuoco nostro è creato per nostro utile, ma il fuoco dell'inferno è creato da Dio a posta per tormentare. «Longe alius (dice Tertulliano)6 est ignis, qui usui humano, alius qui Dei iustitiae deservit». Lo sdegno di Dio accende questo fuoco vendicatore. «Ignis succensus est in furore meo» (Ier. 15. 14). Quindi da Isaia il fuoco dell'inferno è chiamato spirito d'ardore: «Si abluerit Dominus sordes... in spiritu ardoris» (Is. 4).7 Il dannato sarà mandato non al fuoco, ma nel fuoco: «Discedite a me, maledicti, in ignem aeternum». Sicché il misero sarà circondato dal fuoco, come un legno dentro una fornace. Si troverà il dannato con un abisso di fuoco da sotto,8 un abisso di sopra, e un abisso d'intorno. Se tocca, se vede, se respira; non tocca, non vede, né respira altro che fuoco. Starà nel fuoco come il pesce nell'acqua. Ma questo fuoco non solamente starà d'intorno al dannato, ma entrerà anche dentro le sue viscere a tormentarlo. Il suo corpo diventerà tutto di fuoco, sicché bruceranno le viscere dentro del ventre, il cuore dentro del petto, le cervella dentro il capo, il sangue dentro le vene, anche le midolla dentro l'ossa: ogni dannato diventerà in se stesso una fornace di fuoco. «Pone eos ut clibanum ignis» (Ps. 20. 10). Taluni non possono soffrire di camminare per una via battuta dal sole, di stare in una stanza chiusa con una braciera,9 non soffrire una scintilla, che svola da una candela; e poi non temono quel fuoco, che divora, come dice Isaia:
    «Quis poterit habitare de vobis cum igne devorante?» (Is. 33. 14). Siccome una fiera divora un capretto, così il fuoco dell'inferno divora il dannato; lo divora, ma senza farlo mai morire. Siegui pazzo, dice S. Pier Damiani10 (parlando al disonesto), siegui11 a contentare la tua carne, che verrà un giorno in cui le tue disonestà diventeranno tutte pece nelle tue viscere, che farà più grande e più tormentosa la fiamma che ti brucerà nell'inferno: «Venit dies, imo nox, quando libido tua vertetur in picem, qua se nutriat perpetuus ignis in tuis visceribus» (S. P. Dam. Epist. 6). Aggiunge S. Girolamo (Epist. ad Pam.)12 che questo fuoco porterà seco tutti i tormenti e dolori che si patiscono in questa terra; dolori di fianco e di testa, di viscere, di nervi: «In uno igne omnia supplicia sentiunt in inferno peccatores». In questo fuoco vi sarà anche la pena del freddo. «Ad nimium calorem transeat ab aquis nivium» (Iob. 24. 19). Ma sempre bisogna intendere che tutte le pene di questa terra sono un'ombra, come dice il Grisostomo,13 a paragone delle pene dell'inferno: «Pone ignem, pone ferrum, quid, nisi umbra ad illa tormenta?»Le potenze anche avranno il lor proprio tormento. Il dannato sarà tormentato nella memoria, col ricordarsi del tempo che ha avuto in questa vita per salvarsi, e l'ha speso per dannarsi; e delle grazie che ha ricevute da Dio, e non se ne ha voluto servire. Nell'intelletto, col pensare al gran bene che ha perduto, paradiso e Dio; e che a questa perdita non vi è più rimedio. Nella volontà, in vedere che gli sarà negata sempre ogni cosa che domanda. «Desiderium peccatorum peribit» (Ps. 111. 10). Il misero non avrà mai niente di quel che desidera, ed avrà sempre tutto quello che abborrisce, che saranno le sue pene eterne. Vorrebbe uscir da' tormenti, e trovar pace, ma sarà sempre tormentato, e non avrà mai pace.
    Affetti e preghiere.

    Ah Gesù mio, il vostro sangue e la vostra morte sono la speranza mia. Voi siete morto, per liberare me dalla morte eterna. Ah Signore, e chi più ha partecipato de' meriti della vostra passione, che io miserabile, il quale tante volte mi ho meritato l'inferno? Deh non mi fate vivere più ingrato a tante grazie che mi avete fatte. Voi m'avete liberato dal fuoco dell'inferno, perché non volete ch'io arda in quel fuoco di tormento, ma arda del dolce fuoco dell'amor vostro. Aiutatemi dunque, acciocché io possa compiacere il vostro desiderio. Se ora stessi nell'inferno, non vi potrei più amare; ma giacché posso amarvi, io vi voglio amare. V'amo bontà infinita, v'amo mio Redentore, che tanto mi avete amato. Come ho potuto vivere tanto tempo scordato di Voi! Vi ringrazio che Voi non vi siete scordato di me. Se di me vi foste scordato, o starei al presente nell'inferno, o non avrei dolore de' miei peccati. Questo dolore che mi sento nel cuore di avervi offeso, questo desiderio che provo di amarvi assai, son doni della vostra grazia, che ancora mi assiste. Ve ne ringrazio, Gesù mio. Spero per l'avvenire di dare a Voi la vita che mi resta. Rinunzio a tutto. Voglio solo pensare a servirvi e darvi gusto. Ricordatemi sempre l'inferno che mi ho meritato, e le grazie che mi avete fatte; e non permettete ch'io abbia un'altra volta a voltarvi le spalle, ed a condannarmi da me stesso a questa fossa di tormenti.
    O Madre di Dio, pregate per me peccatore. La vostra intercessione m'ha liberato dall'inferno, con questa ancora liberatemi, o Madre mia, dal peccato, che solo può condannarmi di nuovo all'inferno.
    1 [21.] Matth., 25, 41.
    2 [22.] maggior) maggiore VR BR1 BR2.
    3 [24.] V. BELLOVACENSIS, Spec. morale, l. II, p. 3, dist. 2, Venetiis 1591, f. 146, col. 4: «Augustinus de Civ. Dei... Item ignis iste ad comparationem illius non est nisi quasi umbra vel pictura». DREXELIUS, op. cit., c. VI, parag. I; Lugduni 1658, 159, col. 2: «Noster ignis Augustino pictus videtur, sed ille alter, verus». GISOLFO P., op. cit., p. I, disc. 17; II, Roma 1694, 506: «E 'l fuoco infernale ha tanta maggior attività, ha tanto più intenso ardore, che afferma S. Agostino, esservi quella differenza tra l'uno e l'altro fuoco, quale appunto è co 'l fuoco dipinto in un quadro, e tra il fuoco vero materiale: In cuius comparatione noster hic ignis depictus est: S. August., tom. 10, serm. 181 de tempore, fol. 691». Cfr. S. AUGUST., Enarratio in Ps. XLIX, n. 7; PL 36, 569: «Non erit iste ignis sicut focus tuus, quo tamen si manum mittere cogaris, facies quidquid voluerit qui hoc minatur». Cfr. CC 38, 580-81.
    4 [2.] il nostro) del nostro ND1 VR ND3 BR1 NS7: lo sbaglio è evidente pel controsenso che ne risulta; seguiamo la lezione più corretta «il» che si trova in BR2.
    5 [2.] Pare che s. Alfonso riferisca a senso il pensiero del Ferreri che sovente parla del fuoco infernale «intolerabilis» ed «inextinguibilis»: vedi VINCENTIUS FERRERI, Sermones hiemales, Venetiis 1573, 377; Sermones aestivales, Venetiis 1573, 195, 230, 472, 478; Sermones de Sanctis, Coloniae Agrippinae 1675, 560-61, ecc. Nei Sermoni compendiati, serm. X, n. 5; Napoli 1771, 40 s. Alfonso attribuisce la stessa idea a s. Anselmo.
    6 [4.] GISOLFO P., op. cit., disc. 17, 501: «Altro è il fuoco, che serve ad uso, e alle comodità degli uomini, dice Tertulliano, e altro è il fuoco, che serve alla divina giustizia: Longe alius est ignis, qui usui humano, alius qui Dei iustitiae deservit». Cfr. TERTULLIANUS, Apologeticus, c. 48; PL I, 527-528: «Noverunt philosophi diversitatem arcani et publici ignis. Ita longe alius est qui usui humano, alius qui iudicio Dei apparet… Et hoc erit testimonium ignis aeterni, hoc exemplum iusti iudicii poenam nutrientis. Montes uruntur et durant: quid nocentes et Dei hostes?» Cfr. CC I, 168.
    7 [8.] Is., 4, 4: «Si abluerit Dominus sordes filiarum Sion, et sanguinem Ierusalem laverit de medio eius, in spiritu iudicii et spiritu ardoris.»
    8 [12.] da sotto) di sotto VR BR1 BR2.
    9 [22.] un braciere.
    10 [4.] S. PETRUS DAMIANUS, De caelibatu sacerdotum, c. III; PL 145, 385: «Veniet profecto dies, imo nox, quando libido ista tua vertatur in picem, qua se perpetuus ignis in tuis visceribus inextinguibiliter nutriat, et medullas tuas simul et ossa indefectiva conflagratione depascat».
    11 [4.] Segui.
    12 [9.] MANSI, Bibliotheca mor. praedic., tr. 34, disc. 7; II, Venetiis 1703, 614 col. 2: «Siquidem in uno igne omnia supplicia sentiunt in inferno peccatores, ut inquit Hieronymus (Ep. I ad Pammach.)». Tra altri anche SEGNERI P., Cristiano Istruito, p. II, ragion. XVIII; Opere, III, Venezia 1742, 165, col. I, attribuisce con la stessa citazione a s. Girolamo il testo, che però manca nelle lettere genuine.
    13 [16.] GISOLFO P., op. cit., disc. XV; I, 437: «Onde S. Giovan Crisostomo: Pone, si libet, ignem, ferrum et bestias, et si quid his difficilius: attamen nec umbra sunt haec ad inferni tormenta». Cfr. CHRYS., In epist. ad Rom., hom. 31, n. 5; PG 60, 674: «Quid enim mihi grave dicere possis? Paupertatem, morbum, captivitatem, mutilationem corporis. Verum illa omnia risu sunt digna si cum supplicio illo [inferni] comparentur».

    PUNTO III

    Ma tutte queste pene son niente a rispetto della pena del danno. Non fanno l'inferno le tenebre, la puzza, le grida e 'l fuoco; la pena che fa l'inferno è la pena di aver perduto Dio. Dice S. Brunone:1 «Addantur tormenta tormentis, ac Deo non priventur» (Serm. de Iud. fin.). E S. Gio. Grisostomo:2 «Si mille dixeris gehennas, nihil par dices illius doloris» (Hom. 49. ad Pop.). Ed aggiunge S. Agostino3 che se i dannati godessero la vista di Dio, «nullam poenam sentirent, et infernus ipse verteretur in paradisum» (S. Aug. to. 9. de Tripl. hab.). Per intendere qualche cosa di questa pena, si consideri che se taluno perde (per esempio) una gemma, che valea 100 scudi, sente gran pena, ma se valea 200 sente doppia pena: se 400 più pena. In somma quanto cresce il valore della cosa perduta, tanto cresce la pena. Il dannato qual bene ha perduto? un bene infinito, ch'è Dio; onde dice S. Tommaso4 che sente una pena in certo modo infinita: «Poena damnati est infinita, quia est amissio boni infiniti» (D. Th. 1. 2. q. 87. a. 4).
    Questa pena ora solo si teme da' santi. «Haec amantibus, non contemnentibus poena est», dice S. Agostino.5 S. Ignazio di Loiola dicea:6 Signore, ogni pena sopporto, ma questa no, di star privo di Voi. Ma questa pena niente si apprende da' peccatori, che si contentano di vivere i mesi e gli anni senza Dio, perché i miseri vivono fra le tenebre. In morte non però han da conoscere il gran bene che perdono. L'anima in uscire da questa vita, come dice S. Antonino,7 subito intende ch'ella è creata per Dio: «Separata autem anima a corpore intelligit Deum summum bonum et ad illud esse creatam». Onde subito si slancia per andare ad abbracciarsi col suo sommo bene; ma stando in peccato, sarà da Dio discacciata. Se un cane vede la lepre, ed uno lo tiene con una catena, che forza fa il cane per romper la catena ed andare a pigliar la preda? L'anima in separarsi dal corpo, naturalmente è tirata a Dio, ma il peccato la divide da Dio, e la manda lontana all'inferno. «Iniquitates vestrae diviserunt inter vos, et Deum vestrum» (Is. 59. 2). Tutto l'inferno dunque consiste in quella prima parola della condanna: «Discedite a me, maledicti». Andate, dirà Gesu-Cristo, non voglio che vediate più la mia faccia. «Si mille quis ponat gehennas, nihil tale dicturus est, quale est exosum esse Christo» (Chrysost. hom. 24. in Matth.).8 Allorché Davide9 condannò Assalonne a non comparirgli più davanti, fu tale questa pena ad Assalonne che rispose: Dite a mio padre, che o mi permetta di vedere la sua faccia o mi dia la morte (2. Reg. 14. 24).10 Filippo II11 ad un grande che vide stare irriverente in chiesa, gli disse: Non mi comparite più davanti. Fu tanta la pena di quel grande, che giunto alla casa se ne morì di dolore. Che sarà, quando Dio in morte intimerà al reprobo: Va via che io non voglio vederti più. «Abscondam faciem ab eo, et invenient eum omnia mala» (Deut. 31. 17). Voi (dirà Gesù a' dannati nel giorno finale) non siete più miei, io non sono più vostro. «Voca nomen eius, non populus meus, quia vos non populus meus, et ego non ero vester» (Osea 1. 9). Che pena è ad un figlio, a cui gli muore il padre, o ad una moglie quando le muore lo sposo, il dire: Padre mio, sposo mio, non t'ho da vedere più. Ah se ora udissimo un'anima dannata che piange, e le chiedessimo: Anima, perché piangi tanto? Questo solo ella risponderebbe: Piango, perché ho perduto Dio, e non l'ho da vedere più. Almeno potesse la misera nell'inferno amare il suo Dio, e rassegnarsi alla sua volontà. Ma no; se potesse ciò fare, l'inferno non sarebbe inferno; l'infelice non può rassegnarsi alla volontà di Dio, perché è fatta nemica della divina volontà. Né può amare più il suo Dio, ma l'odia e l'odierà per sempre; e questo sarà il suo inferno, il conoscere che Dio è un bene sommo e il vedersi poi costretto ad odiarlo, nello stesso tempo che lo conosce degno d'infinito amore. «Ego sum ille nequam privatus amore Dei», così rispose quel demonio, interrogato chi fosse da S. Caterina da Genova.12 Il dannato odierà e maledirà Dio, e maledicendo Dio, maledirà anche i beneficii che gli ha fatti, la creazione, la redenzione, i sagramenti, specialmente del battesimo e della penitenza, e sopra tutto il SS. Sagramento dell'altare. Odierà tutti gli angeli e santi ma specialmente l'angelo suo custode e i santi suoi avvocati, e più di tutti la divina Madre; ma principalmente maledirà le tre divine Persone, e fra queste singolarmente il Figlio di Dio, che un giorno è morto per la di lei salute, maledicendo le sue piaghe, il suo sangue, le sue pene e la sua morte.

    Affetti e preghiere.

    Ah mio Dio, Voi dunque siete il mio sommo bene, bene infinito, ed io volontariamente tante volte v'ho perduto. Sapeva io già che col mio peccato vi da un gran disgusto, e che perdeva la vostra grazia, e l'ho fatto? Ah che se non vi vedessi trafitto in croce, o Figlio di Dio, morire per me, non avrei più animo di cercarvi13 e di sperare da Voi perdono. Eterno Padre, non guardate me, guardate questo amato Figlio, che vi cerca14 per me pietà; esauditelo, e perdonatemi. A quest'ora dovrei star nell'inferno da tanti anni senza speranza di potervi più amare, e di ricuperare la vostra grazia perduta. Dio mio, mi pento sopra ogni male di quest'ingiuria che v'ho fatta, di rinunziare alla vostr'amicizia e di disprezzare il vostro amore per li gusti miserabili di questa terra. Oh fossi morto prima mille volte! Come ho potuto essere così cieco e così pazzo! Vi ringrazio, Signor mio, che mi date tempo di poter rimediare al mal fatto. Giacché per misericordia vostra sto fuori dell'inferno, e vi posso amare, Dio mio, vi voglio amare. Non voglio più differire di convertirmi tutto a Voi. V'amo bontà infinita, v'amo15 mia vita, mio tesoro, mio amore, mio tutto. Ricordatemi sempre, o Signore, l'amore che mi avete portato, e l'inferno dove dovrei stare; acciocché questo pensiero mi accenda sempre a farvi atti d'amore e a dirvi sempre: io v'amo, io v'amo, io v'amo.
    O Maria Regina, speranza e Madre mia, se stessi nell'inferno, neppure potrei amar più Voi. V'amo Madre mia, e a Voi confido di non lasciare più d'amar Voi e 'l mio Dio. Aiutatemi, pregate Gesù per me.
    1 [31.] MANSI, op. cit., tr. 34, disc. 22; II, 646, col. 2: «Sanctus tamen Bruno in sermone de Iudicio finali, longe clarioribus verbis hanc ipsam confirmat veritatem, dicens: Addantur
    tormenta tormentis, et poenae poenis; saeviant saevius ministri; at Deo non privemur».
    2 [2.] DREXELIUS, Infernus damnatorum, c. II, parag. 2; Opera, I, Lugduni 1658, 148, col. 2: «Hic attonitus Chrysostomus: Nam si mille, ait, dixeris gehennas, nihil illius par dices doloris, quem sustinet anima. Intolerabilis gehenna est, confiteor, et multum intolerabilis, tamen intolerabilior haec regni amissio». Cfr. CHRYSOST., In ep. ad Philipp., c. IV, hom. 14, n. 4; PG 62, 280: «Si sexcentas gehennas attuleris, nihil par afferes dolori illi, quo tunc angitur anima, cum universus quatitur orbis... Intolerabilis res est gehenna, fateor, et valde quidem intolerabilis; attamen intolerabilius mihi videtur de regno cecidisse».
    3 [3.] Ps. AUGUSTINUS, De triplici habitaculo, l. unus, c. 4; PL 40, 995: «Cuius faciem si omnes carcere inferni inclusi viderent, nullam poenam, nullum dolorem nullamque tristitiam sentirent; cuius praesentia, si in inferno cum sanctis habitatoribus appareret, continuo infernus in amoenum converteretur paradisum». È in Appendice delle opere di s. Agostino, ma non è autentico (cfr. Glorieux, 28).
    4 [10.] S. THOMAS, Summa theol., I-II, q. 87, a. 4, c.: «Ex parte igitur aversionis, respondet peccato poena damni, quae etiam est infinita: est einm amissio infiniti boni, scilicet Dei».
    5 [14.] S. AUGUST., Enarrat. in Ps. XLIX, n. 7; PL 36, 569: «Si non veniret ignis die iudicii, et sola peccatoribus immineret separatio a facie Dei, in qualibet essent affluentia deliciarum, non videntes a quo creati sunt, et separati ab illa dulcedine ineffabili vultus eius, in qualibet aeternitate et impunitate peccati, plangere se deberent. Sed quid loquor, aut quibus loquor? Haec amantibus poena est, non contemnentibus». Cfr. CC 38, 580.
    6 [14.] ORLANDINI, Historia Societatis Iesu, l. X, nn. 55-62; Romae 1615, 318.
    7 [2.] S. ANTONINUS, Summa theol., p. I, tit. V, c. 3, parag. 3; Veronae 1740, col. 402: «Quum anima separatur a corpore, sibi subito infunduntur species omnium rerum naturalium… Et sic cognoscens quod Deus est summum bonum et summe utilis animae, videns se eo privatum sua miseria, quum capax fuerit adquirendi, summe dolet».
    8 [15.] CHRYSOST., In Matthaeum, hom. 23 (al. 24), n. 8; PG 57, 317: «Intolerabilis quippe est illa gehenna illaque poena. Attamen licet mille quis gehennas proposuerit, nihil tale dicturus est, quale est ex beata illa excidere gloria, Christo exosum esse, audire ab illo: Non novi vos».
    9 [15.] Davide) Davidde VR BR1 BR2.
    10 [18.] II Reg., 14, 32.
    11 [18.] SINISCALCHI L., La scienza della salute, med. V, punto 2; Padova 1773, 136: «Due cavalieri in Ispagna tosto che udirono dal re Filippo II in pena della poca compostezza, con cui stavano in chiesa: Non mi comparite più innanzi, tornati a casa ne morirono per la doglia».
    12 [14.] PEPE F., Discorsi in lode di Maria SS. per tutti i sabbati dell'anno, II, Napoli 1756, 228: «Dimandato un demonio dalla B. Catarina da Genova chi egli si fusse. Dopo un profondo sospiro, rispose: Sono un infelice spirito senza amor di Dio». Alquanto diversamente racconta il fatto ROSIGNOLI C. G., Verità eterne, Bologna 1689, 325: «Imperocché, scongiurandosi un demonio dell'inferno nel corpo di un'energumena, e costretto dal sacerdote cogli esorcismi, a manifestare il suo nome disse con voce lacrimevole: Ego sum ille nequam privatus amore Dei. Io son lo scelerato privo dell'amor di Dio. Alle quali parole la B. Caterina di Genova ivi presente tanto s'inorridì, che come percossa da un fulmine esclamò: Oh orribile miseria, esser privo dell'amor di Dio! Oh inferno degl'inferni, esser privo dell'amor di Dio». Cfr. MARABOTTO, Vita ammirabile e dottrina celeste di S. Caterina Fiesca Adorna, c. XIV, n. 12; Padova 1743, 59-60.
    13 [3.] cercarvi) chiedervi VR BR1 BR2.
    14 [5.] cerca) chiede VR BR1 BR2.
    15 [15.] v'amo) vi amo BR2.

    CONSIDERAZIONE XXVII –
    DELL'ETERNITÀ DELL'INFERNO

    «Et ibunt hi in supplicium aeternum» (Matth. 25. 46).

    PUNTO I

    Se l'inferno non fosse eterno, non sarebbe inferno. Quella pena che non dura molto, non è gran pena. A quell'infermo si taglia una postema, a quell'altro si foca una cancrena; il dolore è grande, ma perché finisce tra poco, non è gran tormento. Ma qual pena sarebbe, se quel taglio o quell'operazione di fuoco continuasse per una settimana, per un mese intero?1 Quando la pena è assai lunga, ancorché sia leggiera, come un dolore d'occhi, un dolore di mole, si rende insopportabile. Ma che dico dolore? anche una commedia, una musica che durasse troppo, o fosse per tutto un giorno, non potrebbe soffrirsi per lo tedio. E se durasse un mese? un anno? Che sarà l'inferno? dove non si ascolta sempre la stessa commedia, o la stessa musica: non vi è solo un dolore d'occhi, o di mole: non si sente solamente il tormento d'un taglio, o di un ferro rovente, ma vi sono tutti i tormenti, tutti i dolori; e per quanto tempo? per tutta l'eternità: «Cruciabuntur die ac nocte in saecula saeculorum» (Apoc. 20. 10).
    Quest'eternità è di fede; non è già qualche opinione, ma è verità attestataci da Dio in tante Scritture: «Discedite a me, maledicti, in ignem aeternum» (Matth. 25. 41). «Et hi ibunt in supplicium aeternum» (Ibid. num. 46). «Poenas dabunt in interitu aeternas» (2. Thess. 1. 9). «Omnis igne salietur» (Marc. 9. 48). Siccome il sale conserva le cose, così il fuoco dell'inferno nello stesso tempo che tormenta i dannati, fa l'officio di sale conservando loro la vita. «Ignis ibi consumit (dice S. Bernardo),2 ut semper reservet» (Medit. cap. 3).
    Or qual pazzia sarebbe quella di taluno, che per pigliarsi una giornata di spasso, si volesse condannare a star chiuso in una fossa per venti, o trenta anni? Se l'inferno durasse cent'anni; che dico cento? durasse non più che due o tre anni, pure sarebbe una gran pazzia, per un momento di vil piacere, condannarsi a due o tre anni di fuoco. Ma non si tratta di trenta, di cento, né di mille, né di cento mila anni; si tratta d'eternità, si tratta di patire per sempre gli stessi tormenti, che non avranno mai da finire, né da alleggerirsi un punto. Hanno avuto ragione dunque i santi, mentre stavano in vita, ed anche in pericolo di dannarsi, di piangere e tremare. Il B. Isaia3 anche mentre stava nel deserto tra digiuni e penitenze, piangeva dicendo: Ah misero me, che ancora non sono libero dal dannarmi! «Heu me miserum, quia nondum a gehennae igne sum liber!»




    Affetti e preghiere.

    Ah mio Dio, se mi aveste mandato all'inferno, come già più volte l'ho meritato, e poi me ne aveste cacciato per vostra misericordia, quanto ve ne sarei restato obbligato? ed indi qual vita santa avrei cominciato a fare? Ed ora che con maggior misericordia Voi mi avete preservato dal cadervi, che farò Tornerò ad offendervi e provocarvi a sdegno, affinché proprio mi mandiate ad ardere in quella carcere de' vostri ribelli, dove tanti già ardono per meno peccati de' miei? Ah mio Redentore, così ho fatto per lo passato; in vece di servirmi del tempo che mi davate per piangere i miei peccati, l'ho speso a più sdegnarvi. Ringrazio la vostra bontà infinita, che tanto mi ha sopportato. S'ella non era infinita, e come mai avrebbe potuto soffrirmi? Vi ringrazio dunque di avermi con tanta pazienza aspettato sinora; e vi ringrazio sommamente della luce che ora mi date, colla quale mi fate conoscere la mia pazzia e il torto che vi ho fatto in oltraggiarvi con tanti miei peccati. Gesù mio, li detesto e me ne pento con tutto il cuore; perdonatemi per la vostra passione; ed assistetemi colla vostra grazia, acciocché più non vi offenda. Giustamente or debbo temere che ad un altro peccato mortale Voi mi abbandoniate. Ah Signor mio, vi prego, mettetemi avanti gli occhi questo giusto timore, allorché il demonio mi tenterà di nuovo ad offendervi. Dio mio, io vi amo, né vi voglio più perdere; aiutatemi colla vostra grazia.
    Aiutatemi, o Vergine SS., fate ch'io sempre ricorra a Voi nelle mie tentazioni, acciocché non perda più Dio. Maria, Maria4 Voi siete la speranza mia.
    1 [10.] intero) intiero ND1 VR BR1 BR2.
    2 [27.] PS. BERNARDUS, Medit. piissimae de cognitione humanae conditionis, c. III, n. 10; PL 184, 491: «Sic enim ignis consumit, ut semper reservet; sic tormenta aguntur, ut semper renoventur» (cfr. Glorieux, 71).
    3 [8.] SPANNER A., Polyanthea sacra, I, Venetiis 1709: «Me miserum! me miserum! quia nondum a gehennae igne sum liber: nondum mihi constat, quoniam hinc sim profecturus». Cfr. S. ISAIAS Ab., Orationes, or. XIV, n. I; PG 40, 1139: «Me miserum, me miserum, quia nondum a gehennae igne sum liber. Qui ad illam homines detrahunt, adhuc in me operantur: et omnia opera eius moventur in corde meo». Alcuni scrivono anche: Esaias.
    4 [5.] Maria, om. una volta in BR1 BR2.

    PUNTO II

    Chi entra una volta nell'inferno, di là non uscirà più in eterno. Questo pensiero facea tremare Davide,1 dicendo: «Neque absorbeat me profundum, neque urgeat super me puteus os suum» (Ps. 68. 16). Caduto ch'è il dannato in quel pozzo di tormenti, si chiude la bocca e non si apre più. Nell'inferno v'è porta per entrare, ma non v'è porta per uscire: «Descensus erit (dice Eusebio Emisseno),2 ascensus non erit». E così spiega le parole del Salmista: «Neque urgeat os suum; quia cum susceperit eos, claudetur sursum, et aperietur deorsum». Fintanto che il peccatore vive, sempre può avere speranza di rimedio, ma colto ch'egli sarà dalla morte in peccato, sarà finita per lui ogni speranza. «Mortuo homine impio, nulla erit ultra spes» (Prov. 11. 7). Almeno potessero i dannati lusingarsi con qualche falsa speranza, e così trovare qualche sollievo alla loro disperazione. Quel povero impiagato, confinato in un letto, è stato già disperato da' medici di poter guarire; ma pure si lusinga, e si consola con dire: Chi sa se appresso si troverà qualche medico e qualche rimedio che mi sani. Quel misero condannato alla galea in3 vita anche si consola, dicendo: Chi sa che può succedere, e mi libero da queste catene. Almeno (dico) potesse il dannato dire similmente così, chi sa se un giorno uscirò da questa prigione; e così potesse ingannarsi almeno con questa falsa speranza. No, nell'inferno non v'è alcuna speranza né vera né falsa, non vi è «chi sa». «Statuam contra faciem» (Ps. 49. 21). Il misero si vedrà sempre innanzi agli occhi scritta la sua condanna, di dover sempre stare a piangere in quella fossa di pene: «Alii in vitam aeternam, et alii in opprobrium, ut videant semper» (Dan. 12. 2). Onde il dannato non solo patisce quel che patisce in ogni momento, ma soffre in ogni momento la pena dell'eternità, dicendo: Quel che ora patisco, io l'ho da patire per sempre. «Pondus aeternitatis sustinet», dice Tertulliano.4
    Preghiamo dunque il Signore, come pregava S. Agostino «Hic ure, hic seca, hic non parcas, ut in aeternum parcas». I castighi di questa vita passano. «Sagittae tuae transeunt, vox tonitrui tui in rota» (Ps. 76. 18). Ma i castighi dell'altra vita non passano mai. Di questi temiamo; temiamo di quel tuono («vox tonitrui tui in rota»), s'intende di quel tuono della condanna eterna, che uscirà dalla bocca del giudice nel giudizio contro i reprobi: «Discedite a me, maledicti, in ignem aeternum».6 E dice, «in rota»; la ruota è figura dell'eternità, a cui non si trova termine. «Eduxi gladium meum de vagina sua irrevocabilem» (Ez. 21. 5). Sarà grande il castigo dell'inferno, ma ciò che più dee atterrirci, è che sarà castigo irrevocabile.
    Ma come, dirà un miscredente, che giustizia è questa? castigare un peccato che dura un momento con una pena eterna? Ma come (io rispondo) può aver l'ardire un peccatore per un gusto d'un momento offendere un Dio d'infinita maestà? Anche nel giudizio umano (dice S. Tommaso, I. 2. q. 87. a. 3)7 la pena non si misura secondo la durazione del tempo, ma secondo la qualità del delitto: «Non quia homicidium in momento committitur, momentanea poena punitur». Ad un peccato mortale un inferno è poco: all'offesa d'una maestà infinita si dovrebbe un castigo infinito, dice S. Bernardino da Siena:8 «In omni peccato mortali infinita Deo contumelia irrogatur; infinitae autem iniuriae infinita debetur poena». Ma perché, dice l'Angelico9 la creatura non è capace di pena infinita nell'intensione, giustamente fa Dio che la sua pena sia infinita nella estensione.
    Oltreché questa pena dee esser necessariamente eterna, prima perché il dannato non può più soddisfare per la sua colpa. In questa vita intanto può soddisfare il peccator penitente, in quanto gli sono applicati i meriti di Gesu-Cristo; ma da questi meriti è escluso il dannato; onde non potendo egli placare più Dio, ed essendo eterno il suo peccato, eterna dee essere ancora la sua pena. «Non dabit Deo placationem suam, laborabit in aeternum» (Ps. 48. 8). Quindi dice il Belluacense (lib. 2. p. 3):10 «Culpa semper poterit ibi puniri, et nunquam poterit expiari»; poiché al dire di S. Antonino11 «ibi peccator poenitere non potest»;12 e perciò il Signore starà sempre con esso sdegnato. «Populus cui iratus est Dominus usque in aeternum» (Malach. 1. 4). Di più il dannato, benché Dio volesse perdonarlo, non vuol esser perdonato, perché la sua volontà è ostinata e confermata nell'odio contro Dio. Dice Innocenzo III:13 «Non humiliabuntur reprobi, sed malignitas odii in illis excrescet» (Lib. 3. de Cont. mundi c. 10). E S. Girolamo:14 «Insatiabiles sunt in desiderio peccandi» (In Proverb. 27). Ond'è che la piaga del dannato è disperata, mentre ricusa anche il guarirsi. «Factus est dolor eius perpetuus, et plaga desperabilis renuit curari» (Ier. 15. 18).15

    Affetti e preghiere.

    Dunque, mio Redentore, se a quest'ora io fossi dannato, siccome ho meritato, starei ostinato nell'odio contro di Voi, mio Dio, che siete morto per me? Oh Dio, e qual inferno sarebbe questo, odiare Voi che mi avete tanto amato, e siete una bellezza infinita, una bontà infinita, degna d'infinito amore! Dunque, se ora stessi nell'inferno, starei in uno stato sì infelice, che neppure vorrei il perdono ch'ora Voi m'offerite? Gesù mio, vi ringrazio della pietà che m'avete usata, e giacché ora posso essere perdonato, e posso amarvi, io voglio esser perdonato e voglio amarvi. Voi m'offerite il perdono, ed io ve lo domando, e lo spero per li meriti vostri. Io mi pento di tutte l'offese che v'ho fatte, o bontà infinita, e Voi perdonatemi. Io v'amo con tutta l'anima mia. Ah Signore, e che male Voi mi avete fatto, che avessi ad odiarvi come mio nemico per sempre? E quale amico ho avuto io mai, che ha fatto e patito per me, quel che avete fatto e patito Voi, o Gesù mio? Deh non permettete ch'io cada più in disgrazia vostra, e perda il vostro amore; fatemi prima morire, ch'abbia a succedermi questa somma ruina.
    O Maria, chiudetemi sotto il vostro manto, e non permettete ch'io n'esca più a ribellarmi contro Dio e contro Voi.
    1 [9.] Davide) Davidde VR BR1 BR2.
    2 [14.] EUSEBIUS EMISSENUS, Homil. de Epiphania, hom. 3; Opera, Parisiis 1575, f. 247: «Ardens inferni puteus aperietur, descensus erit, reditus non erit… Ideo autem dixit: Neque urgeat puteus super me os suum: quia cum susceperit reos claudetur sursum, et aperietur deorsum, dilatabitur in profundum, nullum spiramen, nullus liber anhelitus, claustris desuper urgentibus, relinquetur». Cfr. Maxima Bibl. Patrum, VI, Lugduni 1677, 655. Circa l'attribuzione di queste Omilie ad Eusebio Emisseno o ad Eusebio Gallicano, vedi PG 86, 287-291, 461-464.
    3 [24.] Meglio: a vita.
    4 [8.] NEPVEU F., Riflessioni cristiane, I, Venezia 1721, 26: «I dannati in ogni momento, dice Tertulliano, sostengono il peso di tuta l'eternità: Pondus aeternitatis sustinent». HOUDRY V., Bibl. concionatoria, Infernus, parag. VI; II, Venetiis 1764, 345: «Damnati quolibet momento, Tertullianus ait, totius aeternitatis sustinent pondus». Vedi pure [SARNELLI G.], La via facile e sicura del paradiso, I, Napoli 1738, 311. Cfr. TERTULLIANUS, Apologet., c. 48; PL 1, 527: «Tunc restituetur omne humanum genus ad expungendum quod in isto aevo boni seu mali meruit, et exinde pendendum in immensam aeternitatis perpetuitatem». CC I, 167-68.
    5 [10.] DREXELIUS, De aeternitate, cons. V, n. 3; Opera, I, Lugduni 1658, 15: «Hinc tam serio clamat et precatur Augustinus: Domine, hic ure, hic seca, modo in aeternum parcas». La frase è ripetuta da molti autori ascetici, ma in s. Agostino non si trova che l'idea: S. AUGUST., Enarrat. in Ps. XXXIII, sermo II, n. 20; PL 36, 319: «Ideo [Deus] videtur non exaudire, ut sanet et parcat in sempiternum». CC 38, 295. ID., Sermo 70, n. 2; PL 38, 443.
    6 [17.] Matth., 25, 41.
    7 [25.] S. THOMAS, Summa theol., I-II, q. 87, a. 3, ad I: «In nullo iudicio requiritur ut poena adaequetur culpae secundum durationem. Non enim quia adulterium vel homicidium in momento committitur, propter hoc momentanea poena punitur».
    8 [4.] S. BERNARDINUS SEN., Quadragesimale de Evang. aeterno, sermo XII, a. 2, c. 2; Opera, II, Venetiis 1745, 76: «In omni peccato mortali, infinita Deo contumelia irrogatur... Infinitae autem iniuriae vel contumeliae, infinita de iure debetur poena». Op. omnia, III, Ad Claras Aquas 1956, 237.
    9 [6.] S. THOMAS, Supplem. III partis, q. 99, a. I, c.: «Unde, cum non posset esse infinita poena per intensionem, quia creatura non est capax alicuius qualitati infinitae; requiritur quod sit saltem duratione infinita». Cfr. anche S. ANTONINUS, Summa theol., tit. V, c. 3; IV, Veronae 1740, col. 400: «Poena autem infinita non potest esse secundum intensionem, quia sic consumeret naturam; oportet ergo ut sit infinita secundum extensionem, id est, secundum durationem, ut sic poena respondeat culpae».
    10 [16.] V. BELLOVACENSIS, Spec. morale, l. II, p. 3, dist. 3; Venetiis 1591, 147, col. 3: «Quia culpa semper poterit ibi puniri, et numquam poterit expiari, sic nec in corpore poterunt tormenta finiri, nec corpus ipsum tormentis examinari».
    11 [17.] S. Antonino) S. Antonio, G. Antonelli (1833); S. Agostino, Marietti, (1846).
    12 [17.] S. ANTONINUS, op. cit., p. IV, tit. 14, c. 5, parag. II; IV, Veronae 1740, col. 792: «In vita praesenti habent etiam maximi peccatores subsidium multiplex a Deo praecipue per poenitentiam... Sed damnatus non dabit Deo placationem suam, in psal. XLVIII, quia poenitere non potest... In inferno quis confitebitur tibi? quasi diceret, nullus, ita nec contritio nec satisfactio». A proposito di questa citazione vedi Introduzione generale, Restituzione del Testo, 99-100.
    13 [1.] INNOCENTIUS III, De contemptu mundi, l. III, c. 10; PL 217, 741: «Non humiliabuntur reprobi iam desperati de venia, sed malignitas odii tantum in illis excrescet, ut velint illum omnino non esse, per quem sciunt se tam infeliciter esse».
    14 [3.] STRABUS W., Glossa ordinaria in Prov. XXVII, 20; PL 113, 1110 (cfr. Prol. 11, ss.): «Inferni tormenta non replentur, terminum accipiendo. Similiter et intentionem eorum qui terrena sapiunt, insatiabiles sunt in desiderio peccandi. Ideo enim sine fine puniuntur, quia voluntatem habuerunt sine fine peccandi, si naturam haberent sine fine vivendi».
    15 [5.] Ier., 15, 18: «Quare factus est dolor meus perpetuus, et plaga mea desperabilis renuit curari?»
    PUNTO III
    La morte in questa vita è la cosa più temuta da peccatori, ma nell'inferno sarà la più desiderata. «Quaerent mortem, et non invenient; et desiderabunt mori, et mors fugiet ab eis» (Apoc. 9. 6). Onde scrisse S. Girolamo:1 «O mors quam dulcis esses, quibus tam amara fuisti!» (Ap. S. Bon. Soliloq.). Dice Davide2 che la morte si pascerà de' dannati: «Mors depascet eos» (Psal. 48. 15). Spiega S. Bernardo3 che siccome la pecora pascendosi dell'erba, si ciba delle frondi, ma lascia le radici, così la morte si pasce de' dannati, gli uccide ogni momento, ma lascia loro la vita per continuare ad ucciderli colla pena in eterno: «Sicut animalia depascunt herbas, sed remanent radices; sic miseri in inferno corrodentur a morte, sed iterum reservabuntur ad poenas». Sicché dice S. Gregorio4 che il dannato muore ogni momento senza mai morire: «Flammis ultricibus traditus semper morietur» (Lib. Mor. c. 12). Se un uomo muore ucciso dal dolore, ognuno lo compatisce; almeno il dannato avesse chi lo compatisse. No, muore il misero per lo dolore ogni momento, ma non ha, né avrà mai chi lo compatisca. Zenone imperadore,5 chiuso in una fossa, gridava: Apritemi per pietà. Non fu da niuno inteso, onde fu ritrovato morto da disperato, poiché si avea mangiate le stesse carni delle sue braccia. Gridano i presciti dalla fossa dell'inferno, dice S. Cirillo Alessandrino,6 ma niuno viene a cacciarneli, e niuno ne ha compassione: «Lamentantur, et nullus eripit; plangunt et nemo compatitur».
    E questa loro miseria per quanto tempo durerà? per sempre, per sempre. Narrasi negli Esercizi spirituali del P. Segneri Iuniore (scritti dal Muratori)7 che in Roma essendo dimandato il demonio, che stava nel corpo d'un ossesso, per quanto tempo doveva star nell'inferno; rispose con rabbia, sbattendo la mano su d'una sedia: «Sempre, sempre». Fu tanto lo spavento, che molti giovani del Seminario Romano, che ivi si trovavano, si fecero una confessione generale, e mutarono vita a questa gran predica di due parole: «Sempre, sempre». Povero Giuda! son passati già mille e settecento anni che sta nell'inferno, e l'inferno suo ancora è da capo. Povero Caino! egli sta nel fuoco da cinque mila e 700 anni, e l'inferno suo è da capo. Fu interrogato un altro demonio,8 da quanto tempo era andato all'inferno, e rispose: «Ieri». Come ieri, gli fu detto, se tu sei dannato da cinque mila e più anni? Rispose di nuovo: Oh se sapessivo9 9a che viene a dire eternità, bene intendereste che cinque mila anni non sono a paragone neppure un momento. Se un angelo dicesse ad un dannato: Uscirai dall'inferno, ma quando son passati tanti secoli, quante sono le goccie dell'acqua, le frondi degli alberi e le arene del mare, il dannato farebbe più festa, che un mendico in aver la nuova10 d'esser fatto re. Sì, perché passeranno tutti questi secoli, si moltiplicheranno infinite volte, e l'inferno sempre sarà da capo. Ogni dannato farebbe questo patto con Dio: Signore, accrescete la pena mia quanto volete; fatela durare quanto vi piace; metteteci termine, e son contento. Ma no, che questo termine non vi sarà mai. La tromba della divina giustizia non altro suonerà nell'inferno che «sempre, sempre, mai, mai».
    Dimanderanno i dannati ai demoni: A che sta la notte? «Custos, quid de nocte?» (Is. 21. 11). Quando finisce? quando finiscono queste tenebre, queste grida, questa puzza, queste fiamme, questi tormenti? E loro è risposto: «Mai, mai». E quanto dureranno? «Sempre, sempre». Ah Signore, date luce a tanti ciechi, che pregati a non dannarsi, rispondono: All'ultimo, se vado all'inferno, pazienza. Oh Dio, essi non hanno pazienza di sentire un poco di freddo, di stare in una stanza troppo calda, di soffrire una percossa; e poi avranno pazienza di stare in un mar di fuoco, calpestati da' diavoli e abbandonati da Dio e da tutti per tutta l'eternità!

    Affetti e preghiere.

    Ah Padre delle misericordie, Voi non abbandonate chi vi cerca. «Non dereliquisti quaerentes te, Domine» (Psal. 9. 11). Io per lo passato vi ho voltate tante volte le spalle, e Voi non mi avete abbandonato: non mi abbandonate ora che vi cerco. Mi pento, o sommo bene, di aver fatto tanto poco conto della vostra grazia, che l'ho cambiata per niente. Guardate le piaghe del vostro Figlio, udite le sue voci, che vi pregano a perdonarmi, e perdonatemi. E Voi, mio Redentore, ricordatemi sempre le pene che avete patito per me,11 l'amore, che mi avete portato, e l'ingratitudine mia, per cui tante volte mi ho meritato l'inferno: acciocché io pianga sempre il torto che vi ho fatto, e viva sempre ardendo del vostro amore. Ah Gesù mio, come non arderò del vostro amore, pensando che da tanti anni dovrei ardere nell'inferno, e seguire ad ardere per tutta l'eternità, e che Voi siete morto per liberarmene, e con tanta pietà me ne avete liberato? Se fossi nell'inferno, ora vi odierei, e vi avrei da odiare per sempre; ma ora v'amo, e voglio amarvi per sempre. Così spero al12 sangue vostro. Voi mi amate, ed io ancora v'amo. Voi mi amerete sempre, se io13 non vi lascio. Ah mio Salvatore, salvatemi da questa disgrazia ch'io abbia a lasciarvi, e poi fatene di me quel che volete. Io merito ogni castigo, ed io l'accetto, acciocché mi liberiate dal castigo d'esser privo del vostro amore.
    O Maria rifugio mio, quante volte io stesso mi son condannato all'inferno, e Voi me ne avete liberato? Deh liberatemi ora dal peccato, che solo può privarmi della grazia di Dio e portarmi all'inferno.
    1 [5.] S. BONAVENTURA, Soliloquium, c. III; Opera, VII, Lugduni 1668, 118: «Ad districti ergo iudicis iustitiam pertinet, ut numquam careant supplicio, quorum mens in hac vita numquam voluit carere peccato. Hieronymus: O mors, quam dulcis esses quibus tam amara fuisti! Te solummodo desiderant, qui te vehementer odiebant». Nell'edizione critica del Soliloquium è stata soppressa l'attribuzione del testo a s. Girolamo: cfr. S. BONAVENTURA, Soliloquium, c. III, parag. 3; Opera, VIII, Ad Claras Aquas 1898, 54.
    2 [6.] Davide) Davidde VR BR1 BR2.
    3 [7.] S. BERNARDINUS SEN., Quadrag. de Evang. aeterno, sermo XI, art. III, c. 3, parag. 3; Opera, II, Venetiis 1745, 73: «Sicut enim animalia depascunt herbas, quia penitus non eradicant eas, sed remanent radices, unde iterum crescit herba: sic miseri in inferno corrodentur a morte, sed afflicti iterum reservabuntur ad poenas». Op. omnia, III, Ad Claras Aquas 1956, 227.
    4 [13.] S. GREGORIUS M., Moralia in Iob, l. XV, c. 17, n. 21; PL 75, 1092: «Damnati semper moriuntur numquam morte consumendi. Persolvit enim in tormento ea quae hic illicite servavit desideria; et, flammis ultricibus traditus, semper moritur, quia semper in morte servatur».
    5 [18.] BARONIUS C., Annales Ecclesiastici, an. 491, n. 1; VIII, Lucae 1741, 532: «Satellites porro, qui ad sepulcrum, in quo repositus fuit, custodiendum erant collocati, retulerunt se per duas noctes lamentabilem vocem audivisse ex sepulcro elatam: Miseremini et aperite mihi… Sed cum non aperirent, ferunt... inventum Zenonem, qui prae fame suos ipse lacertos mandiderat, et caligas quas portabat».
    6 [3.] S. CYRILLUS ALEX., Homilia 14, De exitu animi et de secundo adventu; PG 77, 1075, 1078: «Illic vae, vae perpetuo, illic eheu, illic vociferantur, nec est qui succurrat; clamant, nec ullus est qui liberet... Gemunt continenter et sine intermissione, sed nullus est qui misereatur… lamentantur, sed nullus est qui liberet. Exclamant, et plangunt, sed nullus est qui commoveatur».
    7 [8.] MURATORI L. A., Esercizi spirituali esposti secondo il metodo del P. Paolo Segneri iuniore, med. sopra l'inferno; Venezia 1739, 222: «Scongiurando in Roma un valente esorcista una persona indemoniata, e venendogli in pensiero, che quello spirito desse qualche buon avvertimento a gli astanti, l'interrogò dove stesse allora. Rispose: Nell'inferno. E per quanto tempo, replicò il religioso, hai tu da starvi? Ripugnò un pezzo il maligno: ma vinto dal comando proruppe in fine con voce miserabilissima in queste parole: Per sempre, per sempre, sbuffando, e battendo ogni volta le mani in terra con incredibil furia… Era ivi presente per curiosità gran numero di cavalieri, e d'altra gente; e tale spavento s'impresse in tutti, che tutti perderono la parola. Basta dire che molti andarono tosto a fare una confessione generale, ed alcuni migliorarono notabilmente la vita loro, mossi da quella gran predica fatta lor dal demonio in una sola parola: Per sempre».
    8 [17.] PEPE F., op. cit., I, Napoli 1756, 305: «Dimandato un demonio da quanto tempo era stato scacciato dal cielo. Ieri, rispose. Bugiardo, ripigliò l'esorcista. Se sapessi, che cosa è eternità, ripigliò il demonio, tutt'il tempo dalla creazione del mondo fino a questo punto lo riputeresti un'ora».
    9 [19.] sapessivo) sapeste VR BR1 BR2.
    9a [19.] Dialettismo: sapeste.
    10 [4.] nuova) nova NS7.
    11 [29.] sempre le pene che avete patito per me, rigo om. NS7.
    12 [3.] spero al) spero nel VR BR1 BR2.
    13 [4.] se io) s'io VR BR1 BR2.

    CONSIDERAZIONE XXVIII
    RIMORSI DEL DANNATO

    «Vermis eorum non moritur» (Marc. 9. 47).
    PUNTO I

    Per questo verme che non muore, spiega S. Tommaso1 che s'intende il rimorso di coscienza, dal quale eternamente sarà il dannato tormentato nell'inferno. Molti saranno i rimorsi2 con cui la coscienza roderà il cuore de' reprobi, ma tre saranno i rimorsi3 più tormentosi: il pensare al poco per cui si son dannati: al poco che dovean fare per salvarsi: e finalmente al gran bene che han perduto. Il primo rimorso4 dunque che avrà il dannato sarà il pensare per quanto poco s'è perduto. Dopo che Esaù ebbesi cibato di quella minestra di lenticchie, per cui avea5 venduta la sua primogenitura, dice la Scrittura che per lo dolore e rimorso della perdita fatta si pose ad urlare: «Irrugiit clamore magno» (Gen. 27. 34). Oh quali altri urli e ruggiti darà il dannato pensando che per poche soddisfazioni momentanee e avvelenate si ha perduto un regno eterno di contenti, e si ha da vedere eternamente condannato ad una continua morte! Onde piangerà assai più amaramente, che non piangeva Gionata, allorché videsi condannato a morte da Saulle suo padre, per essersi cibato d'un poco di mele.6 «Gustans gustavi paulum mellis, et ecce morior» (1. Reg. 14. 43). Oh Dio, e qual pena apporterà al dannato il vedere allora la causa della sua dannazione? Al presente che cosa a noi sembra la nostra vita passata, se non un sogno, un momento? Or che pareranno a chi sta nell'inferno quelli cinquanta, o sessanta anni di vita, che avrà vivuti in questa terra, quando si troverà7 nel fondo dell'eternità, in cui saranno già passati cento e mille milioni d'anni, e vedrà che la sua eternità allora comincia! Ma che dico cinquanta anni di vita? cinquanta anni tutti forse di gusti? e che forse il peccatore vivendo senza Dio, sempre gode ne' suoi peccati? quando durano i gusti del peccato? durano momenti; e tutto l'altro tempo per chi vive in disgrazia di Dio, è tempo di pene e8 di rancori. Or che pareranno quelli momenti di piaceri al povero dannato? e specialmente che parerà quell'uno ed ultimo peccato fatto, per lo quale s'è perduto? Dunque (dirà) per un misero gusto brutale ch'è durato un momento, e appena avuto è sparito come vento, io avrò da stare ad ardere in questo fuoco, disperato ed abbandonato da tutti, mentre Dio sarà Dio per tutta l'eternità!

    Affetti e preghiere.

    Signore, illuminatemi a conoscere l'ingiustizia che v'ho usata in offendervi, e 'l castigo eterno che con ciò mi ho meritato. Mio Dio, sento una gran pena di avervi offeso, ma questa pena mi consola; se Voi mi aveste mandato all'inferno, come io ho meritato, questo rimorso sarebbe l'inferno del mio inferno, pensando per quanto poco mi son dannato; ma ora questo rimorso (dico) mi consola, perché mi dà animo a sperare il perdono da Voi, che avete promesso di perdonare chi si pente. Sì, mio Signore, mi pento di avervi oltraggiato, abbraccio questa dolce pena, anzi vi prego ad accrescermela e a conservarmela sino alla morte, acciocché io9 pianga sempre amaramente i disgusti che v'ho dati. Gesù mio, perdonatemi; o mio Redentore, che per avere pietà di me, non avete avuta pietà di Voi, condannandovi a morire10 di dolore, per liberarmi dall'inferno, abbiate pietà di me. Fate dunque che il rimorso di avervi offeso mi tenga continuamente addolorato, e nello stesso tempo m'infiammi tutto d'amore verso di Voi, che tanto mi avete amato, e con tanta pazienza mi avete sofferto, ed ora invece di castighi, mi arricchite di lumi e di grazie; ve ne ringrazio, Gesù mio, e v'amo; v'amo più di me stesso, v'amo con tutt'il cuore. Voi non sapete disprezzare chi v'ama. Io v'amo, non mi discacciate dalla vostra faccia. Ricevetemi dunque nella vostra grazia, e non permettete ch'io v'abbia da perdere più. Maria Madre mia, accettatemi per vostro servo, e stringetemi a Gesù vostro Figlio. Pregatelo che mi perdoni, che mi doni il suo amore e la grazia della perseveranza sino alla morte.
    1 [5.] S. THOMAS, Suppl. III partis, q. 97, a. 2, c.: «Unde vermis qui in damnatis ponitur, non debet intelligi esse materialis, sed spiritualis qui est conscientiae remorsus: qui dicitur vermis, in quantum oritur ex putredine peccati et animam affligit, sicut corporalis vermis ex putredine ortus affligit pungendo».
    2 [7.] rimorsi) morsi VR BR1 BR2.
    3 [8.] rimorsi) morsi VR BR1 BR2.
    4 [10.] rimorso) morso VR BR1 BR2.
    5 [13.] avea) aveva VR BR1 BR2.
    6 [20.] Oggi miele.
    7 [26.] troverà) ritroverà VR BR1 BR2.
    8 [5.] e, om. VR.
    9 [22.] acciocché io) acciocch'io VR BR1.
    10 [25.] morire) morir VR BR1 BR2.

    PUNTO II

    Dice S. Tommaso1 che questa sarà la pena principale de' dannati, il vedere che si son perduti per niente, e che con tanta facilità poteano acquistarsi la gloria del paradiso, se voleano: «Principaliter dolebunt, quod pro nihilo damnati sunt, et facillime vitam poterant consequi sempiternam». Il secondo rimorso2 dunque della coscienza sarà il pensare al poco che dovean fare per salvarsi. Comparve a S. Umberto3 un dannato e gli disse che quest'appunto era la maggiore4 afflizione, che cruciavalo nell'inferno, il pensiero del poco per cui s'era dannato, e del poco che avrebbe avuto a fare per salvarsi. Dirà allora il misero: S'io mi mortificava a non guardare quell'oggetto, se vincea quel rispetto umano, se fuggiva quell'occasione, quel compagno, quella conversazione, non mi sarei dannato. Se mi fossi confessato ogni settimana, se avessi frequentata la Congregazione, se avessi letto ogni giorno quel libretto spirituale, se mi fossi raccomandato a Gesu-Cristo ed a Maria, non sarei ricaduto. Ho proposto tante volte di farlo, ma non l'ho eseguito; o pure l'ho cominciato a fare, e poi l'ho lasciato, e perciò mi son perduto.
    Accresceranno la pena di questo rimorso gli esempi, che avrà avuti degli altri suoi buoni amici e compagni; e più l'accresceranno i doni che Dio gli avea concessi per salvarsi: doni di natura, come buona sanità, beni di fortuna, talenti che 'l Signore gli avea dati affin di bene impiegarli, e farsi santo: doni poi di grazia, tanti lumi, ispirazioni, chiamate, e tanti anni conceduti a rimediare il mal fatto: ma vedrà che in questo stato miserabile, al quale è arrivato, non v'è più tempo da rimediare. Sentirà l'Angelo del Signore che grida e giura: «Et Angelus, quem vidi stantem, iuravit per viventem in saecula saeculorum... quia tempus non erit amplius» (Apoc. 10. 6). Oh che spade crudeli saranno tutte queste grazie ricevute al cuore del povero dannato, allorché vedrà esser finito già il tempo di poter più dar riparo alla sua eterna ruina. Dirà dunque piangendo cogli altri suoi compagni disperati: «Transiit messis, finita est aestas, et nos salvati non sumus» (Ier. 8. 20). Dirà: Oh se le fatiche che ho fatte per dannarmi, l'avessi spese per Dio, mi troverei fatto un gran santo; ed ora che me ne trovo, se non rimorsi e pene, che mi tormenteranno in eterno? Ah che questo pensiero crucierà il dannato più che il fuoco, e tutti gli altri tormenti dell'inferno; il dire: Io poteva essere per sempre felice, ed ora ho da essere per sempre infelice.

    Affetti e preghiere.

    Ah Gesù mio, e come avete potuto tanto sopportarmi? io tante volte v'ho voltate le spalle, e Voi non avete lasciato di venirmi appresso. Io tante volte vi ho offeso, e Voi mi avete perdonato; vi ho tornato ad offendere, e Voi avete ritornato a perdonarmi. Deh fatemi parte di quel dolore, che sentiste nell'orto di Getsemani de' peccati miei, che allora vi fecero sudar sangue. Mi pento, Redentor mio caro, di aver così malamente pagato il vostro Cuore.5 O gusti miei maledetti, vi detesto e maledico, voi mi avete fatta perdere la grazia del mio Signore. Amato mio Gesù, ora io v'amo sopra ogni cosa, rinunzio a tutte le soddisfazioni illecite e propongo prima di morir mille volte, che di offendervi più. Deh per quell'affetto con cui mi amaste sulla croce ed offeriste la vostra vita divina per me, datemi luce e forza di resistere alle tentazioni, e di ricorrere al vostro aiuto, quando sarò tentato.
    O Maria speranza mia, Voi tutto potete appresso Dio, impetratemi la santa perseveranza: ottenetemi ch'io più non mi divida dal suo santo amore.
    1 [5.] Forse trattasi di un testo sunteggiato: vedi S. THOMAS, Compendium Theologiae, c. 175; Opera, XVII, Romae 1570, opusc. II, f. 31, col. 3: «Dolent ergo mali quia peccata commiserunt, non propter hoc, quia peccata eis displiceant, quia etiam tunc mallent peccata illa committere, si facultas daretur, quam Deum habere... Sic igitur et voluntas eorum perpetuo manebit obstinata in malo, et tamen gravissime dolebunt de culpa commissa et de gloria amissa; et hic dolor vocatur remorsus conscientiae, qui metaphorice in Scripturis vermis nominatur, secundum illud Isaiae ultimmo 24: Vermis eorum non morietur». Cfr. Opuscula theol., op. I Compendium Theol., c. 175, n. 348; I, Taurini 1954, 82.
    2 [9.] rimorso) morso VR BR1 BR2.
    3 [10.] ROSIGNOLI C. G., Verità eterne, lez. VI, parag. 2; Bologna 1689, 114: «Ma che accade addur favole, se ne abbiamo la testimonianza addotta da B. Umberto, d'un dannato, che comparito in mesta gramaglia tutto affannato confessò che l'inferno del suo inferno era la rimembranza delle colpe commesse: d'aver perduto un regno eterno per brevissimo diletto: d'aver gittato in vanissime cure quel tempo, con un quarticello del quale avrebbe potuto con una buona confessione ottener la salute».
    4 [11.] maggiore) maggior VR.
    5 [30.] Cuore) amore ND1 VR ND3 BR1 BR2.

    PUNTO II

    Dice S. Tommaso1 che questa sarà la pena principale de' dannati, il vedere che si son perduti per niente, e che con tanta facilità poteano acquistarsi la gloria del paradiso, se voleano: «Principaliter dolebunt, quod pro nihilo damnati sunt, et facillime vitam poterant consequi sempiternam». Il secondo rimorso2 dunque della coscienza sarà il pensare al poco che dovean fare per salvarsi. Comparve a S. Umberto3 un dannato e gli disse che quest'appunto era la maggiore4 afflizione, che cruciavalo nell'inferno, il pensiero del poco per cui s'era dannato, e del poco che avrebbe avuto a fare per salvarsi. Dirà allora il misero: S'io mi mortificava a non guardare quell'oggetto, se vincea quel rispetto umano, se fuggiva quell'occasione, quel compagno, quella conversazione, non mi sarei dannato. Se mi fossi confessato ogni settimana, se avessi frequentata la Congregazione, se avessi letto ogni giorno quel libretto spirituale, se mi fossi raccomandato a Gesu-Cristo ed a Maria, non sarei ricaduto. Ho proposto tante volte di farlo, ma non l'ho eseguito; o pure l'ho cominciato a fare, e poi l'ho lasciato, e perciò mi son perduto.
    Accresceranno la pena di questo rimorso gli esempi, che avrà avuti degli altri suoi buoni amici e compagni; e più l'accresceranno i doni che Dio gli avea concessi per salvarsi: doni di natura, come buona sanità, beni di fortuna, talenti che 'l Signore gli avea dati affin di bene impiegarli, e farsi santo: doni poi di grazia, tanti lumi, ispirazioni, chiamate, e tanti anni conceduti a rimediare il mal fatto: ma vedrà che in questo stato miserabile, al quale è arrivato, non v'è più tempo da rimediare. Sentirà l'Angelo del Signore che grida e giura: «Et Angelus, quem vidi stantem, iuravit per viventem in saecula saeculorum... quia tempus non erit amplius» (Apoc. 10. 6). Oh che spade crudeli saranno tutte queste grazie ricevute al cuore del povero dannato, allorché vedrà esser finito già il tempo di poter più dar riparo alla sua eterna ruina. Dirà dunque piangendo cogli altri suoi compagni disperati: «Transiit messis, finita est aestas, et nos salvati non sumus» (Ier. 8. 20). Dirà: Oh se le fatiche che ho fatte per dannarmi, l'avessi spese per Dio, mi troverei fatto un gran santo; ed ora che me ne trovo, se non rimorsi e pene, che mi tormenteranno in eterno? Ah che questo pensiero crucierà il dannato più che il fuoco, e tutti gli altri tormenti dell'inferno; il dire: Io poteva essere per sempre felice, ed ora ho da essere per sempre infelice.



    Affetti e preghiere.

    Ah Gesù mio, e come avete potuto tanto sopportarmi? io tante volte v'ho voltate le spalle, e Voi non avete lasciato di venirmi appresso. Io tante volte vi ho offeso, e Voi mi avete perdonato; vi ho tornato ad offendere, e Voi avete ritornato a perdonarmi. Deh fatemi parte di quel dolore, che sentiste nell'orto di Getsemani de' peccati miei, che allora vi fecero sudar sangue. Mi pento, Redentor mio caro, di aver così malamente pagato il vostro Cuore.5 O gusti miei maledetti, vi detesto e maledico, voi mi avete fatta perdere la grazia del mio Signore. Amato mio Gesù, ora io v'amo sopra ogni cosa, rinunzio a tutte le soddisfazioni illecite e propongo prima di morir mille volte, che di offendervi più. Deh per quell'affetto con cui mi amaste sulla croce ed offeriste la vostra vita divina per me, datemi luce e forza di resistere alle tentazioni, e di ricorrere al vostro aiuto, quando sarò tentato.
    O Maria speranza mia, Voi tutto potete appresso Dio, impetratemi la santa perseveranza: ottenetemi ch'io più non mi divida dal suo santo amore.
    1 [5.] Forse trattasi di un testo sunteggiato: vedi S. THOMAS, Compendium Theologiae, c. 175; Opera, XVII, Romae 1570, opusc. II, f. 31, col. 3: «Dolent ergo mali quia peccata commiserunt, non propter hoc, quia peccata eis displiceant, quia etiam tunc mallent peccata illa committere, si facultas daretur, quam Deum habere... Sic igitur et voluntas eorum perpetuo manebit obstinata in malo, et tamen gravissime dolebunt de culpa commissa et de gloria amissa; et hic dolor vocatur remorsus conscientiae, qui metaphorice in Scripturis vermis nominatur, secundum illud Isaiae ultimmo 24: Vermis eorum non morietur». Cfr. Opuscula theol., op. I Compendium Theol., c. 175, n. 348; I, Taurini 1954, 82.
    2 [9.] rimorso) morso VR BR1 BR2.
    3 [10.] ROSIGNOLI C. G., Verità eterne, lez. VI, parag. 2; Bologna 1689, 114: «Ma che accade addur favole, se ne abbiamo la testimonianza addotta da B. Umberto, d'un dannato, che comparito in mesta gramaglia tutto affannato confessò che l'inferno del suo inferno era la rimembranza delle colpe commesse: d'aver perduto un regno eterno per brevissimo diletto: d'aver gittato in vanissime cure quel tempo, con un quarticello del quale avrebbe potuto con una buona confessione ottener la salute».
    4 [11.] maggiore) maggior VR.
    5 [30.] Cuore) amore ND1 VR ND3 BR1 BR2.

    SERMONE VIII. - PER LA DOMENICA III. DOPO L'EPIFANIA

    Rimorsi del dannato.

    Filii autem regni eiicientur in tenebras exteriores; ibi erit fletus et stridor dentium. (Matth. 8. 12.)

    Nel corrente evangelio si narra che essendo entrato Gesù Cristo in Cafarnao, venne a ritrovarlo il Centurione, ed a pregarlo che desse la sanità ad un suo servo paralitico che teneva in sua casa. Il Signore gli disse: Ego veniam et curabo eum. No, replicò il Centurione, non son degno io che voi entriate nella mia casa: basta che vogliate sanarlo, e il mio servo sarà sano. Ed il Salvatore vedendo la sua fede, in quel punto lo consolò rendendo la sanità al servo, e rivolto a' suoi discepoli disse loro: Multi ab oriente et occidente venient, et recumbent cum Abraham, Isaac et Iacob in regno coelorum; filii autem regni eiicientur in tenebras exteriores; ibi erit fletus et stridor dentium. E con ciò volle il Signore darci a sapere che molti nati fra gl'infedeli si salveranno coi santi, e molti nati nel grembo della santa chiesa anderanno all'inferno, ove il verme della coscienza coi suoi morsi li farà piangere amaramente per sempre. Vediamo i rimorsi che il cristiano dannato patirà nell'inferno:
    Rimorso I. Del poco che far dovea per salvarsi;
    Rimorso II. Del poco per cui si è dannato;
    Rimorso III. Del gran bene che ha perduto per sua colpa.

    RIMORSO I. Del poco che dovea fare per salvarsi.

    Un giorno apparve un dannato a sant'Uberto, e ciò appunto gli disse che due rimorsi erano i suoi carnefici più crudeli nell'inferno, il pensare al quanto poco gli toccava a fare in questa vita per salvarsi, ed al quanto poco era stato quello per cui si era dannato. Lo stesso scrisse poi s. Tomaso: Principaliter dolebunt quod pro nihilo damnati sunt, et facillime vitam poterant consequi sempiternam. Fermiamoci a considerare il primo rimorso, cioè quanto poche e brevi sono state le soddisfazioni, per le quali ogni dannato si è perduto. Dirà il misero: se io mi astenea da quel diletto, se vincea quel rispetto umano, se fuggiva quell'occasione, quel cattivo compagno, non mi sarei dannato. Se avessi frequentata la congregazione, se mi fossi confessato ogni settimana, se nelle tentazioni mi fossi raccomandato a Dio non sarei ricaduto. Ho proposto tante volte di farlo, ma poi non l'ho fatto: l'ho cominciato a fare, ma poi l'ho lasciato, e così mi son perduto.
    Crescerà il tormento di questo rimorso col ricordarsi il dannato i buoni esempi che avrà avuti d'altri giovani suoi pari, che anche in mezzo al mondo han menata una vita casta e divota. Crescerà poi maggiormente la pena colla memoria di tutti i doni che il Signore gli ha fatti, a fine di cooperarsi ad acquistare la salute eterna, doni di natura, buona sanità, beni di fortuna, buoni natali, buon talento; tutti doni da Dio a lui concessi, non per vivere tra i piaceri di terra o per sopraffare gli altri, ma per impiegarli a bene dell'anima sua e farsi santo: tanti doni poi di grazia, lumi divini, ispirazioni sante, chiamate amorose: di più tanti anni di vita datigli da Dio per rimediare al mal fatto. Ma udirà l'angelo del Signore, che gli fa sapere che per lui è terminato il tempo di salvarsi: Et angelus quem vidi stantem, iuravit per viventem in saecula saeculorum... quia tempus non erit amplius1.Oimè che spade crudeli saranno tutti questi beneficj ricevuti al cuore del povero dannato, quando vedrassi entrato già nella carcere dell'inferno, e vedrà che più non vi è tempo di far riparo alla sua eterna ruina! Dunque, dirà piangendo da disperato insieme cogli altri suoi infelici compagni: Transiit messis, finita est aestas, et nos salvati non sumus2. E passato, dirà, il tempo di raccoglier frutti per la vita eterna, è finita l'estate in cui potevamo salvarci; ma non ci siamo salvati, ed è venuto il verno, ma verno eterno, nel quale abbiamo da vivere infelici e disperati per sempre, finché Dio sarà Dio. Dirà inoltre il misero: oh pazzo che sono stato! Se le pene che ho sofferte per soddisfare i miei capricci, le avessi sofferte per Dio: se le fatiche che ho fatte per dannarmi, le avessi fatte per salvarmi, quanto ora me ne troverei contento! Ed ora che me ne trovo, se non rimorsi e pene che mi tormentano e mi tormenteranno per tutta l'eternità! Dunque, dirà finalmente, io poteva essere per sempre felice, ed ora ho da essere per sempre infelice! Ah che questo pensiero affliggerà il dannato più che il fuoco e tutti gli altri tormenti dell'inferno.

    RIMORSO II. Del poco per cui si è perduto.

    Il re Saule fece ordine, stando nel campo, che niuno sotto pena della vita si cibasse di alcuna cosa. Gionata suo figlio, essendo giovine e trovandosi con fame, si cibò di un poco di mele; onde il padre sapendolo volle che si eseguisse l'ordine dato, e il figlio fosse giustiziato. Il povero figlio, vedendosi già condannato a morte, piangeva dicendo: Gustans gustavi paullulum mellis, et ecce morior1. Ma tutto il popolo essendosi mosso a compassione di Gionata, si interpose col padre e lo liberò dalla morte. Per il povero dannato non vi è né vi sarà mai chi ne abbia compassione, e s'interponga con Dio per liberarlo dalla morte eterna dell'inferno; anzi tutti godranno della sua giusta pena, mentre egli per un breve piacere ha voluto perdere Dio ed il paradiso.Esaù dopo essersi cibato di quella minestra di lenticchie, per la quale avea venduta la sua primogenitura, dice la scrittura, che cruciato dal dolore e dal rimorso della perdita fatta si pose ad urlare: Irrugiit clamore magno2. Oh quali alti ruggiti ed urli darà il dannato pensando che per poche soddisfazioni avvelenate e momentanee ha perduto il regno eterno del paradiso, e ha da vedersi condannato in eterno ad una continua morte!
    Starà il disgraziato nell'inferno continuamente a considerare la causa infelice della sua dannazione. A noi che viviamo su questa terra, la vita passata non sembra che un momento ed un sogno. Oimè al dannato che parranno quei cinquanta o sessanta anni di vita che avrà menati nel mondo, quando si troverà nel fondo dell'eternità, e già saran passati per lui cento e mille milioni d'anni di pena, e vedrà che la sua eternità infelice è da capo e sarà sempre da capo! Ma che, forse quei cinquant'anni saranno stati per lui tutti pieni di piaceri? Forse il peccatore, vivendo in disgrazia di Dio, gode sempre ne' suoi peccati? Quanto durano i gusti del peccato? Durano momenti; e tutt'altro tempo, per chi vive lontano da Dio, è tempo di angustie e di pene. Or che pareranno quei momenti di piacere al povero dannato, quando si troverà già sepolto in quella fossa di fuoco? Quid profuit superbia, aut divitiarum iactantia? Transierunt omnia illa tamquam umbra3. Povero me, dirà egli, io sulla terra son vissuto a mio capriccio, mi ho prese le mie soddisfazioni, ma quelle a che mi han giovato? Elle han durato momenti, e mi han fatta fare una vita inquieta ed amara, ed ora mi tocca di stare ad ardere in questa fornace per sempre disperato ed abbandonato da tutti.

    RIMORSO III. Del gran bene che per sua colpa ha perduto.

    L'infelice principessa Lisabetta regina d'Inghilterra, accecata dalla passione di regnare, disse un giorno: «Mi dia il Signore quarant'anni di regno ed io gli rinunzio il paradiso». Ebbe già la misera questi quarant'anni di regno, ma ora ch'ella sta nell'altro mondo confinata all'inferno, certamente che non si troverà contenta di tal rinunzia fatta. Oh quanto si troverà afflitta, pensando che per quarant'anni di regno terreno, posseduto sempre tra le angustie, traversie e timori, ha perduto il regno eterno del cielo? Plus coelo torquetur, quam gehenna, scrisse s. Pier Grisologo; sono i miseri dannati più tormentati dalla perdita volontariamente da essi fatta del paradiso, che dalle stesse pene dell'inferno.
    La pena somma che fa l'inferno è l'aver perduto Dio, quel sommo bene che fa tutto il paradiso.Scrisse s. Brunone: Addantur tormenta tormentis, et Deo non priventur1. Si contenterebbero i dannati che si accrescessero mille inferni all'inferno che patiscono, e non restassero privi di Dio; ma questo sarà il loro inferno, il vedersi privati di Dio in eterno per loro propria colpa. Dicea s. Teresa che se uno perde per colpa propria anche una bagattella, una moneta, un anello di poco valore, pensando che l'ha perduta per sua trascuraggine molto si affligge e non trova pace: or qual pena sarà quella del dannato, in pensare che ha perduto un bene infinito, qual è Dio, e vedere che l' ha perduto per colpa propria!Vedrà che Iddio lo voleva salvo, ed avea posta in mano di lui l'elezione della vita o della morte eterna, secondo dice l'Ecclesiastico2: Ante hominem vita et mors... quod placuerit ei dabitur illi; sicché vedrà essere stato in mano sua il rendersi, se voleva, eternamente felice; e che egli di sua elezione ha voluto dannarsi. Vedrà nel giorno del giudizio tanti suoi compagni che si sono salvati, ma esso perché non ha voluto finirla, è andato a finirla nell'inferno. Ergo erravimus, dirà rivolto a' suoi compagni infelici dell'inferno, dunque l'abbiamo sbagliata, perdendo per nostra colpa il cielo e Dio; ed al nostro errore non vi è più rimedio. Questa pena gli farà dire: Non est pax ossibus meis a facie peccatorum meorum3. Ella sarà una pena interna intrinsecata nelle ossa, che non gli farà trovar mai riposo in eterno, in vedere che egli stesso è stata la causa della sua ruina; onde non avrà oggetto di maggiore orrore, che se medesimo, provando la pena minacciata dal Signore: Statuam te contra faciem tuam4.Fratello mio, se per lo passato ancora tu sei stato pazzo in voler perdere Dio per un gusto miserabile, non voler seguitare ad esser pazzo; procura di dar presto rimedio, or che puoi rimediare. Trema; chi sa se ora non ti risolvi a mutar vita, Dio ti abbandoni e resti perduto per sempre? Quando il demonio ti tenta ricordati dell'inferno, il pensiero dell'inferno ti libererà dall'inferno: ricordati, dico, dell'inferno, e ricorri a Gesù Cristo, ricorri a Maria ss. per aiuto, ed essi ti libereranno dal peccato che è la porta dell'inferno.

    Note

    1 Apoc. 10. 6.
    2 Ier. 9. 20.
    1 1. Reg. 14. 43.
    2 Gen. 27. 34.
    3 Sap. 5. 8. et 9.
    1 Serm. de iudic. fin.
    2 15. 18.
    3 Ps. 37. 4.
    4 Ps. 9. 11.

    S. Teresa d’Avila Dottore della Chiesa

    CAPITOLO 32

    In cui narra come il Signore l’abbia trasportata in spirito in un luogo dell’inferno che, per i suoi peccati, si era meritata. Di ciò che in esso vide dà solo un’idea, rispetto a quello che fu tale spettacolo. Comincia a raccontare come poté fondare il monastero di San Giuseppe, dove ora si trova.
    1. Passato molto tempo da quando il Signore mi aveva fatto già molte delle grazie suddette e anche altre, assai notevoli, mentre un giorno ero in orazione, mi sembrò di trovarmi ad un tratto tutta sprofondata nell’inferno, senza saper come. Capii che il Signore voleva farmi vedere il luogo che lì i demoni mi avevano preparato e che io avevo meritato per i miei peccati. Tale visione durò un brevissimo spazio di tempo, ma anche se vivessi molti anni, mi sembra che non potrei mai dimenticarla. L’entrata mi pareva come un vicolo assai lungo e stretto, come un forno molto basso, scuro e angusto; il suolo, una melma piena di sudiciume e di un odore pestilenziale in cui si muoveva una quantità di rettili schifosi. Nella parete di fondo vi era una cavità come di un armadietto incassato nel muro, dove mi sentii rinchiudere in un spazio assai ristretto. Ma tutto questo era uno spettacolo persino piacevole in confronto a quello che qui ebbi a soffrire. Ciò che ho detto, comunque, è mal descritto.
    2. Quello che sto per dire, però, mi pare che non si possa neanche tentare di descriverlo né si possa intendere: sentivo nell’anima un fuoco di tale violenza che io non so come poterlo riferire; il corpo era tormentato da così intollerabili dolori che, pur avendone sofferti in questa vita di assai gravi, anzi, a quanto dicono i medici, dei più gravi che in terra si possano soffrire – perché i miei nervi si erano tutti rattrappiti quando rimasi paralizzata, senza dire di molti altri di vario genere che ho avuto, alcuni dei quali, come ho detto, causati dal demonio – tutto è nulla in paragone di quello che ho sofferto lì allora, tanto più al pensiero che sarebbero stati tormenti senza fine e senza tregua. Eppure anche questo non era nulla in confronto al tormento dell’anima: un’oppressione, un’angoscia, una tristezza così profonda, un così accorato e disperato dolore, che non so come esprimerlo. Dire che è come un sentirsi continuamente strappare l’anima è poco, perché morendo, sembra che altri ponga fine alla nostra vita, ma qui è la stessa anima a farsi a pezzi. Non so proprio come descrivere quel fuoco interno e quella disperazione che esasperava così orribili tormenti e così gravi sofferenze. Non vedevo chi me li procurasse, ma mi pareva di sentirmi bruciare e dilacerare; ripeto, però, che il peggior supplizio era dato da quel fuoco e da quella disperazione interiore.
    3. Stavo in un luogo pestilenziale, senza alcuna speranza di conforto, senza la possibilità di sedermi e stendere le membra, chiusa com’ero in quella specie di buco nel muro. Le stesse pareti, orribili a vedersi, mi gravavano addosso dandomi un senso di soffocamento. Non c’era luce, ma tenebre fittissime. Io non capivo come potesse avvenire questo: che, pur non essendoci luce, si vedesse ugualmente ciò che poteva dar pena alla vista. Il Testi di Santi, Papi, Dottori della Chiesa e altri importanti autori.


    S. Alfonso de’Liguori

    Dall’ ”Apparecchio alla morte”

    CONSIDERAZIONE XXVI –
    DELLE PENE DELL'INFERNO

    «Et ibunt hi in supplicium aeternum» (Matth. 25. 46). -
    PUNTO I

    Due mali fa il peccatore, allorché pecca, lascia Dio sommo bene, e si rivolta alle creature: «Duo enim mala fecit populus meus, me dereliquerunt fontem aquae vivae, et foderunt sibi cisternas; cisternas dissipatas, quae continere non valent aquas» (Ier. 2. 13). Perché dunque il peccatore si volta alle creature con disgusto di Dio, giustamente nell'inferno sarà tormentato dalle stesse creature, dal fuoco e da' demonii, e questa è la pena del senso. Ma perché la sua colpa maggiore, dove consiste il peccato, è il voltare le spalle a Dio, perciò la pena principale che sarà nell'inferno, sarà la pena del danno. Ch'é1 la pena d'aver perduto Dio.
    Consideriamo prima la pena del senso. È di fede che vi è l'inferno. In mezzo alla terra vi è questa prigione riservata al castigo de' ribelli di Dio. Che cosa è questo inferno? è il luogo de' tormenti. «In hunc locum tormentorum», così chiamò l'inferno l'Epulone dannato (Luca 16. 28). Luogo di tormenti, dove tutti i sensi e le potenze del dannato hanno da avere il lor proprio tormento; e quanto più alcuno in un senso avrà offeso Dio, tanto più in quel senso avrà da esser tormentato: «Per quae peccat quis, per haec et torquetur» (Sap. 11. 17). «Quantum in deliciis fuit, tantum date illi tormentum» (Apoc. 18. 7).2 Sarà tormentata la vista colle tenebre. «Terram tenebrarum, et opertam mortis caligine» (Iob. 10. 21). Che compassione fa il sentire che un pover'uomo sta chiuso in una fossa oscura per mentre vive, per 40-50 anni di vita! L'inferno è una fossa chiusa da tutte le parti dove non entrerà mai raggio di sole o d'altra luce. «Usque in aeternum non videbit lumen» (Psal. 48. 20). Il fuoco che sulla terra illumina, nell'inferno sarà tutt'oscuro. «Vox Domini intercidentis flammam ignis» (Psal. 28. 7). Spiega S. Basilio Il Signore dividerà dal fuoco la luce, onde tal fuoco farà solamente l'officio di bruciare, ma non d'illuminare; e lo spiega più in breve Alberto Magno:4 «Dividet a calore splendorem». Lo stesso fumo che uscirà da questo fuoco, componerà quella procella di tenebre, di cui parla S. Giacomo, che accecherà gli occhi de' dannati: «Quibus procella tenebrarum servata est in aeternum» (Iac. 2. 13).5 Dice S. Tommaso (3. p. q. 97. n. 4),6 che a' dannati è riservato tanto di luce solamente, quanto basta a più tormentarli. «Quantum sufficit ad videndum illa, quae torquere possunt». Vedranno in quel barlume di luce la bruttezza degli altri reprobi e de' demoni, che prenderanno forme orrende per più spaventarli.
    Sarà tormentato l'odorato. Che pena sarebbe trovarsi chiuso in una stanza con un cadavere fracido? «De cadaveribus eorum ascendit foetor» (Is. 34. 3). Il dannato ha da stare in mezzo a tanti milioni d'altri dannati, vivi alla pena, ma cadaveri per la puzza che mandano. Dice S. Bonaventura7 che se un corpo d'un dannato fosse cacciato dall'inferno, basterebbe a far morire per la puzza tutti gli uomini. E poi dicono alcuni pazzi: Se vado all'inferno, non sono solo. Miseri! quanti più sono nell'inferno, tanto più penano. «Ibi (dice S. Tommaso)8 miserorum societas miseriam non minuet, sed augebit» (S. Thom. Suppl. q. 89. a. 1). Più penano (dico) per la puzza, per le grida e per la strettezza; poiché staran nell'inferno l'un sopra l'altro, come pecore ammucchiate in tempo d'inverno: «Sicut oves in inferno positi sunt» (Psal. 48. 15). Anzi più, staran come uve spremute sotto il torchio dell'ira di Dio. «Et ipse calcat torcular vini furoris irae Dei» (Apoc. 19. 15). Dal che ne avverrà poi la pena dell'immobilità. «Fiant immobiles quasi lapis» (Exod. 15. 16). Sicché il dannato siccome caderà nell'inferno nel giorno finale, così avrà da restare senza cambiare più sito e senza poter più muovere né un piede, né una mano, per mentre Dio sarà Dio.
    Sarà tormentato l'udito cogli urli continui e pianti di quei poveri disperati. I demonii faranno continui strepiti. «Sonitus terroris semper in aure eius» (Iob. 15. 21). Che pena è quando si vuol dormire e si sente un infermo che continuamente si lamenta, un cane che abbaia, o un fanciullo che piange? Miseri dannati, che han da sentire di continuo per tutta l'eternità quei rumori e le grida di quei tormentati! Sarà tormentata la gola colla fame; avrà il dannato una fame canina: «Famem patientur ut canes» (Psal. 58. 15). Ma non avrà mai una briciola di pane. Avrà poi una tale sete, che non gli basterebbe tutta l'acqua del mare; ma non ne avrà neppure una stilla: una stilla ne domandava l'Epulone,9 ma questa non l'ha avuta ancora, e non l'avrà mai, mai.

    Affetti e preghiere.

    Ah mio Signore, ecco a' piedi vostri chi ha fatto tanto poco conto della vostra grazia e de' vostri castighi. Povero me, se Voi, Gesù mio, non aveste avuto di me pietà, da quanti anni starei in quella fornace puzzolente, dove già vi stanno ad ardere tanti pari miei! Ah mio Redentore, come pensando a ciò non ardo del vostro amore? come potrò per l'avvenire pensare ad offendervi di nuovo! Ah non sia mai, Gesu-Cristo mio, fatemi prima mille volte morire. Giacché avete cominciato, compite l'opera. Voi mi avete cacciato dal lezzo di tanti miei peccati, e con tanto amore mi avete chiamato ad amarvi; deh fate ora che questo tempo che mi date, io lo spenda tutto per Voi. Quanto desidererebbero i dannati un giorno, un'ora del tempo che a me concedete; ed io che farò? seguirò a spenderlo in cose di vostro disgusto? No, Gesù mio, non lo permettete, per li meriti di quel sangue, che sinora m'ha liberato dall'inferno. V'amo, o sommo bene, e perché v'amo mi pento di avervi offeso; non voglio più offendervi, ma sempre amarvi.
    Regina e Madre mia Maria, pregate Gesù per me, ed ottenetemi il dono della perseveranza e del suo santo amore.
    1 [13.] danno. Ch'è) danno, ch'è BR2.
    2 [24.] Apoc., 18, 7: «Quantum glorificavit se et in deliciis fuit, tantum date illi tormentum et luctum».
    3 [1.] METAPHRASTES, Sermones 24 selecti, sermo 14 de futuro iudicio, n. 2; PG 32, 1299: «Ut cum duae sint in igne facultates, quarum una comburit, altera illustrat... adeo ut supplicii quidem ignis obscurus sit... cuius quidem lumen, iustorum oblectamento: urendi vero molestia, puniendorum tribuetur ultioni». Cfr. S. BASILIUS M., Hom. in Ps. 28, n. 6: PG 29, 298: «Quamquam… ignis consiliis humanis insecabilis ac individuus videtur esse, nihilominus tamen Dei iussu interciditur ac dividitur…, adeo ut supplicii quidem ignis obscurus sit; lux vero requietis, vi careat comburendi». IDEM, Hom. in Ps. 33, n. 8; PG 29, 371: «Postea animo tibi fingas barathrum profundum, tenebras inextricabiles, ignem splendoris expertem, vim quidem urendi in tenebris habentem, sed luce destitutum».
    4 [3.] S. ALBERTUS M., Summa theologica, p. II, q. 12, membrum 2; Opera, XVIII, Lugduni 1651, 85, col. 2: «Unde Basilius etiam dicit super illud Ps. 18: Vox Domini intercidentis flammam ignis, quod in die iudicii lumen quod est in igne, ascendet ad locum beatorum: et ardor fuliginosus descendet ad locum damnatorum: et sic vox Domini sive praeceptum intercidit flammam ignis».
    5 [7.] Iud., 13, non Iac., 2, 13: «Iudicium enim sine misericordia illi, qui non fecit misericordiam».
    6 [7.] S. THOMAS, Suppl. III partis Summae theol., q. 97, a. 4, c.: «Unde simpliciter loquendo locus est tenebrosus; se tamen ex divina dispositione est ibi aliquid luminis, quantum sufficit ad videndum illa quae animam torquere possunt».
    7 [16.] Il testo è comune tra gli autori spirituali, che mai indicano il luogo preciso di s. Bonaventura: BESSEUS P., Conciones... super quatuor novissima. De inferno, concio 4; Venetiis 1617, 472: «Unde Isaias (XXXIV, 3): De cadaveribus eorum ascendet foetor; at tam enormis et pestilens, ut Bonaventura dicere ausus sit mundum universum confestim lue inficiendum, si vel unius damnati corpus in eum inferretur». DREXELIUS, Infermus damnatorum carcer et rogus, c. V, par. 2, Lugduni 1658, 156, col. 2: «Divus Bonaventura ausus est dicere: Si vel unius damnati cadaver in orbe hoc nostro sit, orbem totum ab eo inficiendum». ROSIGNOLI C. G., Verità eterne, lez. VI, parag. I: Bologna 1689, 105-106: «Più ebbe a dire S.
    Bonaventura che se il cadavere d'un dannato fosse tratto dall'inferno, e riposto sopra la superficie della terra ad esalare il suo lezzo, basterebbe ad appestare tutta la terra». Vedi anche SPANNER, op. cit., I, Venetiis 1709, 431.
    8 [3.] S. THOMAS, Suppl. III partis Summae theol., q. 89, a. 4, c.: «Nec ob hoc minuitur aliquid de daemonum poena, quia in hoc etiam quod alios torquent, ipsi torquebuntur: ibi enim miserorum societas miseriam non minuet, sed augebit».
    9 [25.] Luc., 16, 24: «Mitte Lazarum, ut intingat extremum digiti sui in aquam, ut refrigeret linguam meam, quia crucior in hac flamma».

    PUNTO II.

    La pena poi che più tormenta il senso del dannato, è il fuoco del l'inferno, che tormenta il tatto. «Vindicta carnis impii ignis, et vermis» (Eccli. 7. 19). Che perciò il Signore nel giudizio ne fa special menzione: «Discedite a me, maledicti, in ignem aeternum» (Matth. 41).1 Anche in questa terra la pena del fuoco è la maggior2 di tutte; ma vi è tanta differenza dal fuoco nostro a quello dell'inferno, che dice S. Agostino3 che 'l nostro sembra dipinto. «In eius comparatione noster hic ignis depictus est». E S. Vincenzo Ferreri dice che a confronto il nostro4 è freddo. La ragione è,5 perché il fuoco nostro è creato per nostro utile, ma il fuoco dell'inferno è creato da Dio a posta per tormentare. «Longe alius (dice Tertulliano)6 est ignis, qui usui humano, alius qui Dei iustitiae deservit». Lo sdegno di Dio accende questo fuoco vendicatore. «Ignis succensus est in furore meo» (Ier. 15. 14). Quindi da Isaia il fuoco dell'inferno è chiamato spirito d'ardore: «Si abluerit Dominus sordes... in spiritu ardoris» (Is. 4).7 Il dannato sarà mandato non al fuoco, ma nel fuoco: «Discedite a me, maledicti, in ignem aeternum». Sicché il misero sarà circondato dal fuoco, come un legno dentro una fornace. Si troverà il dannato con un abisso di fuoco da sotto,8 un abisso di sopra, e un abisso d'intorno. Se tocca, se vede, se respira; non tocca, non vede, né respira altro che fuoco. Starà nel fuoco come il pesce nell'acqua. Ma questo fuoco non solamente starà d'intorno al dannato, ma entrerà anche dentro le sue viscere a tormentarlo. Il suo corpo diventerà tutto di fuoco, sicché bruceranno le viscere dentro del ventre, il cuore dentro del petto, le cervella dentro il capo, il sangue dentro le vene, anche le midolla dentro l'ossa: ogni dannato diventerà in se stesso una fornace di fuoco. «Pone eos ut clibanum ignis» (Ps. 20. 10). Taluni non possono soffrire di camminare per una via battuta dal sole, di stare in una stanza chiusa con una braciera,9 non soffrire una scintilla, che svola da una candela; e poi non temono quel fuoco, che divora, come dice Isaia:
    «Quis poterit habitare de vobis cum igne devorante?» (Is. 33. 14). Siccome una fiera divora un capretto, così il fuoco dell'inferno divora il dannato; lo divora, ma senza farlo mai morire. Siegui pazzo, dice S. Pier Damiani10 (parlando al disonesto), siegui11 a contentare la tua carne, che verrà un giorno in cui le tue disonestà diventeranno tutte pece nelle tue viscere, che farà più grande e più tormentosa la fiamma che ti brucerà nell'inferno: «Venit dies, imo nox, quando libido tua vertetur in picem, qua se nutriat perpetuus ignis in tuis visceribus» (S. P. Dam. Epist. 6). Aggiunge S. Girolamo (Epist. ad Pam.)12 che questo fuoco porterà seco tutti i tormenti e dolori che si patiscono in questa terra; dolori di fianco e di testa, di viscere, di nervi: «In uno igne omnia supplicia sentiunt in inferno peccatores». In questo fuoco vi sarà anche la pena del freddo. «Ad nimium calorem transeat ab aquis nivium» (Iob. 24. 19). Ma sempre bisogna intendere che tutte le pene di questa terra sono un'ombra, come dice il Grisostomo,13 a paragone delle pene dell'inferno: «Pone ignem, pone ferrum, quid, nisi umbra ad illa tormenta?»Le potenze anche avranno il lor proprio tormento. Il dannato sarà tormentato nella memoria, col ricordarsi del tempo che ha avuto in questa vita per salvarsi, e l'ha speso per dannarsi; e delle grazie che ha ricevute da Dio, e non se ne ha voluto servire. Nell'intelletto, col pensare al gran bene che ha perduto, paradiso e Dio; e che a questa perdita non vi è più rimedio. Nella volontà, in vedere che gli sarà negata sempre ogni cosa che domanda. «Desiderium peccatorum peribit» (Ps. 111. 10). Il misero non avrà mai niente di quel che desidera, ed avrà sempre tutto quello che abborrisce, che saranno le sue pene eterne. Vorrebbe uscir da' tormenti, e trovar pace, ma sarà sempre tormentato, e non avrà mai pace.
    Affetti e preghiere.

    Ah Gesù mio, il vostro sangue e la vostra morte sono la speranza mia. Voi siete morto, per liberare me dalla morte eterna. Ah Signore, e chi più ha partecipato de' meriti della vostra passione, che io miserabile, il quale tante volte mi ho meritato l'inferno? Deh non mi fate vivere più ingrato a tante grazie che mi avete fatte. Voi m'avete liberato dal fuoco dell'inferno, perché non volete ch'io arda in quel fuoco di tormento, ma arda del dolce fuoco dell'amor vostro. Aiutatemi dunque, acciocché io possa compiacere il vostro desiderio. Se ora stessi nell'inferno, non vi potrei più amare; ma giacché posso amarvi, io vi voglio amare. V'amo bontà infinita, v'amo mio Redentore, che tanto mi avete amato. Come ho potuto vivere tanto tempo scordato di Voi! Vi ringrazio che Voi non vi siete scordato di me. Se di me vi foste scordato, o starei al presente nell'inferno, o non avrei dolore de' miei peccati. Questo dolore che mi sento nel cuore di avervi offeso, questo desiderio che provo di amarvi assai, son doni della vostra grazia, che ancora mi assiste. Ve ne ringrazio, Gesù mio. Spero per l'avvenire di dare a Voi la vita che mi resta. Rinunzio a tutto. Voglio solo pensare a servirvi e darvi gusto. Ricordatemi sempre l'inferno che mi ho meritato, e le grazie che mi avete fatte; e non permettete ch'io abbia un'altra volta a voltarvi le spalle, ed a condannarmi da me stesso a questa fossa di tormenti.
    O Madre di Dio, pregate per me peccatore. La vostra intercessione m'ha liberato dall'inferno, con questa ancora liberatemi, o Madre mia, dal peccato, che solo può condannarmi di nuovo all'inferno.
    1 [21.] Matth., 25, 41.
    2 [22.] maggior) maggiore VR BR1 BR2.
    3 [24.] V. BELLOVACENSIS, Spec. morale, l. II, p. 3, dist. 2, Venetiis 1591, f. 146, col. 4: «Augustinus de Civ. Dei... Item ignis iste ad comparationem illius non est nisi quasi umbra vel pictura». DREXELIUS, op. cit., c. VI, parag. I; Lugduni 1658, 159, col. 2: «Noster ignis Augustino pictus videtur, sed ille alter, verus». GISOLFO P., op. cit., p. I, disc. 17; II, Roma 1694, 506: «E 'l fuoco infernale ha tanta maggior attività, ha tanto più intenso ardore, che afferma S. Agostino, esservi quella differenza tra l'uno e l'altro fuoco, quale appunto è co 'l fuoco dipinto in un quadro, e tra il fuoco vero materiale: In cuius comparatione noster hic ignis depictus est: S. August., tom. 10, serm. 181 de tempore, fol. 691». Cfr. S. AUGUST., Enarratio in Ps. XLIX, n. 7; PL 36, 569: «Non erit iste ignis sicut focus tuus, quo tamen si manum mittere cogaris, facies quidquid voluerit qui hoc minatur». Cfr. CC 38, 580-81.
    4 [2.] il nostro) del nostro ND1 VR ND3 BR1 NS7: lo sbaglio è evidente pel controsenso che ne risulta; seguiamo la lezione più corretta «il» che si trova in BR2.
    5 [2.] Pare che s. Alfonso riferisca a senso il pensiero del Ferreri che sovente parla del fuoco infernale «intolerabilis» ed «inextinguibilis»: vedi VINCENTIUS FERRERI, Sermones hiemales, Venetiis 1573, 377; Sermones aestivales, Venetiis 1573, 195, 230, 472, 478; Sermones de Sanctis, Coloniae Agrippinae 1675, 560-61, ecc. Nei Sermoni compendiati, serm. X, n. 5; Napoli 1771, 40 s. Alfonso attribuisce la stessa idea a s. Anselmo.
    6 [4.] GISOLFO P., op. cit., disc. 17, 501: «Altro è il fuoco, che serve ad uso, e alle comodità degli uomini, dice Tertulliano, e altro è il fuoco, che serve alla divina giustizia: Longe alius est ignis, qui usui humano, alius qui Dei iustitiae deservit». Cfr. TERTULLIANUS, Apologeticus, c. 48; PL I, 527-528: «Noverunt philosophi diversitatem arcani et publici ignis. Ita longe alius est qui usui humano, alius qui iudicio Dei apparet… Et hoc erit testimonium ignis aeterni, hoc exemplum iusti iudicii poenam nutrientis. Montes uruntur et durant: quid nocentes et Dei hostes?» Cfr. CC I, 168.
    7 [8.] Is., 4, 4: «Si abluerit Dominus sordes filiarum Sion, et sanguinem Ierusalem laverit de medio eius, in spiritu iudicii et spiritu ardoris.»
    8 [12.] da sotto) di sotto VR BR1 BR2.
    9 [22.] un braciere.
    10 [4.] S. PETRUS DAMIANUS, De caelibatu sacerdotum, c. III; PL 145, 385: «Veniet profecto dies, imo nox, quando libido ista tua vertatur in picem, qua se perpetuus ignis in tuis visceribus inextinguibiliter nutriat, et medullas tuas simul et ossa indefectiva conflagratione depascat».
    11 [4.] Segui.
    12 [9.] MANSI, Bibliotheca mor. praedic., tr. 34, disc. 7; II, Venetiis 1703, 614 col. 2: «Siquidem in uno igne omnia supplicia sentiunt in inferno peccatores, ut inquit Hieronymus (Ep. I ad Pammach.)». Tra altri anche SEGNERI P., Cristiano Istruito, p. II, ragion. XVIII; Opere, III, Venezia 1742, 165, col. I, attribuisce con la stessa citazione a s. Girolamo il testo, che però manca nelle lettere genuine.
    13 [16.] GISOLFO P., op. cit., disc. XV; I, 437: «Onde S. Giovan Crisostomo: Pone, si libet, ignem, ferrum et bestias, et si quid his difficilius: attamen nec umbra sunt haec ad inferni tormenta». Cfr. CHRYS., In epist. ad Rom., hom. 31, n. 5; PG 60, 674: «Quid enim mihi grave dicere possis? Paupertatem, morbum, captivitatem, mutilationem corporis. Verum illa omnia risu sunt digna si cum supplicio illo [inferni] comparentur».

    PUNTO III

    Ma tutte queste pene son niente a rispetto della pena del danno. Non fanno l'inferno le tenebre, la puzza, le grida e 'l fuoco; la pena che fa l'inferno è la pena di aver perduto Dio. Dice S. Brunone:1 «Addantur tormenta tormentis, ac Deo non priventur» (Serm. de Iud. fin.). E S. Gio. Grisostomo:2 «Si mille dixeris gehennas, nihil par dices illius doloris» (Hom. 49. ad Pop.). Ed aggiunge S. Agostino3 che se i dannati godessero la vista di Dio, «nullam poenam sentirent, et infernus ipse verteretur in paradisum» (S. Aug. to. 9. de Tripl. hab.). Per intendere qualche cosa di questa pena, si consideri che se taluno perde (per esempio) una gemma, che valea 100 scudi, sente gran pena, ma se valea 200 sente doppia pena: se 400 più pena. In somma quanto cresce il valore della cosa perduta, tanto cresce la pena. Il dannato qual bene ha perduto? un bene infinito, ch'è Dio; onde dice S. Tommaso4 che sente una pena in certo modo infinita: «Poena damnati est infinita, quia est amissio boni infiniti» (D. Th. 1. 2. q. 87. a. 4).
    Questa pena ora solo si teme da' santi. «Haec amantibus, non contemnentibus poena est», dice S. Agostino.5 S. Ignazio di Loiola dicea:6 Signore, ogni pena sopporto, ma questa no, di star privo di Voi. Ma questa pena niente si apprende da' peccatori, che si contentano di vivere i mesi e gli anni senza Dio, perché i miseri vivono fra le tenebre. In morte non però han da conoscere il gran bene che perdono. L'anima in uscire da questa vita, come dice S. Antonino,7 subito intende ch'ella è creata per Dio: «Separata autem anima a corpore intelligit Deum summum bonum et ad illud esse creatam». Onde subito si slancia per andare ad abbracciarsi col suo sommo bene; ma stando in peccato, sarà da Dio discacciata. Se un cane vede la lepre, ed uno lo tiene con una catena, che forza fa il cane per romper la catena ed andare a pigliar la preda? L'anima in separarsi dal corpo, naturalmente è tirata a Dio, ma il peccato la divide da Dio, e la manda lontana all'inferno. «Iniquitates vestrae diviserunt inter vos, et Deum vestrum» (Is. 59. 2). Tutto l'inferno dunque consiste in quella prima parola della condanna: «Discedite a me, maledicti». Andate, dirà Gesu-Cristo, non voglio che vediate più la mia faccia. «Si mille quis ponat gehennas, nihil tale dicturus est, quale est exosum esse Christo» (Chrysost. hom. 24. in Matth.).8 Allorché Davide9 condannò Assalonne a non comparirgli più davanti, fu tale questa pena ad Assalonne che rispose: Dite a mio padre, che o mi permetta di vedere la sua faccia o mi dia la morte (2. Reg. 14. 24).10 Filippo II11 ad un grande che vide stare irriverente in chiesa, gli disse: Non mi comparite più davanti. Fu tanta la pena di quel grande, che giunto alla casa se ne morì di dolore. Che sarà, quando Dio in morte intimerà al reprobo: Va via che io non voglio vederti più. «Abscondam faciem ab eo, et invenient eum omnia mala» (Deut. 31. 17). Voi (dirà Gesù a' dannati nel giorno finale) non siete più miei, io non sono più vostro. «Voca nomen eius, non populus meus, quia vos non populus meus, et ego non ero vester» (Osea 1. 9). Che pena è ad un figlio, a cui gli muore il padre, o ad una moglie quando le muore lo sposo, il dire: Padre mio, sposo mio, non t'ho da vedere più. Ah se ora udissimo un'anima dannata che piange, e le chiedessimo: Anima, perché piangi tanto? Questo solo ella risponderebbe: Piango, perché ho perduto Dio, e non l'ho da vedere più. Almeno potesse la misera nell'inferno amare il suo Dio, e rassegnarsi alla sua volontà. Ma no; se potesse ciò fare, l'inferno non sarebbe inferno; l'infelice non può rassegnarsi alla volontà di Dio, perché è fatta nemica della divina volontà. Né può amare più il suo Dio, ma l'odia e l'odierà per sempre; e questo sarà il suo inferno, il conoscere che Dio è un bene sommo e il vedersi poi costretto ad odiarlo, nello stesso tempo che lo conosce degno d'infinito amore. «Ego sum ille nequam privatus amore Dei», così rispose quel demonio, interrogato chi fosse da S. Caterina da Genova.12 Il dannato odierà e maledirà Dio, e maledicendo Dio, maledirà anche i beneficii che gli ha fatti, la creazione, la redenzione, i sagramenti, specialmente del battesimo e della penitenza, e sopra tutto il SS. Sagramento dell'altare. Odierà tutti gli angeli e santi ma specialmente l'angelo suo custode e i santi suoi avvocati, e più di tutti la divina Madre; ma principalmente maledirà le tre divine Persone, e fra queste singolarmente il Figlio di Dio, che un giorno è morto per la di lei salute, maledicendo le sue piaghe, il suo sangue, le sue pene e la sua morte.

    Affetti e preghiere.

    Ah mio Dio, Voi dunque siete il mio sommo bene, bene infinito, ed io volontariamente tante volte v'ho perduto. Sapeva io già che col mio peccato vi da un gran disgusto, e che perdeva la vostra grazia, e l'ho fatto? Ah che se non vi vedessi trafitto in croce, o Figlio di Dio, morire per me, non avrei più animo di cercarvi13 e di sperare da Voi perdono. Eterno Padre, non guardate me, guardate questo amato Figlio, che vi cerca14 per me pietà; esauditelo, e perdonatemi. A quest'ora dovrei star nell'inferno da tanti anni senza speranza di potervi più amare, e di ricuperare la vostra grazia perduta. Dio mio, mi pento sopra ogni male di quest'ingiuria che v'ho fatta, di rinunziare alla vostr'amicizia e di disprezzare il vostro amore per li gusti miserabili di questa terra. Oh fossi morto prima mille volte! Come ho potuto essere così cieco e così pazzo! Vi ringrazio, Signor mio, che mi date tempo di poter rimediare al mal fatto. Giacché per misericordia vostra sto fuori dell'inferno, e vi posso amare, Dio mio, vi voglio amare. Non voglio più differire di convertirmi tutto a Voi. V'amo bontà infinita, v'amo15 mia vita, mio tesoro, mio amore, mio tutto. Ricordatemi sempre, o Signore, l'amore che mi avete portato, e l'inferno dove dovrei stare; acciocché questo pensiero mi accenda sempre a farvi atti d'amore e a dirvi sempre: io v'amo, io v'amo, io v'amo.
    O Maria Regina, speranza e Madre mia, se stessi nell'inferno, neppure potrei amar più Voi. V'amo Madre mia, e a Voi confido di non lasciare più d'amar Voi e 'l mio Dio. Aiutatemi, pregate Gesù per me.
    1 [31.] MANSI, op. cit., tr. 34, disc. 22; II, 646, col. 2: «Sanctus tamen Bruno in sermone de Iudicio finali, longe clarioribus verbis hanc ipsam confirmat veritatem, dicens: Addantur
    tormenta tormentis, et poenae poenis; saeviant saevius ministri; at Deo non privemur».
    2 [2.] DREXELIUS, Infernus damnatorum, c. II, parag. 2; Opera, I, Lugduni 1658, 148, col. 2: «Hic attonitus Chrysostomus: Nam si mille, ait, dixeris gehennas, nihil illius par dices doloris, quem sustinet anima. Intolerabilis gehenna est, confiteor, et multum intolerabilis, tamen intolerabilior haec regni amissio». Cfr. CHRYSOST., In ep. ad Philipp., c. IV, hom. 14, n. 4; PG 62, 280: «Si sexcentas gehennas attuleris, nihil par afferes dolori illi, quo tunc angitur anima, cum universus quatitur orbis... Intolerabilis res est gehenna, fateor, et valde quidem intolerabilis; attamen intolerabilius mihi videtur de regno cecidisse».
    3 [3.] Ps. AUGUSTINUS, De triplici habitaculo, l. unus, c. 4; PL 40, 995: «Cuius faciem si omnes carcere inferni inclusi viderent, nullam poenam, nullum dolorem nullamque tristitiam sentirent; cuius praesentia, si in inferno cum sanctis habitatoribus appareret, continuo infernus in amoenum converteretur paradisum». È in Appendice delle opere di s. Agostino, ma non è autentico (cfr. Glorieux, 28).
    4 [10.] S. THOMAS, Summa theol., I-II, q. 87, a. 4, c.: «Ex parte igitur aversionis, respondet peccato poena damni, quae etiam est infinita: est einm amissio infiniti boni, scilicet Dei».
    5 [14.] S. AUGUST., Enarrat. in Ps. XLIX, n. 7; PL 36, 569: «Si non veniret ignis die iudicii, et sola peccatoribus immineret separatio a facie Dei, in qualibet essent affluentia deliciarum, non videntes a quo creati sunt, et separati ab illa dulcedine ineffabili vultus eius, in qualibet aeternitate et impunitate peccati, plangere se deberent. Sed quid loquor, aut quibus loquor? Haec amantibus poena est, non contemnentibus». Cfr. CC 38, 580.
    6 [14.] ORLANDINI, Historia Societatis Iesu, l. X, nn. 55-62; Romae 1615, 318.
    7 [2.] S. ANTONINUS, Summa theol., p. I, tit. V, c. 3, parag. 3; Veronae 1740, col. 402: «Quum anima separatur a corpore, sibi subito infunduntur species omnium rerum naturalium… Et sic cognoscens quod Deus est summum bonum et summe utilis animae, videns se eo privatum sua miseria, quum capax fuerit adquirendi, summe dolet».
    8 [15.] CHRYSOST., In Matthaeum, hom. 23 (al. 24), n. 8; PG 57, 317: «Intolerabilis quippe est illa gehenna illaque poena. Attamen licet mille quis gehennas proposuerit, nihil tale dicturus est, quale est ex beata illa excidere gloria, Christo exosum esse, audire ab illo: Non novi vos».
    9 [15.] Davide) Davidde VR BR1 BR2.
    10 [18.] II Reg., 14, 32.
    11 [18.] SINISCALCHI L., La scienza della salute, med. V, punto 2; Padova 1773, 136: «Due cavalieri in Ispagna tosto che udirono dal re Filippo II in pena della poca compostezza, con cui stavano in chiesa: Non mi comparite più innanzi, tornati a casa ne morirono per la doglia».
    12 [14.] PEPE F., Discorsi in lode di Maria SS. per tutti i sabbati dell'anno, II, Napoli 1756, 228: «Dimandato un demonio dalla B. Catarina da Genova chi egli si fusse. Dopo un profondo sospiro, rispose: Sono un infelice spirito senza amor di Dio». Alquanto diversamente racconta il fatto ROSIGNOLI C. G., Verità eterne, Bologna 1689, 325: «Imperocché, scongiurandosi un demonio dell'inferno nel corpo di un'energumena, e costretto dal sacerdote cogli esorcismi, a manifestare il suo nome disse con voce lacrimevole: Ego sum ille nequam privatus amore Dei. Io son lo scelerato privo dell'amor di Dio. Alle quali parole la B. Caterina di Genova ivi presente tanto s'inorridì, che come percossa da un fulmine esclamò: Oh orribile miseria, esser privo dell'amor di Dio! Oh inferno degl'inferni, esser privo dell'amor di Dio». Cfr. MARABOTTO, Vita ammirabile e dottrina celeste di S. Caterina Fiesca Adorna, c. XIV, n. 12; Padova 1743, 59-60.
    13 [3.] cercarvi) chiedervi VR BR1 BR2.
    14 [5.] cerca) chiede VR BR1 BR2.
    15 [15.] v'amo) vi amo BR2.

    CONSIDERAZIONE XXVII –
    DELL'ETERNITÀ DELL'INFERNO

    «Et ibunt hi in supplicium aeternum» (Matth. 25. 46).

    PUNTO I

    Se l'inferno non fosse eterno, non sarebbe inferno. Quella pena che non dura molto, non è gran pena. A quell'infermo si taglia una postema, a quell'altro si foca una cancrena; il dolore è grande, ma perché finisce tra poco, non è gran tormento. Ma qual pena sarebbe, se quel taglio o quell'operazione di fuoco continuasse per una settimana, per un mese intero?1 Quando la pena è assai lunga, ancorché sia leggiera, come un dolore d'occhi, un dolore di mole, si rende insopportabile. Ma che dico dolore? anche una commedia, una musica che durasse troppo, o fosse per tutto un giorno, non potrebbe soffrirsi per lo tedio. E se durasse un mese? un anno? Che sarà l'inferno? dove non si ascolta sempre la stessa commedia, o la stessa musica: non vi è solo un dolore d'occhi, o di mole: non si sente solamente il tormento d'un taglio, o di un ferro rovente, ma vi sono tutti i tormenti, tutti i dolori; e per quanto tempo? per tutta l'eternità: «Cruciabuntur die ac nocte in saecula saeculorum» (Apoc. 20. 10).
    Quest'eternità è di fede; non è già qualche opinione, ma è verità attestataci da Dio in tante Scritture: «Discedite a me, maledicti, in ignem aeternum» (Matth. 25. 41). «Et hi ibunt in supplicium aeternum» (Ibid. num. 46). «Poenas dabunt in interitu aeternas» (2. Thess. 1. 9). «Omnis igne salietur» (Marc. 9. 48). Siccome il sale conserva le cose, così il fuoco dell'inferno nello stesso tempo che tormenta i dannati, fa l'officio di sale conservando loro la vita. «Ignis ibi consumit (dice S. Bernardo),2 ut semper reservet» (Medit. cap. 3).
    Or qual pazzia sarebbe quella di taluno, che per pigliarsi una giornata di spasso, si volesse condannare a star chiuso in una fossa per venti, o trenta anni? Se l'inferno durasse cent'anni; che dico cento? durasse non più che due o tre anni, pure sarebbe una gran pazzia, per un momento di vil piacere, condannarsi a due o tre anni di fuoco. Ma non si tratta di trenta, di cento, né di mille, né di cento mila anni; si tratta d'eternità, si tratta di patire per sempre gli stessi tormenti, che non avranno mai da finire, né da alleggerirsi un punto. Hanno avuto ragione dunque i santi, mentre stavano in vita, ed anche in pericolo di dannarsi, di piangere e tremare. Il B. Isaia3 anche mentre stava nel deserto tra digiuni e penitenze, piangeva dicendo: Ah misero me, che ancora non sono libero dal dannarmi! «Heu me miserum, quia nondum a gehennae igne sum liber!»




    Affetti e preghiere.

    Ah mio Dio, se mi aveste mandato all'inferno, come già più volte l'ho meritato, e poi me ne aveste cacciato per vostra misericordia, quanto ve ne sarei restato obbligato? ed indi qual vita santa avrei cominciato a fare? Ed ora che con maggior misericordia Voi mi avete preservato dal cadervi, che farò Tornerò ad offendervi e provocarvi a sdegno, affinché proprio mi mandiate ad ardere in quella carcere de' vostri ribelli, dove tanti già ardono per meno peccati de' miei? Ah mio Redentore, così ho fatto per lo passato; in vece di servirmi del tempo che mi davate per piangere i miei peccati, l'ho speso a più sdegnarvi. Ringrazio la vostra bontà infinita, che tanto mi ha sopportato. S'ella non era infinita, e come mai avrebbe potuto soffrirmi? Vi ringrazio dunque di avermi con tanta pazienza aspettato sinora; e vi ringrazio sommamente della luce che ora mi date, colla quale mi fate conoscere la mia pazzia e il torto che vi ho fatto in oltraggiarvi con tanti miei peccati. Gesù mio, li detesto e me ne pento con tutto il cuore; perdonatemi per la vostra passione; ed assistetemi colla vostra grazia, acciocché più non vi offenda. Giustamente or debbo temere che ad un altro peccato mortale Voi mi abbandoniate. Ah Signor mio, vi prego, mettetemi avanti gli occhi questo giusto timore, allorché il demonio mi tenterà di nuovo ad offendervi. Dio mio, io vi amo, né vi voglio più perdere; aiutatemi colla vostra grazia.
    Aiutatemi, o Vergine SS., fate ch'io sempre ricorra a Voi nelle mie tentazioni, acciocché non perda più Dio. Maria, Maria4 Voi siete la speranza mia.
    1 [10.] intero) intiero ND1 VR BR1 BR2.
    2 [27.] PS. BERNARDUS, Medit. piissimae de cognitione humanae conditionis, c. III, n. 10; PL 184, 491: «Sic enim ignis consumit, ut semper reservet; sic tormenta aguntur, ut semper renoventur» (cfr. Glorieux, 71).
    3 [8.] SPANNER A., Polyanthea sacra, I, Venetiis 1709: «Me miserum! me miserum! quia nondum a gehennae igne sum liber: nondum mihi constat, quoniam hinc sim profecturus». Cfr. S. ISAIAS Ab., Orationes, or. XIV, n. I; PG 40, 1139: «Me miserum, me miserum, quia nondum a gehennae igne sum liber. Qui ad illam homines detrahunt, adhuc in me operantur: et omnia opera eius moventur in corde meo». Alcuni scrivono anche: Esaias.
    4 [5.] Maria, om. una volta in BR1 BR2.

    PUNTO II

    Chi entra una volta nell'inferno, di là non uscirà più in eterno. Questo pensiero facea tremare Davide,1 dicendo: «Neque absorbeat me profundum, neque urgeat super me puteus os suum» (Ps. 68. 16). Caduto ch'è il dannato in quel pozzo di tormenti, si chiude la bocca e non si apre più. Nell'inferno v'è porta per entrare, ma non v'è porta per uscire: «Descensus erit (dice Eusebio Emisseno),2 ascensus non erit». E così spiega le parole del Salmista: «Neque urgeat os suum; quia cum susceperit eos, claudetur sursum, et aperietur deorsum». Fintanto che il peccatore vive, sempre può avere speranza di rimedio, ma colto ch'egli sarà dalla morte in peccato, sarà finita per lui ogni speranza. «Mortuo homine impio, nulla erit ultra spes» (Prov. 11. 7). Almeno potessero i dannati lusingarsi con qualche falsa speranza, e così trovare qualche sollievo alla loro disperazione. Quel povero impiagato, confinato in un letto, è stato già disperato da' medici di poter guarire; ma pure si lusinga, e si consola con dire: Chi sa se appresso si troverà qualche medico e qualche rimedio che mi sani. Quel misero condannato alla galea in3 vita anche si consola, dicendo: Chi sa che può succedere, e mi libero da queste catene. Almeno (dico) potesse il dannato dire similmente così, chi sa se un giorno uscirò da questa prigione; e così potesse ingannarsi almeno con questa falsa speranza. No, nell'inferno non v'è alcuna speranza né vera né falsa, non vi è «chi sa». «Statuam contra faciem» (Ps. 49. 21). Il misero si vedrà sempre innanzi agli occhi scritta la sua condanna, di dover sempre stare a piangere in quella fossa di pene: «Alii in vitam aeternam, et alii in opprobrium, ut videant semper» (Dan. 12. 2). Onde il dannato non solo patisce quel che patisce in ogni momento, ma soffre in ogni momento la pena dell'eternità, dicendo: Quel che ora patisco, io l'ho da patire per sempre. «Pondus aeternitatis sustinet», dice Tertulliano.4
    Preghiamo dunque il Signore, come pregava S. Agostino «Hic ure, hic seca, hic non parcas, ut in aeternum parcas». I castighi di questa vita passano. «Sagittae tuae transeunt, vox tonitrui tui in rota» (Ps. 76. 18). Ma i castighi dell'altra vita non passano mai. Di questi temiamo; temiamo di quel tuono («vox tonitrui tui in rota»), s'intende di quel tuono della condanna eterna, che uscirà dalla bocca del giudice nel giudizio contro i reprobi: «Discedite a me, maledicti, in ignem aeternum».6 E dice, «in rota»; la ruota è figura dell'eternità, a cui non si trova termine. «Eduxi gladium meum de vagina sua irrevocabilem» (Ez. 21. 5). Sarà grande il castigo dell'inferno, ma ciò che più dee atterrirci, è che sarà castigo irrevocabile.
    Ma come, dirà un miscredente, che giustizia è questa? castigare un peccato che dura un momento con una pena eterna? Ma come (io rispondo) può aver l'ardire un peccatore per un gusto d'un momento offendere un Dio d'infinita maestà? Anche nel giudizio umano (dice S. Tommaso, I. 2. q. 87. a. 3)7 la pena non si misura secondo la durazione del tempo, ma secondo la qualità del delitto: «Non quia homicidium in momento committitur, momentanea poena punitur». Ad un peccato mortale un inferno è poco: all'offesa d'una maestà infinita si dovrebbe un castigo infinito, dice S. Bernardino da Siena:8 «In omni peccato mortali infinita Deo contumelia irrogatur; infinitae autem iniuriae infinita debetur poena». Ma perché, dice l'Angelico9 la creatura non è capace di pena infinita nell'intensione, giustamente fa Dio che la sua pena sia infinita nella estensione.
    Oltreché questa pena dee esser necessariamente eterna, prima perché il dannato non può più soddisfare per la sua colpa. In questa vita intanto può soddisfare il peccator penitente, in quanto gli sono applicati i meriti di Gesu-Cristo; ma da questi meriti è escluso il dannato; onde non potendo egli placare più Dio, ed essendo eterno il suo peccato, eterna dee essere ancora la sua pena. «Non dabit Deo placationem suam, laborabit in aeternum» (Ps. 48. 8). Quindi dice il Belluacense (lib. 2. p. 3):10 «Culpa semper poterit ibi puniri, et nunquam poterit expiari»; poiché al dire di S. Antonino11 «ibi peccator poenitere non potest»;12 e perciò il Signore starà sempre con esso sdegnato. «Populus cui iratus est Dominus usque in aeternum» (Malach. 1. 4). Di più il dannato, benché Dio volesse perdonarlo, non vuol esser perdonato, perché la sua volontà è ostinata e confermata nell'odio contro Dio. Dice Innocenzo III:13 «Non humiliabuntur reprobi, sed malignitas odii in illis excrescet» (Lib. 3. de Cont. mundi c. 10). E S. Girolamo:14 «Insatiabiles sunt in desiderio peccandi» (In Proverb. 27). Ond'è che la piaga del dannato è disperata, mentre ricusa anche il guarirsi. «Factus est dolor eius perpetuus, et plaga desperabilis renuit curari» (Ier. 15. 18).15

    Affetti e preghiere.

    Dunque, mio Redentore, se a quest'ora io fossi dannato, siccome ho meritato, starei ostinato nell'odio contro di Voi, mio Dio, che siete morto per me? Oh Dio, e qual inferno sarebbe questo, odiare Voi che mi avete tanto amato, e siete una bellezza infinita, una bontà infinita, degna d'infinito amore! Dunque, se ora stessi nell'inferno, starei in uno stato sì infelice, che neppure vorrei il perdono ch'ora Voi m'offerite? Gesù mio, vi ringrazio della pietà che m'avete usata, e giacché ora posso essere perdonato, e posso amarvi, io voglio esser perdonato e voglio amarvi. Voi m'offerite il perdono, ed io ve lo domando, e lo spero per li meriti vostri. Io mi pento di tutte l'offese che v'ho fatte, o bontà infinita, e Voi perdonatemi. Io v'amo con tutta l'anima mia. Ah Signore, e che male Voi mi avete fatto, che avessi ad odiarvi come mio nemico per sempre? E quale amico ho avuto io mai, che ha fatto e patito per me, quel che avete fatto e patito Voi, o Gesù mio? Deh non permettete ch'io cada più in disgrazia vostra, e perda il vostro amore; fatemi prima morire, ch'abbia a succedermi questa somma ruina.
    O Maria, chiudetemi sotto il vostro manto, e non permettete ch'io n'esca più a ribellarmi contro Dio e contro Voi.
    1 [9.] Davide) Davidde VR BR1 BR2.
    2 [14.] EUSEBIUS EMISSENUS, Homil. de Epiphania, hom. 3; Opera, Parisiis 1575, f. 247: «Ardens inferni puteus aperietur, descensus erit, reditus non erit… Ideo autem dixit: Neque urgeat puteus super me os suum: quia cum susceperit reos claudetur sursum, et aperietur deorsum, dilatabitur in profundum, nullum spiramen, nullus liber anhelitus, claustris desuper urgentibus, relinquetur». Cfr. Maxima Bibl. Patrum, VI, Lugduni 1677, 655. Circa l'attribuzione di queste Omilie ad Eusebio Emisseno o ad Eusebio Gallicano, vedi PG 86, 287-291, 461-464.
    3 [24.] Meglio: a vita.
    4 [8.] NEPVEU F., Riflessioni cristiane, I, Venezia 1721, 26: «I dannati in ogni momento, dice Tertulliano, sostengono il peso di tuta l'eternità: Pondus aeternitatis sustinent». HOUDRY V., Bibl. concionatoria, Infernus, parag. VI; II, Venetiis 1764, 345: «Damnati quolibet momento, Tertullianus ait, totius aeternitatis sustinent pondus». Vedi pure [SARNELLI G.], La via facile e sicura del paradiso, I, Napoli 1738, 311. Cfr. TERTULLIANUS, Apologet., c. 48; PL 1, 527: «Tunc restituetur omne humanum genus ad expungendum quod in isto aevo boni seu mali meruit, et exinde pendendum in immensam aeternitatis perpetuitatem». CC I, 167-68.
    5 [10.] DREXELIUS, De aeternitate, cons. V, n. 3; Opera, I, Lugduni 1658, 15: «Hinc tam serio clamat et precatur Augustinus: Domine, hic ure, hic seca, modo in aeternum parcas». La frase è ripetuta da molti autori ascetici, ma in s. Agostino non si trova che l'idea: S. AUGUST., Enarrat. in Ps. XXXIII, sermo II, n. 20; PL 36, 319: «Ideo [Deus] videtur non exaudire, ut sanet et parcat in sempiternum». CC 38, 295. ID., Sermo 70, n. 2; PL 38, 443.
    6 [17.] Matth., 25, 41.
    7 [25.] S. THOMAS, Summa theol., I-II, q. 87, a. 3, ad I: «In nullo iudicio requiritur ut poena adaequetur culpae secundum durationem. Non enim quia adulterium vel homicidium in momento committitur, propter hoc momentanea poena punitur».
    8 [4.] S. BERNARDINUS SEN., Quadragesimale de Evang. aeterno, sermo XII, a. 2, c. 2; Opera, II, Venetiis 1745, 76: «In omni peccato mortali, infinita Deo contumelia irrogatur... Infinitae autem iniuriae vel contumeliae, infinita de iure debetur poena». Op. omnia, III, Ad Claras Aquas 1956, 237.
    9 [6.] S. THOMAS, Supplem. III partis, q. 99, a. I, c.: «Unde, cum non posset esse infinita poena per intensionem, quia creatura non est capax alicuius qualitati infinitae; requiritur quod sit saltem duratione infinita». Cfr. anche S. ANTONINUS, Summa theol., tit. V, c. 3; IV, Veronae 1740, col. 400: «Poena autem infinita non potest esse secundum intensionem, quia sic consumeret naturam; oportet ergo ut sit infinita secundum extensionem, id est, secundum durationem, ut sic poena respondeat culpae».
    10 [16.] V. BELLOVACENSIS, Spec. morale, l. II, p. 3, dist. 3; Venetiis 1591, 147, col. 3: «Quia culpa semper poterit ibi puniri, et numquam poterit expiari, sic nec in corpore poterunt tormenta finiri, nec corpus ipsum tormentis examinari».
    11 [17.] S. Antonino) S. Antonio, G. Antonelli (1833); S. Agostino, Marietti, (1846).
    12 [17.] S. ANTONINUS, op. cit., p. IV, tit. 14, c. 5, parag. II; IV, Veronae 1740, col. 792: «In vita praesenti habent etiam maximi peccatores subsidium multiplex a Deo praecipue per poenitentiam... Sed damnatus non dabit Deo placationem suam, in psal. XLVIII, quia poenitere non potest... In inferno quis confitebitur tibi? quasi diceret, nullus, ita nec contritio nec satisfactio». A proposito di questa citazione vedi Introduzione generale, Restituzione del Testo, 99-100.
    13 [1.] INNOCENTIUS III, De contemptu mundi, l. III, c. 10; PL 217, 741: «Non humiliabuntur reprobi iam desperati de venia, sed malignitas odii tantum in illis excrescet, ut velint illum omnino non esse, per quem sciunt se tam infeliciter esse».
    14 [3.] STRABUS W., Glossa ordinaria in Prov. XXVII, 20; PL 113, 1110 (cfr. Prol. 11, ss.): «Inferni tormenta non replentur, terminum accipiendo. Similiter et intentionem eorum qui terrena sapiunt, insatiabiles sunt in desiderio peccandi. Ideo enim sine fine puniuntur, quia voluntatem habuerunt sine fine peccandi, si naturam haberent sine fine vivendi».
    15 [5.] Ier., 15, 18: «Quare factus est dolor meus perpetuus, et plaga mea desperabilis renuit curari?»
    PUNTO III
    La morte in questa vita è la cosa più temuta da peccatori, ma nell'inferno sarà la più desiderata. «Quaerent mortem, et non invenient; et desiderabunt mori, et mors fugiet ab eis» (Apoc. 9. 6). Onde scrisse S. Girolamo:1 «O mors quam dulcis esses, quibus tam amara fuisti!» (Ap. S. Bon. Soliloq.). Dice Davide2 che la morte si pascerà de' dannati: «Mors depascet eos» (Psal. 48. 15). Spiega S. Bernardo3 che siccome la pecora pascendosi dell'erba, si ciba delle frondi, ma lascia le radici, così la morte si pasce de' dannati, gli uccide ogni momento, ma lascia loro la vita per continuare ad ucciderli colla pena in eterno: «Sicut animalia depascunt herbas, sed remanent radices; sic miseri in inferno corrodentur a morte, sed iterum reservabuntur ad poenas». Sicché dice S. Gregorio4 che il dannato muore ogni momento senza mai morire: «Flammis ultricibus traditus semper morietur» (Lib. Mor. c. 12). Se un uomo muore ucciso dal dolore, ognuno lo compatisce; almeno il dannato avesse chi lo compatisse. No, muore il misero per lo dolore ogni momento, ma non ha, né avrà mai chi lo compatisca. Zenone imperadore,5 chiuso in una fossa, gridava: Apritemi per pietà. Non fu da niuno inteso, onde fu ritrovato morto da disperato, poiché si avea mangiate le stesse carni delle sue braccia. Gridano i presciti dalla fossa dell'inferno, dice S. Cirillo Alessandrino,6 ma niuno viene a cacciarneli, e niuno ne ha compassione: «Lamentantur, et nullus eripit; plangunt et nemo compatitur».
    E questa loro miseria per quanto tempo durerà? per sempre, per sempre. Narrasi negli Esercizi spirituali del P. Segneri Iuniore (scritti dal Muratori)7 che in Roma essendo dimandato il demonio, che stava nel corpo d'un ossesso, per quanto tempo doveva star nell'inferno; rispose con rabbia, sbattendo la mano su d'una sedia: «Sempre, sempre». Fu tanto lo spavento, che molti giovani del Seminario Romano, che ivi si trovavano, si fecero una confessione generale, e mutarono vita a questa gran predica di due parole: «Sempre, sempre». Povero Giuda! son passati già mille e settecento anni che sta nell'inferno, e l'inferno suo ancora è da capo. Povero Caino! egli sta nel fuoco da cinque mila e 700 anni, e l'inferno suo è da capo. Fu interrogato un altro demonio,8 da quanto tempo era andato all'inferno, e rispose: «Ieri». Come ieri, gli fu detto, se tu sei dannato da cinque mila e più anni? Rispose di nuovo: Oh se sapessivo9 9a che viene a dire eternità, bene intendereste che cinque mila anni non sono a paragone neppure un momento. Se un angelo dicesse ad un dannato: Uscirai dall'inferno, ma quando son passati tanti secoli, quante sono le goccie dell'acqua, le frondi degli alberi e le arene del mare, il dannato farebbe più festa, che un mendico in aver la nuova10 d'esser fatto re. Sì, perché passeranno tutti questi secoli, si moltiplicheranno infinite volte, e l'inferno sempre sarà da capo. Ogni dannato farebbe questo patto con Dio: Signore, accrescete la pena mia quanto volete; fatela durare quanto vi piace; metteteci termine, e son contento. Ma no, che questo termine non vi sarà mai. La tromba della divina giustizia non altro suonerà nell'inferno che «sempre, sempre, mai, mai».
    Dimanderanno i dannati ai demoni: A che sta la notte? «Custos, quid de nocte?» (Is. 21. 11). Quando finisce? quando finiscono queste tenebre, queste grida, questa puzza, queste fiamme, questi tormenti? E loro è risposto: «Mai, mai». E quanto dureranno? «Sempre, sempre». Ah Signore, date luce a tanti ciechi, che pregati a non dannarsi, rispondono: All'ultimo, se vado all'inferno, pazienza. Oh Dio, essi non hanno pazienza di sentire un poco di freddo, di stare in una stanza troppo calda, di soffrire una percossa; e poi avranno pazienza di stare in un mar di fuoco, calpestati da' diavoli e abbandonati da Dio e da tutti per tutta l'eternità!

    Affetti e preghiere.

    Ah Padre delle misericordie, Voi non abbandonate chi vi cerca. «Non dereliquisti quaerentes te, Domine» (Psal. 9. 11). Io per lo passato vi ho voltate tante volte le spalle, e Voi non mi avete abbandonato: non mi abbandonate ora che vi cerco. Mi pento, o sommo bene, di aver fatto tanto poco conto della vostra grazia, che l'ho cambiata per niente. Guardate le piaghe del vostro Figlio, udite le sue voci, che vi pregano a perdonarmi, e perdonatemi. E Voi, mio Redentore, ricordatemi sempre le pene che avete patito per me,11 l'amore, che mi avete portato, e l'ingratitudine mia, per cui tante volte mi ho meritato l'inferno: acciocché io pianga sempre il torto che vi ho fatto, e viva sempre ardendo del vostro amore. Ah Gesù mio, come non arderò del vostro amore, pensando che da tanti anni dovrei ardere nell'inferno, e seguire ad ardere per tutta l'eternità, e che Voi siete morto per liberarmene, e con tanta pietà me ne avete liberato? Se fossi nell'inferno, ora vi odierei, e vi avrei da odiare per sempre; ma ora v'amo, e voglio amarvi per sempre. Così spero al12 sangue vostro. Voi mi amate, ed io ancora v'amo. Voi mi amerete sempre, se io13 non vi lascio. Ah mio Salvatore, salvatemi da questa disgrazia ch'io abbia a lasciarvi, e poi fatene di me quel che volete. Io merito ogni castigo, ed io l'accetto, acciocché mi liberiate dal castigo d'esser privo del vostro amore.
    O Maria rifugio mio, quante volte io stesso mi son condannato all'inferno, e Voi me ne avete liberato? Deh liberatemi ora dal peccato, che solo può privarmi della grazia di Dio e portarmi all'inferno.
    1 [5.] S. BONAVENTURA, Soliloquium, c. III; Opera, VII, Lugduni 1668, 118: «Ad districti ergo iudicis iustitiam pertinet, ut numquam careant supplicio, quorum mens in hac vita numquam voluit carere peccato. Hieronymus: O mors, quam dulcis esses quibus tam amara fuisti! Te solummodo desiderant, qui te vehementer odiebant». Nell'edizione critica del Soliloquium è stata soppressa l'attribuzione del testo a s. Girolamo: cfr. S. BONAVENTURA, Soliloquium, c. III, parag. 3; Opera, VIII, Ad Claras Aquas 1898, 54.
    2 [6.] Davide) Davidde VR BR1 BR2.
    3 [7.] S. BERNARDINUS SEN., Quadrag. de Evang. aeterno, sermo XI, art. III, c. 3, parag. 3; Opera, II, Venetiis 1745, 73: «Sicut enim animalia depascunt herbas, quia penitus non eradicant eas, sed remanent radices, unde iterum crescit herba: sic miseri in inferno corrodentur a morte, sed afflicti iterum reservabuntur ad poenas». Op. omnia, III, Ad Claras Aquas 1956, 227.
    4 [13.] S. GREGORIUS M., Moralia in Iob, l. XV, c. 17, n. 21; PL 75, 1092: «Damnati semper moriuntur numquam morte consumendi. Persolvit enim in tormento ea quae hic illicite servavit desideria; et, flammis ultricibus traditus, semper moritur, quia semper in morte servatur».
    5 [18.] BARONIUS C., Annales Ecclesiastici, an. 491, n. 1; VIII, Lucae 1741, 532: «Satellites porro, qui ad sepulcrum, in quo repositus fuit, custodiendum erant collocati, retulerunt se per duas noctes lamentabilem vocem audivisse ex sepulcro elatam: Miseremini et aperite mihi… Sed cum non aperirent, ferunt... inventum Zenonem, qui prae fame suos ipse lacertos mandiderat, et caligas quas portabat».
    6 [3.] S. CYRILLUS ALEX., Homilia 14, De exitu animi et de secundo adventu; PG 77, 1075, 1078: «Illic vae, vae perpetuo, illic eheu, illic vociferantur, nec est qui succurrat; clamant, nec ullus est qui liberet... Gemunt continenter et sine intermissione, sed nullus est qui misereatur… lamentantur, sed nullus est qui liberet. Exclamant, et plangunt, sed nullus est qui commoveatur».
    7 [8.] MURATORI L. A., Esercizi spirituali esposti secondo il metodo del P. Paolo Segneri iuniore, med. sopra l'inferno; Venezia 1739, 222: «Scongiurando in Roma un valente esorcista una persona indemoniata, e venendogli in pensiero, che quello spirito desse qualche buon avvertimento a gli astanti, l'interrogò dove stesse allora. Rispose: Nell'inferno. E per quanto tempo, replicò il religioso, hai tu da starvi? Ripugnò un pezzo il maligno: ma vinto dal comando proruppe in fine con voce miserabilissima in queste parole: Per sempre, per sempre, sbuffando, e battendo ogni volta le mani in terra con incredibil furia… Era ivi presente per curiosità gran numero di cavalieri, e d'altra gente; e tale spavento s'impresse in tutti, che tutti perderono la parola. Basta dire che molti andarono tosto a fare una confessione generale, ed alcuni migliorarono notabilmente la vita loro, mossi da quella gran predica fatta lor dal demonio in una sola parola: Per sempre».
    8 [17.] PEPE F., op. cit., I, Napoli 1756, 305: «Dimandato un demonio da quanto tempo era stato scacciato dal cielo. Ieri, rispose. Bugiardo, ripigliò l'esorcista. Se sapessi, che cosa è eternità, ripigliò il demonio, tutt'il tempo dalla creazione del mondo fino a questo punto lo riputeresti un'ora».
    9 [19.] sapessivo) sapeste VR BR1 BR2.
    9a [19.] Dialettismo: sapeste.
    10 [4.] nuova) nova NS7.
    11 [29.] sempre le pene che avete patito per me, rigo om. NS7.
    12 [3.] spero al) spero nel VR BR1 BR2.
    13 [4.] se io) s'io VR BR1 BR2.

    CONSIDERAZIONE XXVIII
    RIMORSI DEL DANNATO

    «Vermis eorum non moritur» (Marc. 9. 47).
    PUNTO I

    Per questo verme che non muore, spiega S. Tommaso1 che s'intende il rimorso di coscienza, dal quale eternamente sarà il dannato tormentato nell'inferno. Molti saranno i rimorsi2 con cui la coscienza roderà il cuore de' reprobi, ma tre saranno i rimorsi3 più tormentosi: il pensare al poco per cui si son dannati: al poco che dovean fare per salvarsi: e finalmente al gran bene che han perduto. Il primo rimorso4 dunque che avrà il dannato sarà il pensare per quanto poco s'è perduto. Dopo che Esaù ebbesi cibato di quella minestra di lenticchie, per cui avea5 venduta la sua primogenitura, dice la Scrittura che per lo dolore e rimorso della perdita fatta si pose ad urlare: «Irrugiit clamore magno» (Gen. 27. 34). Oh quali altri urli e ruggiti darà il dannato pensando che per poche soddisfazioni momentanee e avvelenate si ha perduto un regno eterno di contenti, e si ha da vedere eternamente condannato ad una continua morte! Onde piangerà assai più amaramente, che non piangeva Gionata, allorché videsi condannato a morte da Saulle suo padre, per essersi cibato d'un poco di mele.6 «Gustans gustavi paulum mellis, et ecce morior» (1. Reg. 14. 43). Oh Dio, e qual pena apporterà al dannato il vedere allora la causa della sua dannazione? Al presente che cosa a noi sembra la nostra vita passata, se non un sogno, un momento? Or che pareranno a chi sta nell'inferno quelli cinquanta, o sessanta anni di vita, che avrà vivuti in questa terra, quando si troverà7 nel fondo dell'eternità, in cui saranno già passati cento e mille milioni d'anni, e vedrà che la sua eternità allora comincia! Ma che dico cinquanta anni di vita? cinquanta anni tutti forse di gusti? e che forse il peccatore vivendo senza Dio, sempre gode ne' suoi peccati? quando durano i gusti del peccato? durano momenti; e tutto l'altro tempo per chi vive in disgrazia di Dio, è tempo di pene e8 di rancori. Or che pareranno quelli momenti di piaceri al povero dannato? e specialmente che parerà quell'uno ed ultimo peccato fatto, per lo quale s'è perduto? Dunque (dirà) per un misero gusto brutale ch'è durato un momento, e appena avuto è sparito come vento, io avrò da stare ad ardere in questo fuoco, disperato ed abbandonato da tutti, mentre Dio sarà Dio per tutta l'eternità!

    Affetti e preghiere.

    Signore, illuminatemi a conoscere l'ingiustizia che v'ho usata in offendervi, e 'l castigo eterno che con ciò mi ho meritato. Mio Dio, sento una gran pena di avervi offeso, ma questa pena mi consola; se Voi mi aveste mandato all'inferno, come io ho meritato, questo rimorso sarebbe l'inferno del mio inferno, pensando per quanto poco mi son dannato; ma ora questo rimorso (dico) mi consola, perché mi dà animo a sperare il perdono da Voi, che avete promesso di perdonare chi si pente. Sì, mio Signore, mi pento di avervi oltraggiato, abbraccio questa dolce pena, anzi vi prego ad accrescermela e a conservarmela sino alla morte, acciocché io9 pianga sempre amaramente i disgusti che v'ho dati. Gesù mio, perdonatemi; o mio Redentore, che per avere pietà di me, non avete avuta pietà di Voi, condannandovi a morire10 di dolore, per liberarmi dall'inferno, abbiate pietà di me. Fate dunque che il rimorso di avervi offeso mi tenga continuamente addolorato, e nello stesso tempo m'infiammi tutto d'amore verso di Voi, che tanto mi avete amato, e con tanta pazienza mi avete sofferto, ed ora invece di castighi, mi arricchite di lumi e di grazie; ve ne ringrazio, Gesù mio, e v'amo; v'amo più di me stesso, v'amo con tutt'il cuore. Voi non sapete disprezzare chi v'ama. Io v'amo, non mi discacciate dalla vostra faccia. Ricevetemi dunque nella vostra grazia, e non permettete ch'io v'abbia da perdere più. Maria Madre mia, accettatemi per vostro servo, e stringetemi a Gesù vostro Figlio. Pregatelo che mi perdoni, che mi doni il suo amore e la grazia della perseveranza sino alla morte.
    1 [5.] S. THOMAS, Suppl. III partis, q. 97, a. 2, c.: «Unde vermis qui in damnatis ponitur, non debet intelligi esse materialis, sed spiritualis qui est conscientiae remorsus: qui dicitur vermis, in quantum oritur ex putredine peccati et animam affligit, sicut corporalis vermis ex putredine ortus affligit pungendo».
    2 [7.] rimorsi) morsi VR BR1 BR2.
    3 [8.] rimorsi) morsi VR BR1 BR2.
    4 [10.] rimorso) morso VR BR1 BR2.
    5 [13.] avea) aveva VR BR1 BR2.
    6 [20.] Oggi miele.
    7 [26.] troverà) ritroverà VR BR1 BR2.
    8 [5.] e, om. VR.
    9 [22.] acciocché io) acciocch'io VR BR1.
    10 [25.] morire) morir VR BR1 BR2.

    PUNTO II

    Dice S. Tommaso1 che questa sarà la pena principale de' dannati, il vedere che si son perduti per niente, e che con tanta facilità poteano acquistarsi la gloria del paradiso, se voleano: «Principaliter dolebunt, quod pro nihilo damnati sunt, et facillime vitam poterant consequi sempiternam». Il secondo rimorso2 dunque della coscienza sarà il pensare al poco che dovean fare per salvarsi. Comparve a S. Umberto3 un dannato e gli disse che quest'appunto era la maggiore4 afflizione, che cruciavalo nell'inferno, il pensiero del poco per cui s'era dannato, e del poco che avrebbe avuto a fare per salvarsi. Dirà allora il misero: S'io mi mortificava a non guardare quell'oggetto, se vincea quel rispetto umano, se fuggiva quell'occasione, quel compagno, quella conversazione, non mi sarei dannato. Se mi fossi confessato ogni settimana, se avessi frequentata la Congregazione, se avessi letto ogni giorno quel libretto spirituale, se mi fossi raccomandato a Gesu-Cristo ed a Maria, non sarei ricaduto. Ho proposto tante volte di farlo, ma non l'ho eseguito; o pure l'ho cominciato a fare, e poi l'ho lasciato, e perciò mi son perduto.
    Accresceranno la pena di questo rimorso gli esempi, che avrà avuti degli altri suoi buoni amici e compagni; e più l'accresceranno i doni che Dio gli avea concessi per salvarsi: doni di natura, come buona sanità, beni di fortuna, talenti che 'l Signore gli avea dati affin di bene impiegarli, e farsi santo: doni poi di grazia, tanti lumi, ispirazioni, chiamate, e tanti anni conceduti a rimediare il mal fatto: ma vedrà che in questo stato miserabile, al quale è arrivato, non v'è più tempo da rimediare. Sentirà l'Angelo del Signore che grida e giura: «Et Angelus, quem vidi stantem, iuravit per viventem in saecula saeculorum... quia tempus non erit amplius» (Apoc. 10. 6). Oh che spade crudeli saranno tutte queste grazie ricevute al cuore del povero dannato, allorché vedrà esser finito già il tempo di poter più dar riparo alla sua eterna ruina. Dirà dunque piangendo cogli altri suoi compagni disperati: «Transiit messis, finita est aestas, et nos salvati non sumus» (Ier. 8. 20). Dirà: Oh se le fatiche che ho fatte per dannarmi, l'avessi spese per Dio, mi troverei fatto un gran santo; ed ora che me ne trovo, se non rimorsi e pene, che mi tormenteranno in eterno? Ah che questo pensiero crucierà il dannato più che il fuoco, e tutti gli altri tormenti dell'inferno; il dire: Io poteva essere per sempre felice, ed ora ho da essere per sempre infelice.

    Affetti e preghiere.

    Ah Gesù mio, e come avete potuto tanto sopportarmi? io tante volte v'ho voltate le spalle, e Voi non avete lasciato di venirmi appresso. Io tante volte vi ho offeso, e Voi mi avete perdonato; vi ho tornato ad offendere, e Voi avete ritornato a perdonarmi. Deh fatemi parte di quel dolore, che sentiste nell'orto di Getsemani de' peccati miei, che allora vi fecero sudar sangue. Mi pento, Redentor mio caro, di aver così malamente pagato il vostro Cuore.5 O gusti miei maledetti, vi detesto e maledico, voi mi avete fatta perdere la grazia del mio Signore. Amato mio Gesù, ora io v'amo sopra ogni cosa, rinunzio a tutte le soddisfazioni illecite e propongo prima di morir mille volte, che di offendervi più. Deh per quell'affetto con cui mi amaste sulla croce ed offeriste la vostra vita divina per me, datemi luce e forza di resistere alle tentazioni, e di ricorrere al vostro aiuto, quando sarò tentato.
    O Maria speranza mia, Voi tutto potete appresso Dio, impetratemi la santa perseveranza: ottenetemi ch'io più non mi divida dal suo santo amore.
    1 [5.] Forse trattasi di un testo sunteggiato: vedi S. THOMAS, Compendium Theologiae, c. 175; Opera, XVII, Romae 1570, opusc. II, f. 31, col. 3: «Dolent ergo mali quia peccata commiserunt, non propter hoc, quia peccata eis displiceant, quia etiam tunc mallent peccata illa committere, si facultas daretur, quam Deum habere... Sic igitur et voluntas eorum perpetuo manebit obstinata in malo, et tamen gravissime dolebunt de culpa commissa et de gloria amissa; et hic dolor vocatur remorsus conscientiae, qui metaphorice in Scripturis vermis nominatur, secundum illud Isaiae ultimmo 24: Vermis eorum non morietur». Cfr. Opuscula theol., op. I Compendium Theol., c. 175, n. 348; I, Taurini 1954, 82.
    2 [9.] rimorso) morso VR BR1 BR2.
    3 [10.] ROSIGNOLI C. G., Verità eterne, lez. VI, parag. 2; Bologna 1689, 114: «Ma che accade addur favole, se ne abbiamo la testimonianza addotta da B. Umberto, d'un dannato, che comparito in mesta gramaglia tutto affannato confessò che l'inferno del suo inferno era la rimembranza delle colpe commesse: d'aver perduto un regno eterno per brevissimo diletto: d'aver gittato in vanissime cure quel tempo, con un quarticello del quale avrebbe potuto con una buona confessione ottener la salute».
    4 [11.] maggiore) maggior VR.
    5 [30.] Cuore) amore ND1 VR ND3 BR1 BR2.

    PUNTO II

    Dice S. Tommaso1 che questa sarà la pena principale de' dannati, il vedere che si son perduti per niente, e che con tanta facilità poteano acquistarsi la gloria del paradiso, se voleano: «Principaliter dolebunt, quod pro nihilo damnati sunt, et facillime vitam poterant consequi sempiternam». Il secondo rimorso2 dunque della coscienza sarà il pensare al poco che dovean fare per salvarsi. Comparve a S. Umberto3 un dannato e gli disse che quest'appunto era la maggiore4 afflizione, che cruciavalo nell'inferno, il pensiero del poco per cui s'era dannato, e del poco che avrebbe avuto a fare per salvarsi. Dirà allora il misero: S'io mi mortificava a non guardare quell'oggetto, se vincea quel rispetto umano, se fuggiva quell'occasione, quel compagno, quella conversazione, non mi sarei dannato. Se mi fossi confessato ogni settimana, se avessi frequentata la Congregazione, se avessi letto ogni giorno quel libretto spirituale, se mi fossi raccomandato a Gesu-Cristo ed a Maria, non sarei ricaduto. Ho proposto tante volte di farlo, ma non l'ho eseguito; o pure l'ho cominciato a fare, e poi l'ho lasciato, e perciò mi son perduto.
    Accresceranno la pena di questo rimorso gli esempi, che avrà avuti degli altri suoi buoni amici e compagni; e più l'accresceranno i doni che Dio gli avea concessi per salvarsi: doni di natura, come buona sanità, beni di fortuna, talenti che 'l Signore gli avea dati affin di bene impiegarli, e farsi santo: doni poi di grazia, tanti lumi, ispirazioni, chiamate, e tanti anni conceduti a rimediare il mal fatto: ma vedrà che in questo stato miserabile, al quale è arrivato, non v'è più tempo da rimediare. Sentirà l'Angelo del Signore che grida e giura: «Et Angelus, quem vidi stantem, iuravit per viventem in saecula saeculorum... quia tempus non erit amplius» (Apoc. 10. 6). Oh che spade crudeli saranno tutte queste grazie ricevute al cuore del povero dannato, allorché vedrà esser finito già il tempo di poter più dar riparo alla sua eterna ruina. Dirà dunque piangendo cogli altri suoi compagni disperati: «Transiit messis, finita est aestas, et nos salvati non sumus» (Ier. 8. 20). Dirà: Oh se le fatiche che ho fatte per dannarmi, l'avessi spese per Dio, mi troverei fatto un gran santo; ed ora che me ne trovo, se non rimorsi e pene, che mi tormenteranno in eterno? Ah che questo pensiero crucierà il dannato più che il fuoco, e tutti gli altri tormenti dell'inferno; il dire: Io poteva essere per sempre felice, ed ora ho da essere per sempre infelice.



    Affetti e preghiere.

    Ah Gesù mio, e come avete potuto tanto sopportarmi? io tante volte v'ho voltate le spalle, e Voi non avete lasciato di venirmi appresso. Io tante volte vi ho offeso, e Voi mi avete perdonato; vi ho tornato ad offendere, e Voi avete ritornato a perdonarmi. Deh fatemi parte di quel dolore, che sentiste nell'orto di Getsemani de' peccati miei, che allora vi fecero sudar sangue. Mi pento, Redentor mio caro, di aver così malamente pagato il vostro Cuore.5 O gusti miei maledetti, vi detesto e maledico, voi mi avete fatta perdere la grazia del mio Signore. Amato mio Gesù, ora io v'amo sopra ogni cosa, rinunzio a tutte le soddisfazioni illecite e propongo prima di morir mille volte, che di offendervi più. Deh per quell'affetto con cui mi amaste sulla croce ed offeriste la vostra vita divina per me, datemi luce e forza di resistere alle tentazioni, e di ricorrere al vostro aiuto, quando sarò tentato.
    O Maria speranza mia, Voi tutto potete appresso Dio, impetratemi la santa perseveranza: ottenetemi ch'io più non mi divida dal suo santo amore.
    1 [5.] Forse trattasi di un testo sunteggiato: vedi S. THOMAS, Compendium Theologiae, c. 175; Opera, XVII, Romae 1570, opusc. II, f. 31, col. 3: «Dolent ergo mali quia peccata commiserunt, non propter hoc, quia peccata eis displiceant, quia etiam tunc mallent peccata illa committere, si facultas daretur, quam Deum habere... Sic igitur et voluntas eorum perpetuo manebit obstinata in malo, et tamen gravissime dolebunt de culpa commissa et de gloria amissa; et hic dolor vocatur remorsus conscientiae, qui metaphorice in Scripturis vermis nominatur, secundum illud Isaiae ultimmo 24: Vermis eorum non morietur». Cfr. Opuscula theol., op. I Compendium Theol., c. 175, n. 348; I, Taurini 1954, 82.
    2 [9.] rimorso) morso VR BR1 BR2.
    3 [10.] ROSIGNOLI C. G., Verità eterne, lez. VI, parag. 2; Bologna 1689, 114: «Ma che accade addur favole, se ne abbiamo la testimonianza addotta da B. Umberto, d'un dannato, che comparito in mesta gramaglia tutto affannato confessò che l'inferno del suo inferno era la rimembranza delle colpe commesse: d'aver perduto un regno eterno per brevissimo diletto: d'aver gittato in vanissime cure quel tempo, con un quarticello del quale avrebbe potuto con una buona confessione ottener la salute».
    4 [11.] maggiore) maggior VR.
    5 [30.] Cuore) amore ND1 VR ND3 BR1 BR2.

    SERMONE VIII. - PER LA DOMENICA III. DOPO L'EPIFANIA

    Rimorsi del dannato.

    Filii autem regni eiicientur in tenebras exteriores; ibi erit fletus et stridor dentium. (Matth. 8. 12.)

    Nel corrente evangelio si narra che essendo entrato Gesù Cristo in Cafarnao, venne a ritrovarlo il Centurione, ed a pregarlo che desse la sanità ad un suo servo paralitico che teneva in sua casa. Il Signore gli disse: Ego veniam et curabo eum. No, replicò il Centurione, non son degno io che voi entriate nella mia casa: basta che vogliate sanarlo, e il mio servo sarà sano. Ed il Salvatore vedendo la sua fede, in quel punto lo consolò rendendo la sanità al servo, e rivolto a' suoi discepoli disse loro: Multi ab oriente et occidente venient, et recumbent cum Abraham, Isaac et Iacob in regno coelorum; filii autem regni eiicientur in tenebras exteriores; ibi erit fletus et stridor dentium. E con ciò volle il Signore darci a sapere che molti nati fra gl'infedeli si salveranno coi santi, e molti nati nel grembo della santa chiesa anderanno all'inferno, ove il verme della coscienza coi suoi morsi li farà piangere amaramente per sempre. Vediamo i rimorsi che il cristiano dannato patirà nell'inferno:
    Rimorso I. Del poco che far dovea per salvarsi;
    Rimorso II. Del poco per cui si è dannato;
    Rimorso III. Del gran bene che ha perduto per sua colpa.

    RIMORSO I. Del poco che dovea fare per salvarsi.

    Un giorno apparve un dannato a sant'Uberto, e ciò appunto gli disse che due rimorsi erano i suoi carnefici più crudeli nell'inferno, il pensare al quanto poco gli toccava a fare in questa vita per salvarsi, ed al quanto poco era stato quello per cui si era dannato. Lo stesso scrisse poi s. Tomaso: Principaliter dolebunt quod pro nihilo damnati sunt, et facillime vitam poterant consequi sempiternam. Fermiamoci a considerare il primo rimorso, cioè quanto poche e brevi sono state le soddisfazioni, per le quali ogni dannato si è perduto. Dirà il misero: se io mi astenea da quel diletto, se vincea quel rispetto umano, se fuggiva quell'occasione, quel cattivo compagno, non mi sarei dannato. Se avessi frequentata la congregazione, se mi fossi confessato ogni settimana, se nelle tentazioni mi fossi raccomandato a Dio non sarei ricaduto. Ho proposto tante volte di farlo, ma poi non l'ho fatto: l'ho cominciato a fare, ma poi l'ho lasciato, e così mi son perduto.
    Crescerà il tormento di questo rimorso col ricordarsi il dannato i buoni esempi che avrà avuti d'altri giovani suoi pari, che anche in mezzo al mondo han menata una vita casta e divota. Crescerà poi maggiormente la pena colla memoria di tutti i doni che il Signore gli ha fatti, a fine di cooperarsi ad acquistare la salute eterna, doni di natura, buona sanità, beni di fortuna, buoni natali, buon talento; tutti doni da Dio a lui concessi, non per vivere tra i piaceri di terra o per sopraffare gli altri, ma per impiegarli a bene dell'anima sua e farsi santo: tanti doni poi di grazia, lumi divini, ispirazioni sante, chiamate amorose: di più tanti anni di vita datigli da Dio per rimediare al mal fatto. Ma udirà l'angelo del Signore, che gli fa sapere che per lui è terminato il tempo di salvarsi: Et angelus quem vidi stantem, iuravit per viventem in saecula saeculorum... quia tempus non erit amplius1.Oimè che spade crudeli saranno tutti questi beneficj ricevuti al cuore del povero dannato, quando vedrassi entrato già nella carcere dell'inferno, e vedrà che più non vi è tempo di far riparo alla sua eterna ruina! Dunque, dirà piangendo da disperato insieme cogli altri suoi infelici compagni: Transiit messis, finita est aestas, et nos salvati non sumus2. E passato, dirà, il tempo di raccoglier frutti per la vita eterna, è finita l'estate in cui potevamo salvarci; ma non ci siamo salvati, ed è venuto il verno, ma verno eterno, nel quale abbiamo da vivere infelici e disperati per sempre, finché Dio sarà Dio. Dirà inoltre il misero: oh pazzo che sono stato! Se le pene che ho sofferte per soddisfare i miei capricci, le avessi sofferte per Dio: se le fatiche che ho fatte per dannarmi, le avessi fatte per salvarmi, quanto ora me ne troverei contento! Ed ora che me ne trovo, se non rimorsi e pene che mi tormentano e mi tormenteranno per tutta l'eternità! Dunque, dirà finalmente, io poteva essere per sempre felice, ed ora ho da essere per sempre infelice! Ah che questo pensiero affliggerà il dannato più che il fuoco e tutti gli altri tormenti dell'inferno.

    RIMORSO II. Del poco per cui si è perduto.

    Il re Saule fece ordine, stando nel campo, che niuno sotto pena della vita si cibasse di alcuna cosa. Gionata suo figlio, essendo giovine e trovandosi con fame, si cibò di un poco di mele; onde il padre sapendolo volle che si eseguisse l'ordine dato, e il figlio fosse giustiziato. Il povero figlio, vedendosi già condannato a morte, piangeva dicendo: Gustans gustavi paullulum mellis, et ecce morior1. Ma tutto il popolo essendosi mosso a compassione di Gionata, si interpose col padre e lo liberò dalla morte. Per il povero dannato non vi è né vi sarà mai chi ne abbia compassione, e s'interponga con Dio per liberarlo dalla morte eterna dell'inferno; anzi tutti godranno della sua giusta pena, mentre egli per un breve piacere ha voluto perdere Dio ed il paradiso.Esaù dopo essersi cibato di quella minestra di lenticchie, per la quale avea venduta la sua primogenitura, dice la scrittura, che cruciato dal dolore e dal rimorso della perdita fatta si pose ad urlare: Irrugiit clamore magno2. Oh quali alti ruggiti ed urli darà il dannato pensando che per poche soddisfazioni avvelenate e momentanee ha perduto il regno eterno del paradiso, e ha da vedersi condannato in eterno ad una continua morte!
    Starà il disgraziato nell'inferno continuamente a considerare la causa infelice della sua dannazione. A noi che viviamo su questa terra, la vita passata non sembra che un momento ed un sogno. Oimè al dannato che parranno quei cinquanta o sessanta anni di vita che avrà menati nel mondo, quando si troverà nel fondo dell'eternità, e già saran passati per lui cento e mille milioni d'anni di pena, e vedrà che la sua eternità infelice è da capo e sarà sempre da capo! Ma che, forse quei cinquant'anni saranno stati per lui tutti pieni di piaceri? Forse il peccatore, vivendo in disgrazia di Dio, gode sempre ne' suoi peccati? Quanto durano i gusti del peccato? Durano momenti; e tutt'altro tempo, per chi vive lontano da Dio, è tempo di angustie e di pene. Or che pareranno quei momenti di piacere al povero dannato, quando si troverà già sepolto in quella fossa di fuoco? Quid profuit superbia, aut divitiarum iactantia? Transierunt omnia illa tamquam umbra3. Povero me, dirà egli, io sulla terra son vissuto a mio capriccio, mi ho prese le mie soddisfazioni, ma quelle a che mi han giovato? Elle han durato momenti, e mi han fatta fare una vita inquieta ed amara, ed ora mi tocca di stare ad ardere in questa fornace per sempre disperato ed abbandonato da tutti.

    RIMORSO III. Del gran bene che per sua colpa ha perduto.

    L'infelice principessa Lisabetta regina d'Inghilterra, accecata dalla passione di regnare, disse un giorno: «Mi dia il Signore quarant'anni di regno ed io gli rinunzio il paradiso». Ebbe già la misera questi quarant'anni di regno, ma ora ch'ella sta nell'altro mondo confinata all'inferno, certamente che non si troverà contenta di tal rinunzia fatta. Oh quanto si troverà afflitta, pensando che per quarant'anni di regno terreno, posseduto sempre tra le angustie, traversie e timori, ha perduto il regno eterno del cielo? Plus coelo torquetur, quam gehenna, scrisse s. Pier Grisologo; sono i miseri dannati più tormentati dalla perdita volontariamente da essi fatta del paradiso, che dalle stesse pene dell'inferno.
    La pena somma che fa l'inferno è l'aver perduto Dio, quel sommo bene che fa tutto il paradiso.Scrisse s. Brunone: Addantur tormenta tormentis, et Deo non priventur1. Si contenterebbero i dannati che si accrescessero mille inferni all'inferno che patiscono, e non restassero privi di Dio; ma questo sarà il loro inferno, il vedersi privati di Dio in eterno per loro propria colpa. Dicea s. Teresa che se uno perde per colpa propria anche una bagattella, una moneta, un anello di poco valore, pensando che l'ha perduta per sua trascuraggine molto si affligge e non trova pace: or qual pena sarà quella del dannato, in pensare che ha perduto un bene infinito, qual è Dio, e vedere che l' ha perduto per colpa propria!Vedrà che Iddio lo voleva salvo, ed avea posta in mano di lui l'elezione della vita o della morte eterna, secondo dice l'Ecclesiastico2: Ante hominem vita et mors... quod placuerit ei dabitur illi; sicché vedrà essere stato in mano sua il rendersi, se voleva, eternamente felice; e che egli di sua elezione ha voluto dannarsi. Vedrà nel giorno del giudizio tanti suoi compagni che si sono salvati, ma esso perché non ha voluto finirla, è andato a finirla nell'inferno. Ergo erravimus, dirà rivolto a' suoi compagni infelici dell'inferno, dunque l'abbiamo sbagliata, perdendo per nostra colpa il cielo e Dio; ed al nostro errore non vi è più rimedio. Questa pena gli farà dire: Non est pax ossibus meis a facie peccatorum meorum3. Ella sarà una pena interna intrinsecata nelle ossa, che non gli farà trovar mai riposo in eterno, in vedere che egli stesso è stata la causa della sua ruina; onde non avrà oggetto di maggiore orrore, che se medesimo, provando la pena minacciata dal Signore: Statuam te contra faciem tuam4.Fratello mio, se per lo passato ancora tu sei stato pazzo in voler perdere Dio per un gusto miserabile, non voler seguitare ad esser pazzo; procura di dar presto rimedio, or che puoi rimediare. Trema; chi sa se ora non ti risolvi a mutar vita, Dio ti abbandoni e resti perduto per sempre? Quando il demonio ti tenta ricordati dell'inferno, il pensiero dell'inferno ti libererà dall'inferno: ricordati, dico, dell'inferno, e ricorri a Gesù Cristo, ricorri a Maria ss. per aiuto, ed essi ti libereranno dal peccato che è la porta dell'inferno.

    Note

    1 Apoc. 10. 6.
    2 Ier. 9. 20.
    1 1. Reg. 14. 43.
    2 Gen. 27. 34.
    3 Sap. 5. 8. et 9.
    1 Serm. de iudic. fin.
    2 15. 18.
    3 Ps. 37. 4.
    4 Ps. 9. 11.

  10. #10
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    Dossier sull'esistenza dell'Inferno II Parte


    Testi di Santi, Papi, Dottori della Chiesa e altri importanti autori.


    S. Alfonso de’Liguori

    Dall’ ”Apparecchio alla morte”

    CONSIDERAZIONE XXVI –
    DELLE PENE DELL'INFERNO

    «Et ibunt hi in supplicium aeternum» (Matth. 25. 46). -
    PUNTO I

    Due mali fa il peccatore, allorché pecca, lascia Dio sommo bene, e si rivolta alle creature: «Duo enim mala fecit populus meus, me dereliquerunt fontem aquae vivae, et foderunt sibi cisternas; cisternas dissipatas, quae continere non valent aquas» (Ier. 2. 13). Perché dunque il peccatore si volta alle creature con disgusto di Dio, giustamente nell'inferno sarà tormentato dalle stesse creature, dal fuoco e da' demonii, e questa è la pena del senso. Ma perché la sua colpa maggiore, dove consiste il peccato, è il voltare le spalle a Dio, perciò la pena principale che sarà nell'inferno, sarà la pena del danno. Ch'é1 la pena d'aver perduto Dio.
    Consideriamo prima la pena del senso. È di fede che vi è l'inferno. In mezzo alla terra vi è questa prigione riservata al castigo de' ribelli di Dio. Che cosa è questo inferno? è il luogo de' tormenti. «In hunc locum tormentorum», così chiamò l'inferno l'Epulone dannato (Luca 16. 28). Luogo di tormenti, dove tutti i sensi e le potenze del dannato hanno da avere il lor proprio tormento; e quanto più alcuno in un senso avrà offeso Dio, tanto più in quel senso avrà da esser tormentato: «Per quae peccat quis, per haec et torquetur» (Sap. 11. 17). «Quantum in deliciis fuit, tantum date illi tormentum» (Apoc. 18. 7).2 Sarà tormentata la vista colle tenebre. «Terram tenebrarum, et opertam mortis caligine» (Iob. 10. 21). Che compassione fa il sentire che un pover'uomo sta chiuso in una fossa oscura per mentre vive, per 40-50 anni di vita! L'inferno è una fossa chiusa da tutte le parti dove non entrerà mai raggio di sole o d'altra luce. «Usque in aeternum non videbit lumen» (Psal. 48. 20). Il fuoco che sulla terra illumina, nell'inferno sarà tutt'oscuro. «Vox Domini intercidentis flammam ignis» (Psal. 28. 7). Spiega S. Basilio Il Signore dividerà dal fuoco la luce, onde tal fuoco farà solamente l'officio di bruciare, ma non d'illuminare; e lo spiega più in breve Alberto Magno:4 «Dividet a calore splendorem». Lo stesso fumo che uscirà da questo fuoco, componerà quella procella di tenebre, di cui parla S. Giacomo, che accecherà gli occhi de' dannati: «Quibus procella tenebrarum servata est in aeternum» (Iac. 2. 13).5 Dice S. Tommaso (3. p. q. 97. n. 4),6 che a' dannati è riservato tanto di luce solamente, quanto basta a più tormentarli. «Quantum sufficit ad videndum illa, quae torquere possunt». Vedranno in quel barlume di luce la bruttezza degli altri reprobi e de' demoni, che prenderanno forme orrende per più spaventarli.
    Sarà tormentato l'odorato. Che pena sarebbe trovarsi chiuso in una stanza con un cadavere fracido? «De cadaveribus eorum ascendit foetor» (Is. 34. 3). Il dannato ha da stare in mezzo a tanti milioni d'altri dannati, vivi alla pena, ma cadaveri per la puzza che mandano. Dice S. Bonaventura7 che se un corpo d'un dannato fosse cacciato dall'inferno, basterebbe a far morire per la puzza tutti gli uomini. E poi dicono alcuni pazzi: Se vado all'inferno, non sono solo. Miseri! quanti più sono nell'inferno, tanto più penano. «Ibi (dice S. Tommaso)8 miserorum societas miseriam non minuet, sed augebit» (S. Thom. Suppl. q. 89. a. 1). Più penano (dico) per la puzza, per le grida e per la strettezza; poiché staran nell'inferno l'un sopra l'altro, come pecore ammucchiate in tempo d'inverno: «Sicut oves in inferno positi sunt» (Psal. 48. 15). Anzi più, staran come uve spremute sotto il torchio dell'ira di Dio. «Et ipse calcat torcular vini furoris irae Dei» (Apoc. 19. 15). Dal che ne avverrà poi la pena dell'immobilità. «Fiant immobiles quasi lapis» (Exod. 15. 16). Sicché il dannato siccome caderà nell'inferno nel giorno finale, così avrà da restare senza cambiare più sito e senza poter più muovere né un piede, né una mano, per mentre Dio sarà Dio.
    Sarà tormentato l'udito cogli urli continui e pianti di quei poveri disperati. I demonii faranno continui strepiti. «Sonitus terroris semper in aure eius» (Iob. 15. 21). Che pena è quando si vuol dormire e si sente un infermo che continuamente si lamenta, un cane che abbaia, o un fanciullo che piange? Miseri dannati, che han da sentire di continuo per tutta l'eternità quei rumori e le grida di quei tormentati! Sarà tormentata la gola colla fame; avrà il dannato una fame canina: «Famem patientur ut canes» (Psal. 58. 15). Ma non avrà mai una briciola di pane. Avrà poi una tale sete, che non gli basterebbe tutta l'acqua del mare; ma non ne avrà neppure una stilla: una stilla ne domandava l'Epulone,9 ma questa non l'ha avuta ancora, e non l'avrà mai, mai.

    Affetti e preghiere.

    Ah mio Signore, ecco a' piedi vostri chi ha fatto tanto poco conto della vostra grazia e de' vostri castighi. Povero me, se Voi, Gesù mio, non aveste avuto di me pietà, da quanti anni starei in quella fornace puzzolente, dove già vi stanno ad ardere tanti pari miei! Ah mio Redentore, come pensando a ciò non ardo del vostro amore? come potrò per l'avvenire pensare ad offendervi di nuovo! Ah non sia mai, Gesu-Cristo mio, fatemi prima mille volte morire. Giacché avete cominciato, compite l'opera. Voi mi avete cacciato dal lezzo di tanti miei peccati, e con tanto amore mi avete chiamato ad amarvi; deh fate ora che questo tempo che mi date, io lo spenda tutto per Voi. Quanto desidererebbero i dannati un giorno, un'ora del tempo che a me concedete; ed io che farò? seguirò a spenderlo in cose di vostro disgusto? No, Gesù mio, non lo permettete, per li meriti di quel sangue, che sinora m'ha liberato dall'inferno. V'amo, o sommo bene, e perché v'amo mi pento di avervi offeso; non voglio più offendervi, ma sempre amarvi.
    Regina e Madre mia Maria, pregate Gesù per me, ed ottenetemi il dono della perseveranza e del suo santo amore.
    1 [13.] danno. Ch'è) danno, ch'è BR2.
    2 [24.] Apoc., 18, 7: «Quantum glorificavit se et in deliciis fuit, tantum date illi tormentum et luctum».
    3 [1.] METAPHRASTES, Sermones 24 selecti, sermo 14 de futuro iudicio, n. 2; PG 32, 1299: «Ut cum duae sint in igne facultates, quarum una comburit, altera illustrat... adeo ut supplicii quidem ignis obscurus sit... cuius quidem lumen, iustorum oblectamento: urendi vero molestia, puniendorum tribuetur ultioni». Cfr. S. BASILIUS M., Hom. in Ps. 28, n. 6: PG 29, 298: «Quamquam… ignis consiliis humanis insecabilis ac individuus videtur esse, nihilominus tamen Dei iussu interciditur ac dividitur…, adeo ut supplicii quidem ignis obscurus sit; lux vero requietis, vi careat comburendi». IDEM, Hom. in Ps. 33, n. 8; PG 29, 371: «Postea animo tibi fingas barathrum profundum, tenebras inextricabiles, ignem splendoris expertem, vim quidem urendi in tenebris habentem, sed luce destitutum».
    4 [3.] S. ALBERTUS M., Summa theologica, p. II, q. 12, membrum 2; Opera, XVIII, Lugduni 1651, 85, col. 2: «Unde Basilius etiam dicit super illud Ps. 18: Vox Domini intercidentis flammam ignis, quod in die iudicii lumen quod est in igne, ascendet ad locum beatorum: et ardor fuliginosus descendet ad locum damnatorum: et sic vox Domini sive praeceptum intercidit flammam ignis».
    5 [7.] Iud., 13, non Iac., 2, 13: «Iudicium enim sine misericordia illi, qui non fecit misericordiam».
    6 [7.] S. THOMAS, Suppl. III partis Summae theol., q. 97, a. 4, c.: «Unde simpliciter loquendo locus est tenebrosus; se tamen ex divina dispositione est ibi aliquid luminis, quantum sufficit ad videndum illa quae animam torquere possunt».
    7 [16.] Il testo è comune tra gli autori spirituali, che mai indicano il luogo preciso di s. Bonaventura: BESSEUS P., Conciones... super quatuor novissima. De inferno, concio 4; Venetiis 1617, 472: «Unde Isaias (XXXIV, 3): De cadaveribus eorum ascendet foetor; at tam enormis et pestilens, ut Bonaventura dicere ausus sit mundum universum confestim lue inficiendum, si vel unius damnati corpus in eum inferretur». DREXELIUS, Infermus damnatorum carcer et rogus, c. V, par. 2, Lugduni 1658, 156, col. 2: «Divus Bonaventura ausus est dicere: Si vel unius damnati cadaver in orbe hoc nostro sit, orbem totum ab eo inficiendum». ROSIGNOLI C. G., Verità eterne, lez. VI, parag. I: Bologna 1689, 105-106: «Più ebbe a dire S.
    Bonaventura che se il cadavere d'un dannato fosse tratto dall'inferno, e riposto sopra la superficie della terra ad esalare il suo lezzo, basterebbe ad appestare tutta la terra». Vedi anche SPANNER, op. cit., I, Venetiis 1709, 431.
    8 [3.] S. THOMAS, Suppl. III partis Summae theol., q. 89, a. 4, c.: «Nec ob hoc minuitur aliquid de daemonum poena, quia in hoc etiam quod alios torquent, ipsi torquebuntur: ibi enim miserorum societas miseriam non minuet, sed augebit».
    9 [25.] Luc., 16, 24: «Mitte Lazarum, ut intingat extremum digiti sui in aquam, ut refrigeret linguam meam, quia crucior in hac flamma».

    PUNTO II.

    La pena poi che più tormenta il senso del dannato, è il fuoco del l'inferno, che tormenta il tatto. «Vindicta carnis impii ignis, et vermis» (Eccli. 7. 19). Che perciò il Signore nel giudizio ne fa special menzione: «Discedite a me, maledicti, in ignem aeternum» (Matth. 41).1 Anche in questa terra la pena del fuoco è la maggior2 di tutte; ma vi è tanta differenza dal fuoco nostro a quello dell'inferno, che dice S. Agostino3 che 'l nostro sembra dipinto. «In eius comparatione noster hic ignis depictus est». E S. Vincenzo Ferreri dice che a confronto il nostro4 è freddo. La ragione è,5 perché il fuoco nostro è creato per nostro utile, ma il fuoco dell'inferno è creato da Dio a posta per tormentare. «Longe alius (dice Tertulliano)6 est ignis, qui usui humano, alius qui Dei iustitiae deservit». Lo sdegno di Dio accende questo fuoco vendicatore. «Ignis succensus est in furore meo» (Ier. 15. 14). Quindi da Isaia il fuoco dell'inferno è chiamato spirito d'ardore: «Si abluerit Dominus sordes... in spiritu ardoris» (Is. 4).7 Il dannato sarà mandato non al fuoco, ma nel fuoco: «Discedite a me, maledicti, in ignem aeternum». Sicché il misero sarà circondato dal fuoco, come un legno dentro una fornace. Si troverà il dannato con un abisso di fuoco da sotto,8 un abisso di sopra, e un abisso d'intorno. Se tocca, se vede, se respira; non tocca, non vede, né respira altro che fuoco. Starà nel fuoco come il pesce nell'acqua. Ma questo fuoco non solamente starà d'intorno al dannato, ma entrerà anche dentro le sue viscere a tormentarlo. Il suo corpo diventerà tutto di fuoco, sicché bruceranno le viscere dentro del ventre, il cuore dentro del petto, le cervella dentro il capo, il sangue dentro le vene, anche le midolla dentro l'ossa: ogni dannato diventerà in se stesso una fornace di fuoco. «Pone eos ut clibanum ignis» (Ps. 20. 10). Taluni non possono soffrire di camminare per una via battuta dal sole, di stare in una stanza chiusa con una braciera,9 non soffrire una scintilla, che svola da una candela; e poi non temono quel fuoco, che divora, come dice Isaia:
    «Quis poterit habitare de vobis cum igne devorante?» (Is. 33. 14). Siccome una fiera divora un capretto, così il fuoco dell'inferno divora il dannato; lo divora, ma senza farlo mai morire. Siegui pazzo, dice S. Pier Damiani10 (parlando al disonesto), siegui11 a contentare la tua carne, che verrà un giorno in cui le tue disonestà diventeranno tutte pece nelle tue viscere, che farà più grande e più tormentosa la fiamma che ti brucerà nell'inferno: «Venit dies, imo nox, quando libido tua vertetur in picem, qua se nutriat perpetuus ignis in tuis visceribus» (S. P. Dam. Epist. 6). Aggiunge S. Girolamo (Epist. ad Pam.)12 che questo fuoco porterà seco tutti i tormenti e dolori che si patiscono in questa terra; dolori di fianco e di testa, di viscere, di nervi: «In uno igne omnia supplicia sentiunt in inferno peccatores». In questo fuoco vi sarà anche la pena del freddo. «Ad nimium calorem transeat ab aquis nivium» (Iob. 24. 19). Ma sempre bisogna intendere che tutte le pene di questa terra sono un'ombra, come dice il Grisostomo,13 a paragone delle pene dell'inferno: «Pone ignem, pone ferrum, quid, nisi umbra ad illa tormenta?»Le potenze anche avranno il lor proprio tormento. Il dannato sarà tormentato nella memoria, col ricordarsi del tempo che ha avuto in questa vita per salvarsi, e l'ha speso per dannarsi; e delle grazie che ha ricevute da Dio, e non se ne ha voluto servire. Nell'intelletto, col pensare al gran bene che ha perduto, paradiso e Dio; e che a questa perdita non vi è più rimedio. Nella volontà, in vedere che gli sarà negata sempre ogni cosa che domanda. «Desiderium peccatorum peribit» (Ps. 111. 10). Il misero non avrà mai niente di quel che desidera, ed avrà sempre tutto quello che abborrisce, che saranno le sue pene eterne. Vorrebbe uscir da' tormenti, e trovar pace, ma sarà sempre tormentato, e non avrà mai pace.
    Affetti e preghiere.

    Ah Gesù mio, il vostro sangue e la vostra morte sono la speranza mia. Voi siete morto, per liberare me dalla morte eterna. Ah Signore, e chi più ha partecipato de' meriti della vostra passione, che io miserabile, il quale tante volte mi ho meritato l'inferno? Deh non mi fate vivere più ingrato a tante grazie che mi avete fatte. Voi m'avete liberato dal fuoco dell'inferno, perché non volete ch'io arda in quel fuoco di tormento, ma arda del dolce fuoco dell'amor vostro. Aiutatemi dunque, acciocché io possa compiacere il vostro desiderio. Se ora stessi nell'inferno, non vi potrei più amare; ma giacché posso amarvi, io vi voglio amare. V'amo bontà infinita, v'amo mio Redentore, che tanto mi avete amato. Come ho potuto vivere tanto tempo scordato di Voi! Vi ringrazio che Voi non vi siete scordato di me. Se di me vi foste scordato, o starei al presente nell'inferno, o non avrei dolore de' miei peccati. Questo dolore che mi sento nel cuore di avervi offeso, questo desiderio che provo di amarvi assai, son doni della vostra grazia, che ancora mi assiste. Ve ne ringrazio, Gesù mio. Spero per l'avvenire di dare a Voi la vita che mi resta. Rinunzio a tutto. Voglio solo pensare a servirvi e darvi gusto. Ricordatemi sempre l'inferno che mi ho meritato, e le grazie che mi avete fatte; e non permettete ch'io abbia un'altra volta a voltarvi le spalle, ed a condannarmi da me stesso a questa fossa di tormenti.
    O Madre di Dio, pregate per me peccatore. La vostra intercessione m'ha liberato dall'inferno, con questa ancora liberatemi, o Madre mia, dal peccato, che solo può condannarmi di nuovo all'inferno.
    1 [21.] Matth., 25, 41.
    2 [22.] maggior) maggiore VR BR1 BR2.
    3 [24.] V. BELLOVACENSIS, Spec. morale, l. II, p. 3, dist. 2, Venetiis 1591, f. 146, col. 4: «Augustinus de Civ. Dei... Item ignis iste ad comparationem illius non est nisi quasi umbra vel pictura». DREXELIUS, op. cit., c. VI, parag. I; Lugduni 1658, 159, col. 2: «Noster ignis Augustino pictus videtur, sed ille alter, verus». GISOLFO P., op. cit., p. I, disc. 17; II, Roma 1694, 506: «E 'l fuoco infernale ha tanta maggior attività, ha tanto più intenso ardore, che afferma S. Agostino, esservi quella differenza tra l'uno e l'altro fuoco, quale appunto è co 'l fuoco dipinto in un quadro, e tra il fuoco vero materiale: In cuius comparatione noster hic ignis depictus est: S. August., tom. 10, serm. 181 de tempore, fol. 691». Cfr. S. AUGUST., Enarratio in Ps. XLIX, n. 7; PL 36, 569: «Non erit iste ignis sicut focus tuus, quo tamen si manum mittere cogaris, facies quidquid voluerit qui hoc minatur». Cfr. CC 38, 580-81.
    4 [2.] il nostro) del nostro ND1 VR ND3 BR1 NS7: lo sbaglio è evidente pel controsenso che ne risulta; seguiamo la lezione più corretta «il» che si trova in BR2.
    5 [2.] Pare che s. Alfonso riferisca a senso il pensiero del Ferreri che sovente parla del fuoco infernale «intolerabilis» ed «inextinguibilis»: vedi VINCENTIUS FERRERI, Sermones hiemales, Venetiis 1573, 377; Sermones aestivales, Venetiis 1573, 195, 230, 472, 478; Sermones de Sanctis, Coloniae Agrippinae 1675, 560-61, ecc. Nei Sermoni compendiati, serm. X, n. 5; Napoli 1771, 40 s. Alfonso attribuisce la stessa idea a s. Anselmo.
    6 [4.] GISOLFO P., op. cit., disc. 17, 501: «Altro è il fuoco, che serve ad uso, e alle comodità degli uomini, dice Tertulliano, e altro è il fuoco, che serve alla divina giustizia: Longe alius est ignis, qui usui humano, alius qui Dei iustitiae deservit». Cfr. TERTULLIANUS, Apologeticus, c. 48; PL I, 527-528: «Noverunt philosophi diversitatem arcani et publici ignis. Ita longe alius est qui usui humano, alius qui iudicio Dei apparet… Et hoc erit testimonium ignis aeterni, hoc exemplum iusti iudicii poenam nutrientis. Montes uruntur et durant: quid nocentes et Dei hostes?» Cfr. CC I, 168.
    7 [8.] Is., 4, 4: «Si abluerit Dominus sordes filiarum Sion, et sanguinem Ierusalem laverit de medio eius, in spiritu iudicii et spiritu ardoris.»
    8 [12.] da sotto) di sotto VR BR1 BR2.
    9 [22.] un braciere.
    10 [4.] S. PETRUS DAMIANUS, De caelibatu sacerdotum, c. III; PL 145, 385: «Veniet profecto dies, imo nox, quando libido ista tua vertatur in picem, qua se perpetuus ignis in tuis visceribus inextinguibiliter nutriat, et medullas tuas simul et ossa indefectiva conflagratione depascat».
    11 [4.] Segui.
    12 [9.] MANSI, Bibliotheca mor. praedic., tr. 34, disc. 7; II, Venetiis 1703, 614 col. 2: «Siquidem in uno igne omnia supplicia sentiunt in inferno peccatores, ut inquit Hieronymus (Ep. I ad Pammach.)». Tra altri anche SEGNERI P., Cristiano Istruito, p. II, ragion. XVIII; Opere, III, Venezia 1742, 165, col. I, attribuisce con la stessa citazione a s. Girolamo il testo, che però manca nelle lettere genuine.
    13 [16.] GISOLFO P., op. cit., disc. XV; I, 437: «Onde S. Giovan Crisostomo: Pone, si libet, ignem, ferrum et bestias, et si quid his difficilius: attamen nec umbra sunt haec ad inferni tormenta». Cfr. CHRYS., In epist. ad Rom., hom. 31, n. 5; PG 60, 674: «Quid enim mihi grave dicere possis? Paupertatem, morbum, captivitatem, mutilationem corporis. Verum illa omnia risu sunt digna si cum supplicio illo [inferni] comparentur».

    PUNTO III

    Ma tutte queste pene son niente a rispetto della pena del danno. Non fanno l'inferno le tenebre, la puzza, le grida e 'l fuoco; la pena che fa l'inferno è la pena di aver perduto Dio. Dice S. Brunone:1 «Addantur tormenta tormentis, ac Deo non priventur» (Serm. de Iud. fin.). E S. Gio. Grisostomo:2 «Si mille dixeris gehennas, nihil par dices illius doloris» (Hom. 49. ad Pop.). Ed aggiunge S. Agostino3 che se i dannati godessero la vista di Dio, «nullam poenam sentirent, et infernus ipse verteretur in paradisum» (S. Aug. to. 9. de Tripl. hab.). Per intendere qualche cosa di questa pena, si consideri che se taluno perde (per esempio) una gemma, che valea 100 scudi, sente gran pena, ma se valea 200 sente doppia pena: se 400 più pena. In somma quanto cresce il valore della cosa perduta, tanto cresce la pena. Il dannato qual bene ha perduto? un bene infinito, ch'è Dio; onde dice S. Tommaso4 che sente una pena in certo modo infinita: «Poena damnati est infinita, quia est amissio boni infiniti» (D. Th. 1. 2. q. 87. a. 4).
    Questa pena ora solo si teme da' santi. «Haec amantibus, non contemnentibus poena est», dice S. Agostino.5 S. Ignazio di Loiola dicea:6 Signore, ogni pena sopporto, ma questa no, di star privo di Voi. Ma questa pena niente si apprende da' peccatori, che si contentano di vivere i mesi e gli anni senza Dio, perché i miseri vivono fra le tenebre. In morte non però han da conoscere il gran bene che perdono. L'anima in uscire da questa vita, come dice S. Antonino,7 subito intende ch'ella è creata per Dio: «Separata autem anima a corpore intelligit Deum summum bonum et ad illud esse creatam». Onde subito si slancia per andare ad abbracciarsi col suo sommo bene; ma stando in peccato, sarà da Dio discacciata. Se un cane vede la lepre, ed uno lo tiene con una catena, che forza fa il cane per romper la catena ed andare a pigliar la preda? L'anima in separarsi dal corpo, naturalmente è tirata a Dio, ma il peccato la divide da Dio, e la manda lontana all'inferno. «Iniquitates vestrae diviserunt inter vos, et Deum vestrum» (Is. 59. 2). Tutto l'inferno dunque consiste in quella prima parola della condanna: «Discedite a me, maledicti». Andate, dirà Gesu-Cristo, non voglio che vediate più la mia faccia. «Si mille quis ponat gehennas, nihil tale dicturus est, quale est exosum esse Christo» (Chrysost. hom. 24. in Matth.).8 Allorché Davide9 condannò Assalonne a non comparirgli più davanti, fu tale questa pena ad Assalonne che rispose: Dite a mio padre, che o mi permetta di vedere la sua faccia o mi dia la morte (2. Reg. 14. 24).10 Filippo II11 ad un grande che vide stare irriverente in chiesa, gli disse: Non mi comparite più davanti. Fu tanta la pena di quel grande, che giunto alla casa se ne morì di dolore. Che sarà, quando Dio in morte intimerà al reprobo: Va via che io non voglio vederti più. «Abscondam faciem ab eo, et invenient eum omnia mala» (Deut. 31. 17). Voi (dirà Gesù a' dannati nel giorno finale) non siete più miei, io non sono più vostro. «Voca nomen eius, non populus meus, quia vos non populus meus, et ego non ero vester» (Osea 1. 9). Che pena è ad un figlio, a cui gli muore il padre, o ad una moglie quando le muore lo sposo, il dire: Padre mio, sposo mio, non t'ho da vedere più. Ah se ora udissimo un'anima dannata che piange, e le chiedessimo: Anima, perché piangi tanto? Questo solo ella risponderebbe: Piango, perché ho perduto Dio, e non l'ho da vedere più. Almeno potesse la misera nell'inferno amare il suo Dio, e rassegnarsi alla sua volontà. Ma no; se potesse ciò fare, l'inferno non sarebbe inferno; l'infelice non può rassegnarsi alla volontà di Dio, perché è fatta nemica della divina volontà. Né può amare più il suo Dio, ma l'odia e l'odierà per sempre; e questo sarà il suo inferno, il conoscere che Dio è un bene sommo e il vedersi poi costretto ad odiarlo, nello stesso tempo che lo conosce degno d'infinito amore. «Ego sum ille nequam privatus amore Dei», così rispose quel demonio, interrogato chi fosse da S. Caterina da Genova.12 Il dannato odierà e maledirà Dio, e maledicendo Dio, maledirà anche i beneficii che gli ha fatti, la creazione, la redenzione, i sagramenti, specialmente del battesimo e della penitenza, e sopra tutto il SS. Sagramento dell'altare. Odierà tutti gli angeli e santi ma specialmente l'angelo suo custode e i santi suoi avvocati, e più di tutti la divina Madre; ma principalmente maledirà le tre divine Persone, e fra queste singolarmente il Figlio di Dio, che un giorno è morto per la di lei salute, maledicendo le sue piaghe, il suo sangue, le sue pene e la sua morte.

    Affetti e preghiere.

    Ah mio Dio, Voi dunque siete il mio sommo bene, bene infinito, ed io volontariamente tante volte v'ho perduto. Sapeva io già che col mio peccato vi da un gran disgusto, e che perdeva la vostra grazia, e l'ho fatto? Ah che se non vi vedessi trafitto in croce, o Figlio di Dio, morire per me, non avrei più animo di cercarvi13 e di sperare da Voi perdono. Eterno Padre, non guardate me, guardate questo amato Figlio, che vi cerca14 per me pietà; esauditelo, e perdonatemi. A quest'ora dovrei star nell'inferno da tanti anni senza speranza di potervi più amare, e di ricuperare la vostra grazia perduta. Dio mio, mi pento sopra ogni male di quest'ingiuria che v'ho fatta, di rinunziare alla vostr'amicizia e di disprezzare il vostro amore per li gusti miserabili di questa terra. Oh fossi morto prima mille volte! Come ho potuto essere così cieco e così pazzo! Vi ringrazio, Signor mio, che mi date tempo di poter rimediare al mal fatto. Giacché per misericordia vostra sto fuori dell'inferno, e vi posso amare, Dio mio, vi voglio amare. Non voglio più differire di convertirmi tutto a Voi. V'amo bontà infinita, v'amo15 mia vita, mio tesoro, mio amore, mio tutto. Ricordatemi sempre, o Signore, l'amore che mi avete portato, e l'inferno dove dovrei stare; acciocché questo pensiero mi accenda sempre a farvi atti d'amore e a dirvi sempre: io v'amo, io v'amo, io v'amo.
    O Maria Regina, speranza e Madre mia, se stessi nell'inferno, neppure potrei amar più Voi. V'amo Madre mia, e a Voi confido di non lasciare più d'amar Voi e 'l mio Dio. Aiutatemi, pregate Gesù per me.
    1 [31.] MANSI, op. cit., tr. 34, disc. 22; II, 646, col. 2: «Sanctus tamen Bruno in sermone de Iudicio finali, longe clarioribus verbis hanc ipsam confirmat veritatem, dicens: Addantur
    tormenta tormentis, et poenae poenis; saeviant saevius ministri; at Deo non privemur».
    2 [2.] DREXELIUS, Infernus damnatorum, c. II, parag. 2; Opera, I, Lugduni 1658, 148, col. 2: «Hic attonitus Chrysostomus: Nam si mille, ait, dixeris gehennas, nihil illius par dices doloris, quem sustinet anima. Intolerabilis gehenna est, confiteor, et multum intolerabilis, tamen intolerabilior haec regni amissio». Cfr. CHRYSOST., In ep. ad Philipp., c. IV, hom. 14, n. 4; PG 62, 280: «Si sexcentas gehennas attuleris, nihil par afferes dolori illi, quo tunc angitur anima, cum universus quatitur orbis... Intolerabilis res est gehenna, fateor, et valde quidem intolerabilis; attamen intolerabilius mihi videtur de regno cecidisse».
    3 [3.] Ps. AUGUSTINUS, De triplici habitaculo, l. unus, c. 4; PL 40, 995: «Cuius faciem si omnes carcere inferni inclusi viderent, nullam poenam, nullum dolorem nullamque tristitiam sentirent; cuius praesentia, si in inferno cum sanctis habitatoribus appareret, continuo infernus in amoenum converteretur paradisum». È in Appendice delle opere di s. Agostino, ma non è autentico (cfr. Glorieux, 28).
    4 [10.] S. THOMAS, Summa theol., I-II, q. 87, a. 4, c.: «Ex parte igitur aversionis, respondet peccato poena damni, quae etiam est infinita: est einm amissio infiniti boni, scilicet Dei».
    5 [14.] S. AUGUST., Enarrat. in Ps. XLIX, n. 7; PL 36, 569: «Si non veniret ignis die iudicii, et sola peccatoribus immineret separatio a facie Dei, in qualibet essent affluentia deliciarum, non videntes a quo creati sunt, et separati ab illa dulcedine ineffabili vultus eius, in qualibet aeternitate et impunitate peccati, plangere se deberent. Sed quid loquor, aut quibus loquor? Haec amantibus poena est, non contemnentibus». Cfr. CC 38, 580.
    6 [14.] ORLANDINI, Historia Societatis Iesu, l. X, nn. 55-62; Romae 1615, 318.
    7 [2.] S. ANTONINUS, Summa theol., p. I, tit. V, c. 3, parag. 3; Veronae 1740, col. 402: «Quum anima separatur a corpore, sibi subito infunduntur species omnium rerum naturalium… Et sic cognoscens quod Deus est summum bonum et summe utilis animae, videns se eo privatum sua miseria, quum capax fuerit adquirendi, summe dolet».
    8 [15.] CHRYSOST., In Matthaeum, hom. 23 (al. 24), n. 8; PG 57, 317: «Intolerabilis quippe est illa gehenna illaque poena. Attamen licet mille quis gehennas proposuerit, nihil tale dicturus est, quale est ex beata illa excidere gloria, Christo exosum esse, audire ab illo: Non novi vos».
    9 [15.] Davide) Davidde VR BR1 BR2.
    10 [18.] II Reg., 14, 32.
    11 [18.] SINISCALCHI L., La scienza della salute, med. V, punto 2; Padova 1773, 136: «Due cavalieri in Ispagna tosto che udirono dal re Filippo II in pena della poca compostezza, con cui stavano in chiesa: Non mi comparite più innanzi, tornati a casa ne morirono per la doglia».
    12 [14.] PEPE F., Discorsi in lode di Maria SS. per tutti i sabbati dell'anno, II, Napoli 1756, 228: «Dimandato un demonio dalla B. Catarina da Genova chi egli si fusse. Dopo un profondo sospiro, rispose: Sono un infelice spirito senza amor di Dio». Alquanto diversamente racconta il fatto ROSIGNOLI C. G., Verità eterne, Bologna 1689, 325: «Imperocché, scongiurandosi un demonio dell'inferno nel corpo di un'energumena, e costretto dal sacerdote cogli esorcismi, a manifestare il suo nome disse con voce lacrimevole: Ego sum ille nequam privatus amore Dei. Io son lo scelerato privo dell'amor di Dio. Alle quali parole la B. Caterina di Genova ivi presente tanto s'inorridì, che come percossa da un fulmine esclamò: Oh orribile miseria, esser privo dell'amor di Dio! Oh inferno degl'inferni, esser privo dell'amor di Dio». Cfr. MARABOTTO, Vita ammirabile e dottrina celeste di S. Caterina Fiesca Adorna, c. XIV, n. 12; Padova 1743, 59-60.
    13 [3.] cercarvi) chiedervi VR BR1 BR2.
    14 [5.] cerca) chiede VR BR1 BR2.
    15 [15.] v'amo) vi amo BR2.

    CONSIDERAZIONE XXVII –
    DELL'ETERNITÀ DELL'INFERNO

    «Et ibunt hi in supplicium aeternum» (Matth. 25. 46).

    PUNTO I

    Se l'inferno non fosse eterno, non sarebbe inferno. Quella pena che non dura molto, non è gran pena. A quell'infermo si taglia una postema, a quell'altro si foca una cancrena; il dolore è grande, ma perché finisce tra poco, non è gran tormento. Ma qual pena sarebbe, se quel taglio o quell'operazione di fuoco continuasse per una settimana, per un mese intero?1 Quando la pena è assai lunga, ancorché sia leggiera, come un dolore d'occhi, un dolore di mole, si rende insopportabile. Ma che dico dolore? anche una commedia, una musica che durasse troppo, o fosse per tutto un giorno, non potrebbe soffrirsi per lo tedio. E se durasse un mese? un anno? Che sarà l'inferno? dove non si ascolta sempre la stessa commedia, o la stessa musica: non vi è solo un dolore d'occhi, o di mole: non si sente solamente il tormento d'un taglio, o di un ferro rovente, ma vi sono tutti i tormenti, tutti i dolori; e per quanto tempo? per tutta l'eternità: «Cruciabuntur die ac nocte in saecula saeculorum» (Apoc. 20. 10).
    Quest'eternità è di fede; non è già qualche opinione, ma è verità attestataci da Dio in tante Scritture: «Discedite a me, maledicti, in ignem aeternum» (Matth. 25. 41). «Et hi ibunt in supplicium aeternum» (Ibid. num. 46). «Poenas dabunt in interitu aeternas» (2. Thess. 1. 9). «Omnis igne salietur» (Marc. 9. 48). Siccome il sale conserva le cose, così il fuoco dell'inferno nello stesso tempo che tormenta i dannati, fa l'officio di sale conservando loro la vita. «Ignis ibi consumit (dice S. Bernardo),2 ut semper reservet» (Medit. cap. 3).
    Or qual pazzia sarebbe quella di taluno, che per pigliarsi una giornata di spasso, si volesse condannare a star chiuso in una fossa per venti, o trenta anni? Se l'inferno durasse cent'anni; che dico cento? durasse non più che due o tre anni, pure sarebbe una gran pazzia, per un momento di vil piacere, condannarsi a due o tre anni di fuoco. Ma non si tratta di trenta, di cento, né di mille, né di cento mila anni; si tratta d'eternità, si tratta di patire per sempre gli stessi tormenti, che non avranno mai da finire, né da alleggerirsi un punto. Hanno avuto ragione dunque i santi, mentre stavano in vita, ed anche in pericolo di dannarsi, di piangere e tremare. Il B. Isaia3 anche mentre stava nel deserto tra digiuni e penitenze, piangeva dicendo: Ah misero me, che ancora non sono libero dal dannarmi! «Heu me miserum, quia nondum a gehennae igne sum liber!»




    Affetti e preghiere.

    Ah mio Dio, se mi aveste mandato all'inferno, come già più volte l'ho meritato, e poi me ne aveste cacciato per vostra misericordia, quanto ve ne sarei restato obbligato? ed indi qual vita santa avrei cominciato a fare? Ed ora che con maggior misericordia Voi mi avete preservato dal cadervi, che farò Tornerò ad offendervi e provocarvi a sdegno, affinché proprio mi mandiate ad ardere in quella carcere de' vostri ribelli, dove tanti già ardono per meno peccati de' miei? Ah mio Redentore, così ho fatto per lo passato; in vece di servirmi del tempo che mi davate per piangere i miei peccati, l'ho speso a più sdegnarvi. Ringrazio la vostra bontà infinita, che tanto mi ha sopportato. S'ella non era infinita, e come mai avrebbe potuto soffrirmi? Vi ringrazio dunque di avermi con tanta pazienza aspettato sinora; e vi ringrazio sommamente della luce che ora mi date, colla quale mi fate conoscere la mia pazzia e il torto che vi ho fatto in oltraggiarvi con tanti miei peccati. Gesù mio, li detesto e me ne pento con tutto il cuore; perdonatemi per la vostra passione; ed assistetemi colla vostra grazia, acciocché più non vi offenda. Giustamente or debbo temere che ad un altro peccato mortale Voi mi abbandoniate. Ah Signor mio, vi prego, mettetemi avanti gli occhi questo giusto timore, allorché il demonio mi tenterà di nuovo ad offendervi. Dio mio, io vi amo, né vi voglio più perdere; aiutatemi colla vostra grazia.
    Aiutatemi, o Vergine SS., fate ch'io sempre ricorra a Voi nelle mie tentazioni, acciocché non perda più Dio. Maria, Maria4 Voi siete la speranza mia.
    1 [10.] intero) intiero ND1 VR BR1 BR2.
    2 [27.] PS. BERNARDUS, Medit. piissimae de cognitione humanae conditionis, c. III, n. 10; PL 184, 491: «Sic enim ignis consumit, ut semper reservet; sic tormenta aguntur, ut semper renoventur» (cfr. Glorieux, 71).
    3 [8.] SPANNER A., Polyanthea sacra, I, Venetiis 1709: «Me miserum! me miserum! quia nondum a gehennae igne sum liber: nondum mihi constat, quoniam hinc sim profecturus». Cfr. S. ISAIAS Ab., Orationes, or. XIV, n. I; PG 40, 1139: «Me miserum, me miserum, quia nondum a gehennae igne sum liber. Qui ad illam homines detrahunt, adhuc in me operantur: et omnia opera eius moventur in corde meo». Alcuni scrivono anche: Esaias.
    4 [5.] Maria, om. una volta in BR1 BR2.

    PUNTO II

    Chi entra una volta nell'inferno, di là non uscirà più in eterno. Questo pensiero facea tremare Davide,1 dicendo: «Neque absorbeat me profundum, neque urgeat super me puteus os suum» (Ps. 68. 16). Caduto ch'è il dannato in quel pozzo di tormenti, si chiude la bocca e non si apre più. Nell'inferno v'è porta per entrare, ma non v'è porta per uscire: «Descensus erit (dice Eusebio Emisseno),2 ascensus non erit». E così spiega le parole del Salmista: «Neque urgeat os suum; quia cum susceperit eos, claudetur sursum, et aperietur deorsum». Fintanto che il peccatore vive, sempre può avere speranza di rimedio, ma colto ch'egli sarà dalla morte in peccato, sarà finita per lui ogni speranza. «Mortuo homine impio, nulla erit ultra spes» (Prov. 11. 7). Almeno potessero i dannati lusingarsi con qualche falsa speranza, e così trovare qualche sollievo alla loro disperazione. Quel povero impiagato, confinato in un letto, è stato già disperato da' medici di poter guarire; ma pure si lusinga, e si consola con dire: Chi sa se appresso si troverà qualche medico e qualche rimedio che mi sani. Quel misero condannato alla galea in3 vita anche si consola, dicendo: Chi sa che può succedere, e mi libero da queste catene. Almeno (dico) potesse il dannato dire similmente così, chi sa se un giorno uscirò da questa prigione; e così potesse ingannarsi almeno con questa falsa speranza. No, nell'inferno non v'è alcuna speranza né vera né falsa, non vi è «chi sa». «Statuam contra faciem» (Ps. 49. 21). Il misero si vedrà sempre innanzi agli occhi scritta la sua condanna, di dover sempre stare a piangere in quella fossa di pene: «Alii in vitam aeternam, et alii in opprobrium, ut videant semper» (Dan. 12. 2). Onde il dannato non solo patisce quel che patisce in ogni momento, ma soffre in ogni momento la pena dell'eternità, dicendo: Quel che ora patisco, io l'ho da patire per sempre. «Pondus aeternitatis sustinet», dice Tertulliano.4
    Preghiamo dunque il Signore, come pregava S. Agostino «Hic ure, hic seca, hic non parcas, ut in aeternum parcas». I castighi di questa vita passano. «Sagittae tuae transeunt, vox tonitrui tui in rota» (Ps. 76. 18). Ma i castighi dell'altra vita non passano mai. Di questi temiamo; temiamo di quel tuono («vox tonitrui tui in rota»), s'intende di quel tuono della condanna eterna, che uscirà dalla bocca del giudice nel giudizio contro i reprobi: «Discedite a me, maledicti, in ignem aeternum».6 E dice, «in rota»; la ruota è figura dell'eternità, a cui non si trova termine. «Eduxi gladium meum de vagina sua irrevocabilem» (Ez. 21. 5). Sarà grande il castigo dell'inferno, ma ciò che più dee atterrirci, è che sarà castigo irrevocabile.
    Ma come, dirà un miscredente, che giustizia è questa? castigare un peccato che dura un momento con una pena eterna? Ma come (io rispondo) può aver l'ardire un peccatore per un gusto d'un momento offendere un Dio d'infinita maestà? Anche nel giudizio umano (dice S. Tommaso, I. 2. q. 87. a. 3)7 la pena non si misura secondo la durazione del tempo, ma secondo la qualità del delitto: «Non quia homicidium in momento committitur, momentanea poena punitur». Ad un peccato mortale un inferno è poco: all'offesa d'una maestà infinita si dovrebbe un castigo infinito, dice S. Bernardino da Siena:8 «In omni peccato mortali infinita Deo contumelia irrogatur; infinitae autem iniuriae infinita debetur poena». Ma perché, dice l'Angelico9 la creatura non è capace di pena infinita nell'intensione, giustamente fa Dio che la sua pena sia infinita nella estensione.
    Oltreché questa pena dee esser necessariamente eterna, prima perché il dannato non può più soddisfare per la sua colpa. In questa vita intanto può soddisfare il peccator penitente, in quanto gli sono applicati i meriti di Gesu-Cristo; ma da questi meriti è escluso il dannato; onde non potendo egli placare più Dio, ed essendo eterno il suo peccato, eterna dee essere ancora la sua pena. «Non dabit Deo placationem suam, laborabit in aeternum» (Ps. 48. 8). Quindi dice il Belluacense (lib. 2. p. 3):10 «Culpa semper poterit ibi puniri, et nunquam poterit expiari»; poiché al dire di S. Antonino11 «ibi peccator poenitere non potest»;12 e perciò il Signore starà sempre con esso sdegnato. «Populus cui iratus est Dominus usque in aeternum» (Malach. 1. 4). Di più il dannato, benché Dio volesse perdonarlo, non vuol esser perdonato, perché la sua volontà è ostinata e confermata nell'odio contro Dio. Dice Innocenzo III:13 «Non humiliabuntur reprobi, sed malignitas odii in illis excrescet» (Lib. 3. de Cont. mundi c. 10). E S. Girolamo:14 «Insatiabiles sunt in desiderio peccandi» (In Proverb. 27). Ond'è che la piaga del dannato è disperata, mentre ricusa anche il guarirsi. «Factus est dolor eius perpetuus, et plaga desperabilis renuit curari» (Ier. 15. 18).15

    Affetti e preghiere.

    Dunque, mio Redentore, se a quest'ora io fossi dannato, siccome ho meritato, starei ostinato nell'odio contro di Voi, mio Dio, che siete morto per me? Oh Dio, e qual inferno sarebbe questo, odiare Voi che mi avete tanto amato, e siete una bellezza infinita, una bontà infinita, degna d'infinito amore! Dunque, se ora stessi nell'inferno, starei in uno stato sì infelice, che neppure vorrei il perdono ch'ora Voi m'offerite? Gesù mio, vi ringrazio della pietà che m'avete usata, e giacché ora posso essere perdonato, e posso amarvi, io voglio esser perdonato e voglio amarvi. Voi m'offerite il perdono, ed io ve lo domando, e lo spero per li meriti vostri. Io mi pento di tutte l'offese che v'ho fatte, o bontà infinita, e Voi perdonatemi. Io v'amo con tutta l'anima mia. Ah Signore, e che male Voi mi avete fatto, che avessi ad odiarvi come mio nemico per sempre? E quale amico ho avuto io mai, che ha fatto e patito per me, quel che avete fatto e patito Voi, o Gesù mio? Deh non permettete ch'io cada più in disgrazia vostra, e perda il vostro amore; fatemi prima morire, ch'abbia a succedermi questa somma ruina.
    O Maria, chiudetemi sotto il vostro manto, e non permettete ch'io n'esca più a ribellarmi contro Dio e contro Voi.
    1 [9.] Davide) Davidde VR BR1 BR2.
    2 [14.] EUSEBIUS EMISSENUS, Homil. de Epiphania, hom. 3; Opera, Parisiis 1575, f. 247: «Ardens inferni puteus aperietur, descensus erit, reditus non erit… Ideo autem dixit: Neque urgeat puteus super me os suum: quia cum susceperit reos claudetur sursum, et aperietur deorsum, dilatabitur in profundum, nullum spiramen, nullus liber anhelitus, claustris desuper urgentibus, relinquetur». Cfr. Maxima Bibl. Patrum, VI, Lugduni 1677, 655. Circa l'attribuzione di queste Omilie ad Eusebio Emisseno o ad Eusebio Gallicano, vedi PG 86, 287-291, 461-464.
    3 [24.] Meglio: a vita.
    4 [8.] NEPVEU F., Riflessioni cristiane, I, Venezia 1721, 26: «I dannati in ogni momento, dice Tertulliano, sostengono il peso di tuta l'eternità: Pondus aeternitatis sustinent». HOUDRY V., Bibl. concionatoria, Infernus, parag. VI; II, Venetiis 1764, 345: «Damnati quolibet momento, Tertullianus ait, totius aeternitatis sustinent pondus». Vedi pure [SARNELLI G.], La via facile e sicura del paradiso, I, Napoli 1738, 311. Cfr. TERTULLIANUS, Apologet., c. 48; PL 1, 527: «Tunc restituetur omne humanum genus ad expungendum quod in isto aevo boni seu mali meruit, et exinde pendendum in immensam aeternitatis perpetuitatem». CC I, 167-68.
    5 [10.] DREXELIUS, De aeternitate, cons. V, n. 3; Opera, I, Lugduni 1658, 15: «Hinc tam serio clamat et precatur Augustinus: Domine, hic ure, hic seca, modo in aeternum parcas». La frase è ripetuta da molti autori ascetici, ma in s. Agostino non si trova che l'idea: S. AUGUST., Enarrat. in Ps. XXXIII, sermo II, n. 20; PL 36, 319: «Ideo [Deus] videtur non exaudire, ut sanet et parcat in sempiternum». CC 38, 295. ID., Sermo 70, n. 2; PL 38, 443.
    6 [17.] Matth., 25, 41.
    7 [25.] S. THOMAS, Summa theol., I-II, q. 87, a. 3, ad I: «In nullo iudicio requiritur ut poena adaequetur culpae secundum durationem. Non enim quia adulterium vel homicidium in momento committitur, propter hoc momentanea poena punitur».
    8 [4.] S. BERNARDINUS SEN., Quadragesimale de Evang. aeterno, sermo XII, a. 2, c. 2; Opera, II, Venetiis 1745, 76: «In omni peccato mortali, infinita Deo contumelia irrogatur... Infinitae autem iniuriae vel contumeliae, infinita de iure debetur poena». Op. omnia, III, Ad Claras Aquas 1956, 237.
    9 [6.] S. THOMAS, Supplem. III partis, q. 99, a. I, c.: «Unde, cum non posset esse infinita poena per intensionem, quia creatura non est capax alicuius qualitati infinitae; requiritur quod sit saltem duratione infinita». Cfr. anche S. ANTONINUS, Summa theol., tit. V, c. 3; IV, Veronae 1740, col. 400: «Poena autem infinita non potest esse secundum intensionem, quia sic consumeret naturam; oportet ergo ut sit infinita secundum extensionem, id est, secundum durationem, ut sic poena respondeat culpae».
    10 [16.] V. BELLOVACENSIS, Spec. morale, l. II, p. 3, dist. 3; Venetiis 1591, 147, col. 3: «Quia culpa semper poterit ibi puniri, et numquam poterit expiari, sic nec in corpore poterunt tormenta finiri, nec corpus ipsum tormentis examinari».
    11 [17.] S. Antonino) S. Antonio, G. Antonelli (1833); S. Agostino, Marietti, (1846).
    12 [17.] S. ANTONINUS, op. cit., p. IV, tit. 14, c. 5, parag. II; IV, Veronae 1740, col. 792: «In vita praesenti habent etiam maximi peccatores subsidium multiplex a Deo praecipue per poenitentiam... Sed damnatus non dabit Deo placationem suam, in psal. XLVIII, quia poenitere non potest... In inferno quis confitebitur tibi? quasi diceret, nullus, ita nec contritio nec satisfactio». A proposito di questa citazione vedi Introduzione generale, Restituzione del Testo, 99-100.
    13 [1.] INNOCENTIUS III, De contemptu mundi, l. III, c. 10; PL 217, 741: «Non humiliabuntur reprobi iam desperati de venia, sed malignitas odii tantum in illis excrescet, ut velint illum omnino non esse, per quem sciunt se tam infeliciter esse».
    14 [3.] STRABUS W., Glossa ordinaria in Prov. XXVII, 20; PL 113, 1110 (cfr. Prol. 11, ss.): «Inferni tormenta non replentur, terminum accipiendo. Similiter et intentionem eorum qui terrena sapiunt, insatiabiles sunt in desiderio peccandi. Ideo enim sine fine puniuntur, quia voluntatem habuerunt sine fine peccandi, si naturam haberent sine fine vivendi».
    15 [5.] Ier., 15, 18: «Quare factus est dolor meus perpetuus, et plaga mea desperabilis renuit curari?»
    PUNTO III
    La morte in questa vita è la cosa più temuta da peccatori, ma nell'inferno sarà la più desiderata. «Quaerent mortem, et non invenient; et desiderabunt mori, et mors fugiet ab eis» (Apoc. 9. 6). Onde scrisse S. Girolamo:1 «O mors quam dulcis esses, quibus tam amara fuisti!» (Ap. S. Bon. Soliloq.). Dice Davide2 che la morte si pascerà de' dannati: «Mors depascet eos» (Psal. 48. 15). Spiega S. Bernardo3 che siccome la pecora pascendosi dell'erba, si ciba delle frondi, ma lascia le radici, così la morte si pasce de' dannati, gli uccide ogni momento, ma lascia loro la vita per continuare ad ucciderli colla pena in eterno: «Sicut animalia depascunt herbas, sed remanent radices; sic miseri in inferno corrodentur a morte, sed iterum reservabuntur ad poenas». Sicché dice S. Gregorio4 che il dannato muore ogni momento senza mai morire: «Flammis ultricibus traditus semper morietur» (Lib. Mor. c. 12). Se un uomo muore ucciso dal dolore, ognuno lo compatisce; almeno il dannato avesse chi lo compatisse. No, muore il misero per lo dolore ogni momento, ma non ha, né avrà mai chi lo compatisca. Zenone imperadore,5 chiuso in una fossa, gridava: Apritemi per pietà. Non fu da niuno inteso, onde fu ritrovato morto da disperato, poiché si avea mangiate le stesse carni delle sue braccia. Gridano i presciti dalla fossa dell'inferno, dice S. Cirillo Alessandrino,6 ma niuno viene a cacciarneli, e niuno ne ha compassione: «Lamentantur, et nullus eripit; plangunt et nemo compatitur».
    E questa loro miseria per quanto tempo durerà? per sempre, per sempre. Narrasi negli Esercizi spirituali del P. Segneri Iuniore (scritti dal Muratori)7 che in Roma essendo dimandato il demonio, che stava nel corpo d'un ossesso, per quanto tempo doveva star nell'inferno; rispose con rabbia, sbattendo la mano su d'una sedia: «Sempre, sempre». Fu tanto lo spavento, che molti giovani del Seminario Romano, che ivi si trovavano, si fecero una confessione generale, e mutarono vita a questa gran predica di due parole: «Sempre, sempre». Povero Giuda! son passati già mille e settecento anni che sta nell'inferno, e l'inferno suo ancora è da capo. Povero Caino! egli sta nel fuoco da cinque mila e 700 anni, e l'inferno suo è da capo. Fu interrogato un altro demonio,8 da quanto tempo era andato all'inferno, e rispose: «Ieri». Come ieri, gli fu detto, se tu sei dannato da cinque mila e più anni? Rispose di nuovo: Oh se sapessivo9 9a che viene a dire eternità, bene intendereste che cinque mila anni non sono a paragone neppure un momento. Se un angelo dicesse ad un dannato: Uscirai dall'inferno, ma quando son passati tanti secoli, quante sono le goccie dell'acqua, le frondi degli alberi e le arene del mare, il dannato farebbe più festa, che un mendico in aver la nuova10 d'esser fatto re. Sì, perché passeranno tutti questi secoli, si moltiplicheranno infinite volte, e l'inferno sempre sarà da capo. Ogni dannato farebbe questo patto con Dio: Signore, accrescete la pena mia quanto volete; fatela durare quanto vi piace; metteteci termine, e son contento. Ma no, che questo termine non vi sarà mai. La tromba della divina giustizia non altro suonerà nell'inferno che «sempre, sempre, mai, mai».
    Dimanderanno i dannati ai demoni: A che sta la notte? «Custos, quid de nocte?» (Is. 21. 11). Quando finisce? quando finiscono queste tenebre, queste grida, questa puzza, queste fiamme, questi tormenti? E loro è risposto: «Mai, mai». E quanto dureranno? «Sempre, sempre». Ah Signore, date luce a tanti ciechi, che pregati a non dannarsi, rispondono: All'ultimo, se vado all'inferno, pazienza. Oh Dio, essi non hanno pazienza di sentire un poco di freddo, di stare in una stanza troppo calda, di soffrire una percossa; e poi avranno pazienza di stare in un mar di fuoco, calpestati da' diavoli e abbandonati da Dio e da tutti per tutta l'eternità!

    Affetti e preghiere.

    Ah Padre delle misericordie, Voi non abbandonate chi vi cerca. «Non dereliquisti quaerentes te, Domine» (Psal. 9. 11). Io per lo passato vi ho voltate tante volte le spalle, e Voi non mi avete abbandonato: non mi abbandonate ora che vi cerco. Mi pento, o sommo bene, di aver fatto tanto poco conto della vostra grazia, che l'ho cambiata per niente. Guardate le piaghe del vostro Figlio, udite le sue voci, che vi pregano a perdonarmi, e perdonatemi. E Voi, mio Redentore, ricordatemi sempre le pene che avete patito per me,11 l'amore, che mi avete portato, e l'ingratitudine mia, per cui tante volte mi ho meritato l'inferno: acciocché io pianga sempre il torto che vi ho fatto, e viva sempre ardendo del vostro amore. Ah Gesù mio, come non arderò del vostro amore, pensando che da tanti anni dovrei ardere nell'inferno, e seguire ad ardere per tutta l'eternità, e che Voi siete morto per liberarmene, e con tanta pietà me ne avete liberato? Se fossi nell'inferno, ora vi odierei, e vi avrei da odiare per sempre; ma ora v'amo, e voglio amarvi per sempre. Così spero al12 sangue vostro. Voi mi amate, ed io ancora v'amo. Voi mi amerete sempre, se io13 non vi lascio. Ah mio Salvatore, salvatemi da questa disgrazia ch'io abbia a lasciarvi, e poi fatene di me quel che volete. Io merito ogni castigo, ed io l'accetto, acciocché mi liberiate dal castigo d'esser privo del vostro amore.
    O Maria rifugio mio, quante volte io stesso mi son condannato all'inferno, e Voi me ne avete liberato? Deh liberatemi ora dal peccato, che solo può privarmi della grazia di Dio e portarmi all'inferno.
    1 [5.] S. BONAVENTURA, Soliloquium, c. III; Opera, VII, Lugduni 1668, 118: «Ad districti ergo iudicis iustitiam pertinet, ut numquam careant supplicio, quorum mens in hac vita numquam voluit carere peccato. Hieronymus: O mors, quam dulcis esses quibus tam amara fuisti! Te solummodo desiderant, qui te vehementer odiebant». Nell'edizione critica del Soliloquium è stata soppressa l'attribuzione del testo a s. Girolamo: cfr. S. BONAVENTURA, Soliloquium, c. III, parag. 3; Opera, VIII, Ad Claras Aquas 1898, 54.
    2 [6.] Davide) Davidde VR BR1 BR2.
    3 [7.] S. BERNARDINUS SEN., Quadrag. de Evang. aeterno, sermo XI, art. III, c. 3, parag. 3; Opera, II, Venetiis 1745, 73: «Sicut enim animalia depascunt herbas, quia penitus non eradicant eas, sed remanent radices, unde iterum crescit herba: sic miseri in inferno corrodentur a morte, sed afflicti iterum reservabuntur ad poenas». Op. omnia, III, Ad Claras Aquas 1956, 227.
    4 [13.] S. GREGORIUS M., Moralia in Iob, l. XV, c. 17, n. 21; PL 75, 1092: «Damnati semper moriuntur numquam morte consumendi. Persolvit enim in tormento ea quae hic illicite servavit desideria; et, flammis ultricibus traditus, semper moritur, quia semper in morte servatur».
    5 [18.] BARONIUS C., Annales Ecclesiastici, an. 491, n. 1; VIII, Lucae 1741, 532: «Satellites porro, qui ad sepulcrum, in quo repositus fuit, custodiendum erant collocati, retulerunt se per duas noctes lamentabilem vocem audivisse ex sepulcro elatam: Miseremini et aperite mihi… Sed cum non aperirent, ferunt... inventum Zenonem, qui prae fame suos ipse lacertos mandiderat, et caligas quas portabat».
    6 [3.] S. CYRILLUS ALEX., Homilia 14, De exitu animi et de secundo adventu; PG 77, 1075, 1078: «Illic vae, vae perpetuo, illic eheu, illic vociferantur, nec est qui succurrat; clamant, nec ullus est qui liberet... Gemunt continenter et sine intermissione, sed nullus est qui misereatur… lamentantur, sed nullus est qui liberet. Exclamant, et plangunt, sed nullus est qui commoveatur».
    7 [8.] MURATORI L. A., Esercizi spirituali esposti secondo il metodo del P. Paolo Segneri iuniore, med. sopra l'inferno; Venezia 1739, 222: «Scongiurando in Roma un valente esorcista una persona indemoniata, e venendogli in pensiero, che quello spirito desse qualche buon avvertimento a gli astanti, l'interrogò dove stesse allora. Rispose: Nell'inferno. E per quanto tempo, replicò il religioso, hai tu da starvi? Ripugnò un pezzo il maligno: ma vinto dal comando proruppe in fine con voce miserabilissima in queste parole: Per sempre, per sempre, sbuffando, e battendo ogni volta le mani in terra con incredibil furia… Era ivi presente per curiosità gran numero di cavalieri, e d'altra gente; e tale spavento s'impresse in tutti, che tutti perderono la parola. Basta dire che molti andarono tosto a fare una confessione generale, ed alcuni migliorarono notabilmente la vita loro, mossi da quella gran predica fatta lor dal demonio in una sola parola: Per sempre».
    8 [17.] PEPE F., op. cit., I, Napoli 1756, 305: «Dimandato un demonio da quanto tempo era stato scacciato dal cielo. Ieri, rispose. Bugiardo, ripigliò l'esorcista. Se sapessi, che cosa è eternità, ripigliò il demonio, tutt'il tempo dalla creazione del mondo fino a questo punto lo riputeresti un'ora».
    9 [19.] sapessivo) sapeste VR BR1 BR2.
    9a [19.] Dialettismo: sapeste.
    10 [4.] nuova) nova NS7.
    11 [29.] sempre le pene che avete patito per me, rigo om. NS7.
    12 [3.] spero al) spero nel VR BR1 BR2.
    13 [4.] se io) s'io VR BR1 BR2.

    CONSIDERAZIONE XXVIII
    RIMORSI DEL DANNATO

    «Vermis eorum non moritur» (Marc. 9. 47).
    PUNTO I

    Per questo verme che non muore, spiega S. Tommaso1 che s'intende il rimorso di coscienza, dal quale eternamente sarà il dannato tormentato nell'inferno. Molti saranno i rimorsi2 con cui la coscienza roderà il cuore de' reprobi, ma tre saranno i rimorsi3 più tormentosi: il pensare al poco per cui si son dannati: al poco che dovean fare per salvarsi: e finalmente al gran bene che han perduto. Il primo rimorso4 dunque che avrà il dannato sarà il pensare per quanto poco s'è perduto. Dopo che Esaù ebbesi cibato di quella minestra di lenticchie, per cui avea5 venduta la sua primogenitura, dice la Scrittura che per lo dolore e rimorso della perdita fatta si pose ad urlare: «Irrugiit clamore magno» (Gen. 27. 34). Oh quali altri urli e ruggiti darà il dannato pensando che per poche soddisfazioni momentanee e avvelenate si ha perduto un regno eterno di contenti, e si ha da vedere eternamente condannato ad una continua morte! Onde piangerà assai più amaramente, che non piangeva Gionata, allorché videsi condannato a morte da Saulle suo padre, per essersi cibato d'un poco di mele.6 «Gustans gustavi paulum mellis, et ecce morior» (1. Reg. 14. 43). Oh Dio, e qual pena apporterà al dannato il vedere allora la causa della sua dannazione? Al presente che cosa a noi sembra la nostra vita passata, se non un sogno, un momento? Or che pareranno a chi sta nell'inferno quelli cinquanta, o sessanta anni di vita, che avrà vivuti in questa terra, quando si troverà7 nel fondo dell'eternità, in cui saranno già passati cento e mille milioni d'anni, e vedrà che la sua eternità allora comincia! Ma che dico cinquanta anni di vita? cinquanta anni tutti forse di gusti? e che forse il peccatore vivendo senza Dio, sempre gode ne' suoi peccati? quando durano i gusti del peccato? durano momenti; e tutto l'altro tempo per chi vive in disgrazia di Dio, è tempo di pene e8 di rancori. Or che pareranno quelli momenti di piaceri al povero dannato? e specialmente che parerà quell'uno ed ultimo peccato fatto, per lo quale s'è perduto? Dunque (dirà) per un misero gusto brutale ch'è durato un momento, e appena avuto è sparito come vento, io avrò da stare ad ardere in questo fuoco, disperato ed abbandonato da tutti, mentre Dio sarà Dio per tutta l'eternità!

    Affetti e preghiere.

    Signore, illuminatemi a conoscere l'ingiustizia che v'ho usata in offendervi, e 'l castigo eterno che con ciò mi ho meritato. Mio Dio, sento una gran pena di avervi offeso, ma questa pena mi consola; se Voi mi aveste mandato all'inferno, come io ho meritato, questo rimorso sarebbe l'inferno del mio inferno, pensando per quanto poco mi son dannato; ma ora questo rimorso (dico) mi consola, perché mi dà animo a sperare il perdono da Voi, che avete promesso di perdonare chi si pente. Sì, mio Signore, mi pento di avervi oltraggiato, abbraccio questa dolce pena, anzi vi prego ad accrescermela e a conservarmela sino alla morte, acciocché io9 pianga sempre amaramente i disgusti che v'ho dati. Gesù mio, perdonatemi; o mio Redentore, che per avere pietà di me, non avete avuta pietà di Voi, condannandovi a morire10 di dolore, per liberarmi dall'inferno, abbiate pietà di me. Fate dunque che il rimorso di avervi offeso mi tenga continuamente addolorato, e nello stesso tempo m'infiammi tutto d'amore verso di Voi, che tanto mi avete amato, e con tanta pazienza mi avete sofferto, ed ora invece di castighi, mi arricchite di lumi e di grazie; ve ne ringrazio, Gesù mio, e v'amo; v'amo più di me stesso, v'amo con tutt'il cuore. Voi non sapete disprezzare chi v'ama. Io v'amo, non mi discacciate dalla vostra faccia. Ricevetemi dunque nella vostra grazia, e non permettete ch'io v'abbia da perdere più. Maria Madre mia, accettatemi per vostro servo, e stringetemi a Gesù vostro Figlio. Pregatelo che mi perdoni, che mi doni il suo amore e la grazia della perseveranza sino alla morte.
    1 [5.] S. THOMAS, Suppl. III partis, q. 97, a. 2, c.: «Unde vermis qui in damnatis ponitur, non debet intelligi esse materialis, sed spiritualis qui est conscientiae remorsus: qui dicitur vermis, in quantum oritur ex putredine peccati et animam affligit, sicut corporalis vermis ex putredine ortus affligit pungendo».
    2 [7.] rimorsi) morsi VR BR1 BR2.
    3 [8.] rimorsi) morsi VR BR1 BR2.
    4 [10.] rimorso) morso VR BR1 BR2.
    5 [13.] avea) aveva VR BR1 BR2.
    6 [20.] Oggi miele.
    7 [26.] troverà) ritroverà VR BR1 BR2.
    8 [5.] e, om. VR.
    9 [22.] acciocché io) acciocch'io VR BR1.
    10 [25.] morire) morir VR BR1 BR2.

    PUNTO II

    Dice S. Tommaso1 che questa sarà la pena principale de' dannati, il vedere che si son perduti per niente, e che con tanta facilità poteano acquistarsi la gloria del paradiso, se voleano: «Principaliter dolebunt, quod pro nihilo damnati sunt, et facillime vitam poterant consequi sempiternam». Il secondo rimorso2 dunque della coscienza sarà il pensare al poco che dovean fare per salvarsi. Comparve a S. Umberto3 un dannato e gli disse che quest'appunto era la maggiore4 afflizione, che cruciavalo nell'inferno, il pensiero del poco per cui s'era dannato, e del poco che avrebbe avuto a fare per salvarsi. Dirà allora il misero: S'io mi mortificava a non guardare quell'oggetto, se vincea quel rispetto umano, se fuggiva quell'occasione, quel compagno, quella conversazione, non mi sarei dannato. Se mi fossi confessato ogni settimana, se avessi frequentata la Congregazione, se avessi letto ogni giorno quel libretto spirituale, se mi fossi raccomandato a Gesu-Cristo ed a Maria, non sarei ricaduto. Ho proposto tante volte di farlo, ma non l'ho eseguito; o pure l'ho cominciato a fare, e poi l'ho lasciato, e perciò mi son perduto.
    Accresceranno la pena di questo rimorso gli esempi, che avrà avuti degli altri suoi buoni amici e compagni; e più l'accresceranno i doni che Dio gli avea concessi per salvarsi: doni di natura, come buona sanità, beni di fortuna, talenti che 'l Signore gli avea dati affin di bene impiegarli, e farsi santo: doni poi di grazia, tanti lumi, ispirazioni, chiamate, e tanti anni conceduti a rimediare il mal fatto: ma vedrà che in questo stato miserabile, al quale è arrivato, non v'è più tempo da rimediare. Sentirà l'Angelo del Signore che grida e giura: «Et Angelus, quem vidi stantem, iuravit per viventem in saecula saeculorum... quia tempus non erit amplius» (Apoc. 10. 6). Oh che spade crudeli saranno tutte queste grazie ricevute al cuore del povero dannato, allorché vedrà esser finito già il tempo di poter più dar riparo alla sua eterna ruina. Dirà dunque piangendo cogli altri suoi compagni disperati: «Transiit messis, finita est aestas, et nos salvati non sumus» (Ier. 8. 20). Dirà: Oh se le fatiche che ho fatte per dannarmi, l'avessi spese per Dio, mi troverei fatto un gran santo; ed ora che me ne trovo, se non rimorsi e pene, che mi tormenteranno in eterno? Ah che questo pensiero crucierà il dannato più che il fuoco, e tutti gli altri tormenti dell'inferno; il dire: Io poteva essere per sempre felice, ed ora ho da essere per sempre infelice.

    Affetti e preghiere.

    Ah Gesù mio, e come avete potuto tanto sopportarmi? io tante volte v'ho voltate le spalle, e Voi non avete lasciato di venirmi appresso. Io tante volte vi ho offeso, e Voi mi avete perdonato; vi ho tornato ad offendere, e Voi avete ritornato a perdonarmi. Deh fatemi parte di quel dolore, che sentiste nell'orto di Getsemani de' peccati miei, che allora vi fecero sudar sangue. Mi pento, Redentor mio caro, di aver così malamente pagato il vostro Cuore.5 O gusti miei maledetti, vi detesto e maledico, voi mi avete fatta perdere la grazia del mio Signore. Amato mio Gesù, ora io v'amo sopra ogni cosa, rinunzio a tutte le soddisfazioni illecite e propongo prima di morir mille volte, che di offendervi più. Deh per quell'affetto con cui mi amaste sulla croce ed offeriste la vostra vita divina per me, datemi luce e forza di resistere alle tentazioni, e di ricorrere al vostro aiuto, quando sarò tentato.
    O Maria speranza mia, Voi tutto potete appresso Dio, impetratemi la santa perseveranza: ottenetemi ch'io più non mi divida dal suo santo amore.
    1 [5.] Forse trattasi di un testo sunteggiato: vedi S. THOMAS, Compendium Theologiae, c. 175; Opera, XVII, Romae 1570, opusc. II, f. 31, col. 3: «Dolent ergo mali quia peccata commiserunt, non propter hoc, quia peccata eis displiceant, quia etiam tunc mallent peccata illa committere, si facultas daretur, quam Deum habere... Sic igitur et voluntas eorum perpetuo manebit obstinata in malo, et tamen gravissime dolebunt de culpa commissa et de gloria amissa; et hic dolor vocatur remorsus conscientiae, qui metaphorice in Scripturis vermis nominatur, secundum illud Isaiae ultimmo 24: Vermis eorum non morietur». Cfr. Opuscula theol., op. I Compendium Theol., c. 175, n. 348; I, Taurini 1954, 82.
    2 [9.] rimorso) morso VR BR1 BR2.
    3 [10.] ROSIGNOLI C. G., Verità eterne, lez. VI, parag. 2; Bologna 1689, 114: «Ma che accade addur favole, se ne abbiamo la testimonianza addotta da B. Umberto, d'un dannato, che comparito in mesta gramaglia tutto affannato confessò che l'inferno del suo inferno era la rimembranza delle colpe commesse: d'aver perduto un regno eterno per brevissimo diletto: d'aver gittato in vanissime cure quel tempo, con un quarticello del quale avrebbe potuto con una buona confessione ottener la salute».
    4 [11.] maggiore) maggior VR.
    5 [30.] Cuore) amore ND1 VR ND3 BR1 BR2.

    PUNTO II

    Dice S. Tommaso1 che questa sarà la pena principale de' dannati, il vedere che si son perduti per niente, e che con tanta facilità poteano acquistarsi la gloria del paradiso, se voleano: «Principaliter dolebunt, quod pro nihilo damnati sunt, et facillime vitam poterant consequi sempiternam». Il secondo rimorso2 dunque della coscienza sarà il pensare al poco che dovean fare per salvarsi. Comparve a S. Umberto3 un dannato e gli disse che quest'appunto era la maggiore4 afflizione, che cruciavalo nell'inferno, il pensiero del poco per cui s'era dannato, e del poco che avrebbe avuto a fare per salvarsi. Dirà allora il misero: S'io mi mortificava a non guardare quell'oggetto, se vincea quel rispetto umano, se fuggiva quell'occasione, quel compagno, quella conversazione, non mi sarei dannato. Se mi fossi confessato ogni settimana, se avessi frequentata la Congregazione, se avessi letto ogni giorno quel libretto spirituale, se mi fossi raccomandato a Gesu-Cristo ed a Maria, non sarei ricaduto. Ho proposto tante volte di farlo, ma non l'ho eseguito; o pure l'ho cominciato a fare, e poi l'ho lasciato, e perciò mi son perduto.
    Accresceranno la pena di questo rimorso gli esempi, che avrà avuti degli altri suoi buoni amici e compagni; e più l'accresceranno i doni che Dio gli avea concessi per salvarsi: doni di natura, come buona sanità, beni di fortuna, talenti che 'l Signore gli avea dati affin di bene impiegarli, e farsi santo: doni poi di grazia, tanti lumi, ispirazioni, chiamate, e tanti anni conceduti a rimediare il mal fatto: ma vedrà che in questo stato miserabile, al quale è arrivato, non v'è più tempo da rimediare. Sentirà l'Angelo del Signore che grida e giura: «Et Angelus, quem vidi stantem, iuravit per viventem in saecula saeculorum... quia tempus non erit amplius» (Apoc. 10. 6). Oh che spade crudeli saranno tutte queste grazie ricevute al cuore del povero dannato, allorché vedrà esser finito già il tempo di poter più dar riparo alla sua eterna ruina. Dirà dunque piangendo cogli altri suoi compagni disperati: «Transiit messis, finita est aestas, et nos salvati non sumus» (Ier. 8. 20). Dirà: Oh se le fatiche che ho fatte per dannarmi, l'avessi spese per Dio, mi troverei fatto un gran santo; ed ora che me ne trovo, se non rimorsi e pene, che mi tormenteranno in eterno? Ah che questo pensiero crucierà il dannato più che il fuoco, e tutti gli altri tormenti dell'inferno; il dire: Io poteva essere per sempre felice, ed ora ho da essere per sempre infelice.



    Affetti e preghiere.

    Ah Gesù mio, e come avete potuto tanto sopportarmi? io tante volte v'ho voltate le spalle, e Voi non avete lasciato di venirmi appresso. Io tante volte vi ho offeso, e Voi mi avete perdonato; vi ho tornato ad offendere, e Voi avete ritornato a perdonarmi. Deh fatemi parte di quel dolore, che sentiste nell'orto di Getsemani de' peccati miei, che allora vi fecero sudar sangue. Mi pento, Redentor mio caro, di aver così malamente pagato il vostro Cuore.5 O gusti miei maledetti, vi detesto e maledico, voi mi avete fatta perdere la grazia del mio Signore. Amato mio Gesù, ora io v'amo sopra ogni cosa, rinunzio a tutte le soddisfazioni illecite e propongo prima di morir mille volte, che di offendervi più. Deh per quell'affetto con cui mi amaste sulla croce ed offeriste la vostra vita divina per me, datemi luce e forza di resistere alle tentazioni, e di ricorrere al vostro aiuto, quando sarò tentato.
    O Maria speranza mia, Voi tutto potete appresso Dio, impetratemi la santa perseveranza: ottenetemi ch'io più non mi divida dal suo santo amore.
    1 [5.] Forse trattasi di un testo sunteggiato: vedi S. THOMAS, Compendium Theologiae, c. 175; Opera, XVII, Romae 1570, opusc. II, f. 31, col. 3: «Dolent ergo mali quia peccata commiserunt, non propter hoc, quia peccata eis displiceant, quia etiam tunc mallent peccata illa committere, si facultas daretur, quam Deum habere... Sic igitur et voluntas eorum perpetuo manebit obstinata in malo, et tamen gravissime dolebunt de culpa commissa et de gloria amissa; et hic dolor vocatur remorsus conscientiae, qui metaphorice in Scripturis vermis nominatur, secundum illud Isaiae ultimmo 24: Vermis eorum non morietur». Cfr. Opuscula theol., op. I Compendium Theol., c. 175, n. 348; I, Taurini 1954, 82.
    2 [9.] rimorso) morso VR BR1 BR2.
    3 [10.] ROSIGNOLI C. G., Verità eterne, lez. VI, parag. 2; Bologna 1689, 114: «Ma che accade addur favole, se ne abbiamo la testimonianza addotta da B. Umberto, d'un dannato, che comparito in mesta gramaglia tutto affannato confessò che l'inferno del suo inferno era la rimembranza delle colpe commesse: d'aver perduto un regno eterno per brevissimo diletto: d'aver gittato in vanissime cure quel tempo, con un quarticello del quale avrebbe potuto con una buona confessione ottener la salute».
    4 [11.] maggiore) maggior VR.
    5 [30.] Cuore) amore ND1 VR ND3 BR1 BR2.

    SERMONE VIII. - PER LA DOMENICA III. DOPO L'EPIFANIA

    Rimorsi del dannato.

    Filii autem regni eiicientur in tenebras exteriores; ibi erit fletus et stridor dentium. (Matth. 8. 12.)

    Nel corrente evangelio si narra che essendo entrato Gesù Cristo in Cafarnao, venne a ritrovarlo il Centurione, ed a pregarlo che desse la sanità ad un suo servo paralitico che teneva in sua casa. Il Signore gli disse: Ego veniam et curabo eum. No, replicò il Centurione, non son degno io che voi entriate nella mia casa: basta che vogliate sanarlo, e il mio servo sarà sano. Ed il Salvatore vedendo la sua fede, in quel punto lo consolò rendendo la sanità al servo, e rivolto a' suoi discepoli disse loro: Multi ab oriente et occidente venient, et recumbent cum Abraham, Isaac et Iacob in regno coelorum; filii autem regni eiicientur in tenebras exteriores; ibi erit fletus et stridor dentium. E con ciò volle il Signore darci a sapere che molti nati fra gl'infedeli si salveranno coi santi, e molti nati nel grembo della santa chiesa anderanno all'inferno, ove il verme della coscienza coi suoi morsi li farà piangere amaramente per sempre. Vediamo i rimorsi che il cristiano dannato patirà nell'inferno:
    Rimorso I. Del poco che far dovea per salvarsi;
    Rimorso II. Del poco per cui si è dannato;
    Rimorso III. Del gran bene che ha perduto per sua colpa.

    RIMORSO I. Del poco che dovea fare per salvarsi.

    Un giorno apparve un dannato a sant'Uberto, e ciò appunto gli disse che due rimorsi erano i suoi carnefici più crudeli nell'inferno, il pensare al quanto poco gli toccava a fare in questa vita per salvarsi, ed al quanto poco era stato quello per cui si era dannato. Lo stesso scrisse poi s. Tomaso: Principaliter dolebunt quod pro nihilo damnati sunt, et facillime vitam poterant consequi sempiternam. Fermiamoci a considerare il primo rimorso, cioè quanto poche e brevi sono state le soddisfazioni, per le quali ogni dannato si è perduto. Dirà il misero: se io mi astenea da quel diletto, se vincea quel rispetto umano, se fuggiva quell'occasione, quel cattivo compagno, non mi sarei dannato. Se avessi frequentata la congregazione, se mi fossi confessato ogni settimana, se nelle tentazioni mi fossi raccomandato a Dio non sarei ricaduto. Ho proposto tante volte di farlo, ma poi non l'ho fatto: l'ho cominciato a fare, ma poi l'ho lasciato, e così mi son perduto.
    Crescerà il tormento di questo rimorso col ricordarsi il dannato i buoni esempi che avrà avuti d'altri giovani suoi pari, che anche in mezzo al mondo han menata una vita casta e divota. Crescerà poi maggiormente la pena colla memoria di tutti i doni che il Signore gli ha fatti, a fine di cooperarsi ad acquistare la salute eterna, doni di natura, buona sanità, beni di fortuna, buoni natali, buon talento; tutti doni da Dio a lui concessi, non per vivere tra i piaceri di terra o per sopraffare gli altri, ma per impiegarli a bene dell'anima sua e farsi santo: tanti doni poi di grazia, lumi divini, ispirazioni sante, chiamate amorose: di più tanti anni di vita datigli da Dio per rimediare al mal fatto. Ma udirà l'angelo del Signore, che gli fa sapere che per lui è terminato il tempo di salvarsi: Et angelus quem vidi stantem, iuravit per viventem in saecula saeculorum... quia tempus non erit amplius1.Oimè che spade crudeli saranno tutti questi beneficj ricevuti al cuore del povero dannato, quando vedrassi entrato già nella carcere dell'inferno, e vedrà che più non vi è tempo di far riparo alla sua eterna ruina! Dunque, dirà piangendo da disperato insieme cogli altri suoi infelici compagni: Transiit messis, finita est aestas, et nos salvati non sumus2. E passato, dirà, il tempo di raccoglier frutti per la vita eterna, è finita l'estate in cui potevamo salvarci; ma non ci siamo salvati, ed è venuto il verno, ma verno eterno, nel quale abbiamo da vivere infelici e disperati per sempre, finché Dio sarà Dio. Dirà inoltre il misero: oh pazzo che sono stato! Se le pene che ho sofferte per soddisfare i miei capricci, le avessi sofferte per Dio: se le fatiche che ho fatte per dannarmi, le avessi fatte per salvarmi, quanto ora me ne troverei contento! Ed ora che me ne trovo, se non rimorsi e pene che mi tormentano e mi tormenteranno per tutta l'eternità! Dunque, dirà finalmente, io poteva essere per sempre felice, ed ora ho da essere per sempre infelice! Ah che questo pensiero affliggerà il dannato più che il fuoco e tutti gli altri tormenti dell'inferno.

    RIMORSO II. Del poco per cui si è perduto.

    Il re Saule fece ordine, stando nel campo, che niuno sotto pena della vita si cibasse di alcuna cosa. Gionata suo figlio, essendo giovine e trovandosi con fame, si cibò di un poco di mele; onde il padre sapendolo volle che si eseguisse l'ordine dato, e il figlio fosse giustiziato. Il povero figlio, vedendosi già condannato a morte, piangeva dicendo: Gustans gustavi paullulum mellis, et ecce morior1. Ma tutto il popolo essendosi mosso a compassione di Gionata, si interpose col padre e lo liberò dalla morte. Per il povero dannato non vi è né vi sarà mai chi ne abbia compassione, e s'interponga con Dio per liberarlo dalla morte eterna dell'inferno; anzi tutti godranno della sua giusta pena, mentre egli per un breve piacere ha voluto perdere Dio ed il paradiso.Esaù dopo essersi cibato di quella minestra di lenticchie, per la quale avea venduta la sua primogenitura, dice la scrittura, che cruciato dal dolore e dal rimorso della perdita fatta si pose ad urlare: Irrugiit clamore magno2. Oh quali alti ruggiti ed urli darà il dannato pensando che per poche soddisfazioni avvelenate e momentanee ha perduto il regno eterno del paradiso, e ha da vedersi condannato in eterno ad una continua morte!
    Starà il disgraziato nell'inferno continuamente a considerare la causa infelice della sua dannazione. A noi che viviamo su questa terra, la vita passata non sembra che un momento ed un sogno. Oimè al dannato che parranno quei cinquanta o sessanta anni di vita che avrà menati nel mondo, quando si troverà nel fondo dell'eternità, e già saran passati per lui cento e mille milioni d'anni di pena, e vedrà che la sua eternità infelice è da capo e sarà sempre da capo! Ma che, forse quei cinquant'anni saranno stati per lui tutti pieni di piaceri? Forse il peccatore, vivendo in disgrazia di Dio, gode sempre ne' suoi peccati? Quanto durano i gusti del peccato? Durano momenti; e tutt'altro tempo, per chi vive lontano da Dio, è tempo di angustie e di pene. Or che pareranno quei momenti di piacere al povero dannato, quando si troverà già sepolto in quella fossa di fuoco? Quid profuit superbia, aut divitiarum iactantia? Transierunt omnia illa tamquam umbra3. Povero me, dirà egli, io sulla terra son vissuto a mio capriccio, mi ho prese le mie soddisfazioni, ma quelle a che mi han giovato? Elle han durato momenti, e mi han fatta fare una vita inquieta ed amara, ed ora mi tocca di stare ad ardere in questa fornace per sempre disperato ed abbandonato da tutti.

    RIMORSO III. Del gran bene che per sua colpa ha perduto.

    L'infelice principessa Lisabetta regina d'Inghilterra, accecata dalla passione di regnare, disse un giorno: «Mi dia il Signore quarant'anni di regno ed io gli rinunzio il paradiso». Ebbe già la misera questi quarant'anni di regno, ma ora ch'ella sta nell'altro mondo confinata all'inferno, certamente che non si troverà contenta di tal rinunzia fatta. Oh quanto si troverà afflitta, pensando che per quarant'anni di regno terreno, posseduto sempre tra le angustie, traversie e timori, ha perduto il regno eterno del cielo? Plus coelo torquetur, quam gehenna, scrisse s. Pier Grisologo; sono i miseri dannati più tormentati dalla perdita volontariamente da essi fatta del paradiso, che dalle stesse pene dell'inferno.
    La pena somma che fa l'inferno è l'aver perduto Dio, quel sommo bene che fa tutto il paradiso.Scrisse s. Brunone: Addantur tormenta tormentis, et Deo non priventur1. Si contenterebbero i dannati che si accrescessero mille inferni all'inferno che patiscono, e non restassero privi di Dio; ma questo sarà il loro inferno, il vedersi privati di Dio in eterno per loro propria colpa. Dicea s. Teresa che se uno perde per colpa propria anche una bagattella, una moneta, un anello di poco valore, pensando che l'ha perduta per sua trascuraggine molto si affligge e non trova pace: or qual pena sarà quella del dannato, in pensare che ha perduto un bene infinito, qual è Dio, e vedere che l' ha perduto per colpa propria!Vedrà che Iddio lo voleva salvo, ed avea posta in mano di lui l'elezione della vita o della morte eterna, secondo dice l'Ecclesiastico2: Ante hominem vita et mors... quod placuerit ei dabitur illi; sicché vedrà essere stato in mano sua il rendersi, se voleva, eternamente felice; e che egli di sua elezione ha voluto dannarsi. Vedrà nel giorno del giudizio tanti suoi compagni che si sono salvati, ma esso perché non ha voluto finirla, è andato a finirla nell'inferno. Ergo erravimus, dirà rivolto a' suoi compagni infelici dell'inferno, dunque l'abbiamo sbagliata, perdendo per nostra colpa il cielo e Dio; ed al nostro errore non vi è più rimedio. Questa pena gli farà dire: Non est pax ossibus meis a facie peccatorum meorum3. Ella sarà una pena interna intrinsecata nelle ossa, che non gli farà trovar mai riposo in eterno, in vedere che egli stesso è stata la causa della sua ruina; onde non avrà oggetto di maggiore orrore, che se medesimo, provando la pena minacciata dal Signore: Statuam te contra faciem tuam4.Fratello mio, se per lo passato ancora tu sei stato pazzo in voler perdere Dio per un gusto miserabile, non voler seguitare ad esser pazzo; procura di dar presto rimedio, or che puoi rimediare. Trema; chi sa se ora non ti risolvi a mutar vita, Dio ti abbandoni e resti perduto per sempre? Quando il demonio ti tenta ricordati dell'inferno, il pensiero dell'inferno ti libererà dall'inferno: ricordati, dico, dell'inferno, e ricorri a Gesù Cristo, ricorri a Maria ss. per aiuto, ed essi ti libereranno dal peccato che è la porta dell'inferno.

    Note

    1 Apoc. 10. 6.
    2 Ier. 9. 20.
    1 1. Reg. 14. 43.
    2 Gen. 27. 34.
    3 Sap. 5. 8. et 9.
    1 Serm. de iudic. fin.
    2 15. 18.
    3 Ps. 37. 4.
    4 Ps. 9. 11.

    S. Teresa d’Avila Dottore della Chiesa

    CAPITOLO 32

    In cui narra come il Signore l’abbia trasportata in spirito in un luogo dell’inferno che, per i suoi peccati, si era meritata. Di ciò che in esso vide dà solo un’idea, rispetto a quello che fu tale spettacolo. Comincia a raccontare come poté fondare il monastero di San Giuseppe, dove ora si trova.
    1. Passato molto tempo da quando il Signore mi aveva fatto già molte delle grazie suddette e anche altre, assai notevoli, mentre un giorno ero in orazione, mi sembrò di trovarmi ad un tratto tutta sprofondata nell’inferno, senza saper come. Capii che il Signore voleva farmi vedere il luogo che lì i demoni mi avevano preparato e che io avevo meritato per i miei peccati. Tale visione durò un brevissimo spazio di tempo, ma anche se vivessi molti anni, mi sembra che non potrei mai dimenticarla. L’entrata mi pareva come un vicolo assai lungo e stretto, come un forno molto basso, scuro e angusto; il suolo, una melma piena di sudiciume e di un odore pestilenziale in cui si muoveva una quantità di rettili schifosi. Nella parete di fondo vi era una cavità come di un armadietto incassato nel muro, dove mi sentii rinchiudere in un spazio assai ristretto. Ma tutto questo era uno spettacolo persino piacevole in confronto a quello che qui ebbi a soffrire. Ciò che ho detto, comunque, è mal descritto.
    2. Quello che sto per dire, però, mi pare che non si possa neanche tentare di descriverlo né si possa intendere: sentivo nell’anima un fuoco di tale violenza che io non so come poterlo riferire; il corpo era tormentato da così intollerabili dolori che, pur avendone sofferti in questa vita di assai gravi, anzi, a quanto dicono i medici, dei più gravi che in terra si possano soffrire – perché i miei nervi si erano tutti rattrappiti quando rimasi paralizzata, senza dire di molti altri di vario genere che ho avuto, alcuni dei quali, come ho detto, causati dal demonio – tutto è nulla in paragone di quello che ho sofferto lì allora, tanto più al pensiero che sarebbero stati tormenti senza fine e senza tregua. Eppure anche questo non era nulla in confronto al tormento dell’anima: un’oppressione, un’angoscia, una tristezza così profonda, un così accorato e disperato dolore, che non so come esprimerlo. Dire che è come un sentirsi continuamente strappare l’anima è poco, perché morendo, sembra che altri ponga fine alla nostra vita, ma qui è la stessa anima a farsi a pezzi. Non so proprio come descrivere quel fuoco interno e quella disperazione che esasperava così orribili tormenti e così gravi sofferenze. Non vedevo chi me li procurasse, ma mi pareva di sentirmi bruciare e dilacerare; ripeto, però, che il peggior supplizio era dato da quel fuoco e da quella disperazione interiore.
    3. Stavo in un luogo pestilenziale, senza alcuna speranza di conforto, senza la possibilità di sedermi e stendere le membra, chiusa com’ero in quella specie di buco nel muro. Le stesse pareti, orribili a vedersi, mi gravavano addosso dandomi un senso di soffocamento. Non c’era luce, ma tenebre fittissime. Io non capivo come potesse avvenire questo: che, pur non essendoci luce, si vedesse ugualmente ciò che poteva dar pena alla vista. Il Testi di Santi, Papi, Dottori della Chiesa e altri importanti autori.


    S. Alfonso de’Liguori

    Dall’ ”Apparecchio alla morte”

    CONSIDERAZIONE XXVI –
    DELLE PENE DELL'INFERNO

    «Et ibunt hi in supplicium aeternum» (Matth. 25. 46). -
    PUNTO I

    Due mali fa il peccatore, allorché pecca, lascia Dio sommo bene, e si rivolta alle creature: «Duo enim mala fecit populus meus, me dereliquerunt fontem aquae vivae, et foderunt sibi cisternas; cisternas dissipatas, quae continere non valent aquas» (Ier. 2. 13). Perché dunque il peccatore si volta alle creature con disgusto di Dio, giustamente nell'inferno sarà tormentato dalle stesse creature, dal fuoco e da' demonii, e questa è la pena del senso. Ma perché la sua colpa maggiore, dove consiste il peccato, è il voltare le spalle a Dio, perciò la pena principale che sarà nell'inferno, sarà la pena del danno. Ch'é1 la pena d'aver perduto Dio.
    Consideriamo prima la pena del senso. È di fede che vi è l'inferno. In mezzo alla terra vi è questa prigione riservata al castigo de' ribelli di Dio. Che cosa è questo inferno? è il luogo de' tormenti. «In hunc locum tormentorum», così chiamò l'inferno l'Epulone dannato (Luca 16. 28). Luogo di tormenti, dove tutti i sensi e le potenze del dannato hanno da avere il lor proprio tormento; e quanto più alcuno in un senso avrà offeso Dio, tanto più in quel senso avrà da esser tormentato: «Per quae peccat quis, per haec et torquetur» (Sap. 11. 17). «Quantum in deliciis fuit, tantum date illi tormentum» (Apoc. 18. 7).2 Sarà tormentata la vista colle tenebre. «Terram tenebrarum, et opertam mortis caligine» (Iob. 10. 21). Che compassione fa il sentire che un pover'uomo sta chiuso in una fossa oscura per mentre vive, per 40-50 anni di vita! L'inferno è una fossa chiusa da tutte le parti dove non entrerà mai raggio di sole o d'altra luce. «Usque in aeternum non videbit lumen» (Psal. 48. 20). Il fuoco che sulla terra illumina, nell'inferno sarà tutt'oscuro. «Vox Domini intercidentis flammam ignis» (Psal. 28. 7). Spiega S. Basilio Il Signore dividerà dal fuoco la luce, onde tal fuoco farà solamente l'officio di bruciare, ma non d'illuminare; e lo spiega più in breve Alberto Magno:4 «Dividet a calore splendorem». Lo stesso fumo che uscirà da questo fuoco, componerà quella procella di tenebre, di cui parla S. Giacomo, che accecherà gli occhi de' dannati: «Quibus procella tenebrarum servata est in aeternum» (Iac. 2. 13).5 Dice S. Tommaso (3. p. q. 97. n. 4),6 che a' dannati è riservato tanto di luce solamente, quanto basta a più tormentarli. «Quantum sufficit ad videndum illa, quae torquere possunt». Vedranno in quel barlume di luce la bruttezza degli altri reprobi e de' demoni, che prenderanno forme orrende per più spaventarli.
    Sarà tormentato l'odorato. Che pena sarebbe trovarsi chiuso in una stanza con un cadavere fracido? «De cadaveribus eorum ascendit foetor» (Is. 34. 3). Il dannato ha da stare in mezzo a tanti milioni d'altri dannati, vivi alla pena, ma cadaveri per la puzza che mandano. Dice S. Bonaventura7 che se un corpo d'un dannato fosse cacciato dall'inferno, basterebbe a far morire per la puzza tutti gli uomini. E poi dicono alcuni pazzi: Se vado all'inferno, non sono solo. Miseri! quanti più sono nell'inferno, tanto più penano. «Ibi (dice S. Tommaso)8 miserorum societas miseriam non minuet, sed augebit» (S. Thom. Suppl. q. 89. a. 1). Più penano (dico) per la puzza, per le grida e per la strettezza; poiché staran nell'inferno l'un sopra l'altro, come pecore ammucchiate in tempo d'inverno: «Sicut oves in inferno positi sunt» (Psal. 48. 15). Anzi più, staran come uve spremute sotto il torchio dell'ira di Dio. «Et ipse calcat torcular vini furoris irae Dei» (Apoc. 19. 15). Dal che ne avverrà poi la pena dell'immobilità. «Fiant immobiles quasi lapis» (Exod. 15. 16). Sicché il dannato siccome caderà nell'inferno nel giorno finale, così avrà da restare senza cambiare più sito e senza poter più muovere né un piede, né una mano, per mentre Dio sarà Dio.
    Sarà tormentato l'udito cogli urli continui e pianti di quei poveri disperati. I demonii faranno continui strepiti. «Sonitus terroris semper in aure eius» (Iob. 15. 21). Che pena è quando si vuol dormire e si sente un infermo che continuamente si lamenta, un cane che abbaia, o un fanciullo che piange? Miseri dannati, che han da sentire di continuo per tutta l'eternità quei rumori e le grida di quei tormentati! Sarà tormentata la gola colla fame; avrà il dannato una fame canina: «Famem patientur ut canes» (Psal. 58. 15). Ma non avrà mai una briciola di pane. Avrà poi una tale sete, che non gli basterebbe tutta l'acqua del mare; ma non ne avrà neppure una stilla: una stilla ne domandava l'Epulone,9 ma questa non l'ha avuta ancora, e non l'avrà mai, mai.

    Affetti e preghiere.

    Ah mio Signore, ecco a' piedi vostri chi ha fatto tanto poco conto della vostra grazia e de' vostri castighi. Povero me, se Voi, Gesù mio, non aveste avuto di me pietà, da quanti anni starei in quella fornace puzzolente, dove già vi stanno ad ardere tanti pari miei! Ah mio Redentore, come pensando a ciò non ardo del vostro amore? come potrò per l'avvenire pensare ad offendervi di nuovo! Ah non sia mai, Gesu-Cristo mio, fatemi prima mille volte morire. Giacché avete cominciato, compite l'opera. Voi mi avete cacciato dal lezzo di tanti miei peccati, e con tanto amore mi avete chiamato ad amarvi; deh fate ora che questo tempo che mi date, io lo spenda tutto per Voi. Quanto desidererebbero i dannati un giorno, un'ora del tempo che a me concedete; ed io che farò? seguirò a spenderlo in cose di vostro disgusto? No, Gesù mio, non lo permettete, per li meriti di quel sangue, che sinora m'ha liberato dall'inferno. V'amo, o sommo bene, e perché v'amo mi pento di avervi offeso; non voglio più offendervi, ma sempre amarvi.
    Regina e Madre mia Maria, pregate Gesù per me, ed ottenetemi il dono della perseveranza e del suo santo amore.
    1 [13.] danno. Ch'è) danno, ch'è BR2.
    2 [24.] Apoc., 18, 7: «Quantum glorificavit se et in deliciis fuit, tantum date illi tormentum et luctum».
    3 [1.] METAPHRASTES, Sermones 24 selecti, sermo 14 de futuro iudicio, n. 2; PG 32, 1299: «Ut cum duae sint in igne facultates, quarum una comburit, altera illustrat... adeo ut supplicii quidem ignis obscurus sit... cuius quidem lumen, iustorum oblectamento: urendi vero molestia, puniendorum tribuetur ultioni». Cfr. S. BASILIUS M., Hom. in Ps. 28, n. 6: PG 29, 298: «Quamquam… ignis consiliis humanis insecabilis ac individuus videtur esse, nihilominus tamen Dei iussu interciditur ac dividitur…, adeo ut supplicii quidem ignis obscurus sit; lux vero requietis, vi careat comburendi». IDEM, Hom. in Ps. 33, n. 8; PG 29, 371: «Postea animo tibi fingas barathrum profundum, tenebras inextricabiles, ignem splendoris expertem, vim quidem urendi in tenebris habentem, sed luce destitutum».
    4 [3.] S. ALBERTUS M., Summa theologica, p. II, q. 12, membrum 2; Opera, XVIII, Lugduni 1651, 85, col. 2: «Unde Basilius etiam dicit super illud Ps. 18: Vox Domini intercidentis flammam ignis, quod in die iudicii lumen quod est in igne, ascendet ad locum beatorum: et ardor fuliginosus descendet ad locum damnatorum: et sic vox Domini sive praeceptum intercidit flammam ignis».
    5 [7.] Iud., 13, non Iac., 2, 13: «Iudicium enim sine misericordia illi, qui non fecit misericordiam».
    6 [7.] S. THOMAS, Suppl. III partis Summae theol., q. 97, a. 4, c.: «Unde simpliciter loquendo locus est tenebrosus; se tamen ex divina dispositione est ibi aliquid luminis, quantum sufficit ad videndum illa quae animam torquere possunt».
    7 [16.] Il testo è comune tra gli autori spirituali, che mai indicano il luogo preciso di s. Bonaventura: BESSEUS P., Conciones... super quatuor novissima. De inferno, concio 4; Venetiis 1617, 472: «Unde Isaias (XXXIV, 3): De cadaveribus eorum ascendet foetor; at tam enormis et pestilens, ut Bonaventura dicere ausus sit mundum universum confestim lue inficiendum, si vel unius damnati corpus in eum inferretur». DREXELIUS, Infermus damnatorum carcer et rogus, c. V, par. 2, Lugduni 1658, 156, col. 2: «Divus Bonaventura ausus est dicere: Si vel unius damnati cadaver in orbe hoc nostro sit, orbem totum ab eo inficiendum». ROSIGNOLI C. G., Verità eterne, lez. VI, parag. I: Bologna 1689, 105-106: «Più ebbe a dire S.
    Bonaventura che se il cadavere d'un dannato fosse tratto dall'inferno, e riposto sopra la superficie della terra ad esalare il suo lezzo, basterebbe ad appestare tutta la terra». Vedi anche SPANNER, op. cit., I, Venetiis 1709, 431.
    8 [3.] S. THOMAS, Suppl. III partis Summae theol., q. 89, a. 4, c.: «Nec ob hoc minuitur aliquid de daemonum poena, quia in hoc etiam quod alios torquent, ipsi torquebuntur: ibi enim miserorum societas miseriam non minuet, sed augebit».
    9 [25.] Luc., 16, 24: «Mitte Lazarum, ut intingat extremum digiti sui in aquam, ut refrigeret linguam meam, quia crucior in hac flamma».

    PUNTO II.

    La pena poi che più tormenta il senso del dannato, è il fuoco del l'inferno, che tormenta il tatto. «Vindicta carnis impii ignis, et vermis» (Eccli. 7. 19). Che perciò il Signore nel giudizio ne fa special menzione: «Discedite a me, maledicti, in ignem aeternum» (Matth. 41).1 Anche in questa terra la pena del fuoco è la maggior2 di tutte; ma vi è tanta differenza dal fuoco nostro a quello dell'inferno, che dice S. Agostino3 che 'l nostro sembra dipinto. «In eius comparatione noster hic ignis depictus est». E S. Vincenzo Ferreri dice che a confronto il nostro4 è freddo. La ragione è,5 perché il fuoco nostro è creato per nostro utile, ma il fuoco dell'inferno è creato da Dio a posta per tormentare. «Longe alius (dice Tertulliano)6 est ignis, qui usui humano, alius qui Dei iustitiae deservit». Lo sdegno di Dio accende questo fuoco vendicatore. «Ignis succensus est in furore meo» (Ier. 15. 14). Quindi da Isaia il fuoco dell'inferno è chiamato spirito d'ardore: «Si abluerit Dominus sordes... in spiritu ardoris» (Is. 4).7 Il dannato sarà mandato non al fuoco, ma nel fuoco: «Discedite a me, maledicti, in ignem aeternum». Sicché il misero sarà circondato dal fuoco, come un legno dentro una fornace. Si troverà il dannato con un abisso di fuoco da sotto,8 un abisso di sopra, e un abisso d'intorno. Se tocca, se vede, se respira; non tocca, non vede, né respira altro che fuoco. Starà nel fuoco come il pesce nell'acqua. Ma questo fuoco non solamente starà d'intorno al dannato, ma entrerà anche dentro le sue viscere a tormentarlo. Il suo corpo diventerà tutto di fuoco, sicché bruceranno le viscere dentro del ventre, il cuore dentro del petto, le cervella dentro il capo, il sangue dentro le vene, anche le midolla dentro l'ossa: ogni dannato diventerà in se stesso una fornace di fuoco. «Pone eos ut clibanum ignis» (Ps. 20. 10). Taluni non possono soffrire di camminare per una via battuta dal sole, di stare in una stanza chiusa con una braciera,9 non soffrire una scintilla, che svola da una candela; e poi non temono quel fuoco, che divora, come dice Isaia:
    «Quis poterit habitare de vobis cum igne devorante?» (Is. 33. 14). Siccome una fiera divora un capretto, così il fuoco dell'inferno divora il dannato; lo divora, ma senza farlo mai morire. Siegui pazzo, dice S. Pier Damiani10 (parlando al disonesto), siegui11 a contentare la tua carne, che verrà un giorno in cui le tue disonestà diventeranno tutte pece nelle tue viscere, che farà più grande e più tormentosa la fiamma che ti brucerà nell'inferno: «Venit dies, imo nox, quando libido tua vertetur in picem, qua se nutriat perpetuus ignis in tuis visceribus» (S. P. Dam. Epist. 6). Aggiunge S. Girolamo (Epist. ad Pam.)12 che questo fuoco porterà seco tutti i tormenti e dolori che si patiscono in questa terra; dolori di fianco e di testa, di viscere, di nervi: «In uno igne omnia supplicia sentiunt in inferno peccatores». In questo fuoco vi sarà anche la pena del freddo. «Ad nimium calorem transeat ab aquis nivium» (Iob. 24. 19). Ma sempre bisogna intendere che tutte le pene di questa terra sono un'ombra, come dice il Grisostomo,13 a paragone delle pene dell'inferno: «Pone ignem, pone ferrum, quid, nisi umbra ad illa tormenta?»Le potenze anche avranno il lor proprio tormento. Il dannato sarà tormentato nella memoria, col ricordarsi del tempo che ha avuto in questa vita per salvarsi, e l'ha speso per dannarsi; e delle grazie che ha ricevute da Dio, e non se ne ha voluto servire. Nell'intelletto, col pensare al gran bene che ha perduto, paradiso e Dio; e che a questa perdita non vi è più rimedio. Nella volontà, in vedere che gli sarà negata sempre ogni cosa che domanda. «Desiderium peccatorum peribit» (Ps. 111. 10). Il misero non avrà mai niente di quel che desidera, ed avrà sempre tutto quello che abborrisce, che saranno le sue pene eterne. Vorrebbe uscir da' tormenti, e trovar pace, ma sarà sempre tormentato, e non avrà mai pace.
    Affetti e preghiere.

    Ah Gesù mio, il vostro sangue e la vostra morte sono la speranza mia. Voi siete morto, per liberare me dalla morte eterna. Ah Signore, e chi più ha partecipato de' meriti della vostra passione, che io miserabile, il quale tante volte mi ho meritato l'inferno? Deh non mi fate vivere più ingrato a tante grazie che mi avete fatte. Voi m'avete liberato dal fuoco dell'inferno, perché non volete ch'io arda in quel fuoco di tormento, ma arda del dolce fuoco dell'amor vostro. Aiutatemi dunque, acciocché io possa compiacere il vostro desiderio. Se ora stessi nell'inferno, non vi potrei più amare; ma giacché posso amarvi, io vi voglio amare. V'amo bontà infinita, v'amo mio Redentore, che tanto mi avete amato. Come ho potuto vivere tanto tempo scordato di Voi! Vi ringrazio che Voi non vi siete scordato di me. Se di me vi foste scordato, o starei al presente nell'inferno, o non avrei dolore de' miei peccati. Questo dolore che mi sento nel cuore di avervi offeso, questo desiderio che provo di amarvi assai, son doni della vostra grazia, che ancora mi assiste. Ve ne ringrazio, Gesù mio. Spero per l'avvenire di dare a Voi la vita che mi resta. Rinunzio a tutto. Voglio solo pensare a servirvi e darvi gusto. Ricordatemi sempre l'inferno che mi ho meritato, e le grazie che mi avete fatte; e non permettete ch'io abbia un'altra volta a voltarvi le spalle, ed a condannarmi da me stesso a questa fossa di tormenti.
    O Madre di Dio, pregate per me peccatore. La vostra intercessione m'ha liberato dall'inferno, con questa ancora liberatemi, o Madre mia, dal peccato, che solo può condannarmi di nuovo all'inferno.
    1 [21.] Matth., 25, 41.
    2 [22.] maggior) maggiore VR BR1 BR2.
    3 [24.] V. BELLOVACENSIS, Spec. morale, l. II, p. 3, dist. 2, Venetiis 1591, f. 146, col. 4: «Augustinus de Civ. Dei... Item ignis iste ad comparationem illius non est nisi quasi umbra vel pictura». DREXELIUS, op. cit., c. VI, parag. I; Lugduni 1658, 159, col. 2: «Noster ignis Augustino pictus videtur, sed ille alter, verus». GISOLFO P., op. cit., p. I, disc. 17; II, Roma 1694, 506: «E 'l fuoco infernale ha tanta maggior attività, ha tanto più intenso ardore, che afferma S. Agostino, esservi quella differenza tra l'uno e l'altro fuoco, quale appunto è co 'l fuoco dipinto in un quadro, e tra il fuoco vero materiale: In cuius comparatione noster hic ignis depictus est: S. August., tom. 10, serm. 181 de tempore, fol. 691». Cfr. S. AUGUST., Enarratio in Ps. XLIX, n. 7; PL 36, 569: «Non erit iste ignis sicut focus tuus, quo tamen si manum mittere cogaris, facies quidquid voluerit qui hoc minatur». Cfr. CC 38, 580-81.
    4 [2.] il nostro) del nostro ND1 VR ND3 BR1 NS7: lo sbaglio è evidente pel controsenso che ne risulta; seguiamo la lezione più corretta «il» che si trova in BR2.
    5 [2.] Pare che s. Alfonso riferisca a senso il pensiero del Ferreri che sovente parla del fuoco infernale «intolerabilis» ed «inextinguibilis»: vedi VINCENTIUS FERRERI, Sermones hiemales, Venetiis 1573, 377; Sermones aestivales, Venetiis 1573, 195, 230, 472, 478; Sermones de Sanctis, Coloniae Agrippinae 1675, 560-61, ecc. Nei Sermoni compendiati, serm. X, n. 5; Napoli 1771, 40 s. Alfonso attribuisce la stessa idea a s. Anselmo.
    6 [4.] GISOLFO P., op. cit., disc. 17, 501: «Altro è il fuoco, che serve ad uso, e alle comodità degli uomini, dice Tertulliano, e altro è il fuoco, che serve alla divina giustizia: Longe alius est ignis, qui usui humano, alius qui Dei iustitiae deservit». Cfr. TERTULLIANUS, Apologeticus, c. 48; PL I, 527-528: «Noverunt philosophi diversitatem arcani et publici ignis. Ita longe alius est qui usui humano, alius qui iudicio Dei apparet… Et hoc erit testimonium ignis aeterni, hoc exemplum iusti iudicii poenam nutrientis. Montes uruntur et durant: quid nocentes et Dei hostes?» Cfr. CC I, 168.
    7 [8.] Is., 4, 4: «Si abluerit Dominus sordes filiarum Sion, et sanguinem Ierusalem laverit de medio eius, in spiritu iudicii et spiritu ardoris.»
    8 [12.] da sotto) di sotto VR BR1 BR2.
    9 [22.] un braciere.
    10 [4.] S. PETRUS DAMIANUS, De caelibatu sacerdotum, c. III; PL 145, 385: «Veniet profecto dies, imo nox, quando libido ista tua vertatur in picem, qua se perpetuus ignis in tuis visceribus inextinguibiliter nutriat, et medullas tuas simul et ossa indefectiva conflagratione depascat».
    11 [4.] Segui.
    12 [9.] MANSI, Bibliotheca mor. praedic., tr. 34, disc. 7; II, Venetiis 1703, 614 col. 2: «Siquidem in uno igne omnia supplicia sentiunt in inferno peccatores, ut inquit Hieronymus (Ep. I ad Pammach.)». Tra altri anche SEGNERI P., Cristiano Istruito, p. II, ragion. XVIII; Opere, III, Venezia 1742, 165, col. I, attribuisce con la stessa citazione a s. Girolamo il testo, che però manca nelle lettere genuine.
    13 [16.] GISOLFO P., op. cit., disc. XV; I, 437: «Onde S. Giovan Crisostomo: Pone, si libet, ignem, ferrum et bestias, et si quid his difficilius: attamen nec umbra sunt haec ad inferni tormenta». Cfr. CHRYS., In epist. ad Rom., hom. 31, n. 5; PG 60, 674: «Quid enim mihi grave dicere possis? Paupertatem, morbum, captivitatem, mutilationem corporis. Verum illa omnia risu sunt digna si cum supplicio illo [inferni] comparentur».

    PUNTO III

    Ma tutte queste pene son niente a rispetto della pena del danno. Non fanno l'inferno le tenebre, la puzza, le grida e 'l fuoco; la pena che fa l'inferno è la pena di aver perduto Dio. Dice S. Brunone:1 «Addantur tormenta tormentis, ac Deo non priventur» (Serm. de Iud. fin.). E S. Gio. Grisostomo:2 «Si mille dixeris gehennas, nihil par dices illius doloris» (Hom. 49. ad Pop.). Ed aggiunge S. Agostino3 che se i dannati godessero la vista di Dio, «nullam poenam sentirent, et infernus ipse verteretur in paradisum» (S. Aug. to. 9. de Tripl. hab.). Per intendere qualche cosa di questa pena, si consideri che se taluno perde (per esempio) una gemma, che valea 100 scudi, sente gran pena, ma se valea 200 sente doppia pena: se 400 più pena. In somma quanto cresce il valore della cosa perduta, tanto cresce la pena. Il dannato qual bene ha perduto? un bene infinito, ch'è Dio; onde dice S. Tommaso4 che sente una pena in certo modo infinita: «Poena damnati est infinita, quia est amissio boni infiniti» (D. Th. 1. 2. q. 87. a. 4).
    Questa pena ora solo si teme da' santi. «Haec amantibus, non contemnentibus poena est», dice S. Agostino.5 S. Ignazio di Loiola dicea:6 Signore, ogni pena sopporto, ma questa no, di star privo di Voi. Ma questa pena niente si apprende da' peccatori, che si contentano di vivere i mesi e gli anni senza Dio, perché i miseri vivono fra le tenebre. In morte non però han da conoscere il gran bene che perdono. L'anima in uscire da questa vita, come dice S. Antonino,7 subito intende ch'ella è creata per Dio: «Separata autem anima a corpore intelligit Deum summum bonum et ad illud esse creatam». Onde subito si slancia per andare ad abbracciarsi col suo sommo bene; ma stando in peccato, sarà da Dio discacciata. Se un cane vede la lepre, ed uno lo tiene con una catena, che forza fa il cane per romper la catena ed andare a pigliar la preda? L'anima in separarsi dal corpo, naturalmente è tirata a Dio, ma il peccato la divide da Dio, e la manda lontana all'inferno. «Iniquitates vestrae diviserunt inter vos, et Deum vestrum» (Is. 59. 2). Tutto l'inferno dunque consiste in quella prima parola della condanna: «Discedite a me, maledicti». Andate, dirà Gesu-Cristo, non voglio che vediate più la mia faccia. «Si mille quis ponat gehennas, nihil tale dicturus est, quale est exosum esse Christo» (Chrysost. hom. 24. in Matth.).8 Allorché Davide9 condannò Assalonne a non comparirgli più davanti, fu tale questa pena ad Assalonne che rispose: Dite a mio padre, che o mi permetta di vedere la sua faccia o mi dia la morte (2. Reg. 14. 24).10 Filippo II11 ad un grande che vide stare irriverente in chiesa, gli disse: Non mi comparite più davanti. Fu tanta la pena di quel grande, che giunto alla casa se ne morì di dolore. Che sarà, quando Dio in morte intimerà al reprobo: Va via che io non voglio vederti più. «Abscondam faciem ab eo, et invenient eum omnia mala» (Deut. 31. 17). Voi (dirà Gesù a' dannati nel giorno finale) non siete più miei, io non sono più vostro. «Voca nomen eius, non populus meus, quia vos non populus meus, et ego non ero vester» (Osea 1. 9). Che pena è ad un figlio, a cui gli muore il padre, o ad una moglie quando le muore lo sposo, il dire: Padre mio, sposo mio, non t'ho da vedere più. Ah se ora udissimo un'anima dannata che piange, e le chiedessimo: Anima, perché piangi tanto? Questo solo ella risponderebbe: Piango, perché ho perduto Dio, e non l'ho da vedere più. Almeno potesse la misera nell'inferno amare il suo Dio, e rassegnarsi alla sua volontà. Ma no; se potesse ciò fare, l'inferno non sarebbe inferno; l'infelice non può rassegnarsi alla volontà di Dio, perché è fatta nemica della divina volontà. Né può amare più il suo Dio, ma l'odia e l'odierà per sempre; e questo sarà il suo inferno, il conoscere che Dio è un bene sommo e il vedersi poi costretto ad odiarlo, nello stesso tempo che lo conosce degno d'infinito amore. «Ego sum ille nequam privatus amore Dei», così rispose quel demonio, interrogato chi fosse da S. Caterina da Genova.12 Il dannato odierà e maledirà Dio, e maledicendo Dio, maledirà anche i beneficii che gli ha fatti, la creazione, la redenzione, i sagramenti, specialmente del battesimo e della penitenza, e sopra tutto il SS. Sagramento dell'altare. Odierà tutti gli angeli e santi ma specialmente l'angelo suo custode e i santi suoi avvocati, e più di tutti la divina Madre; ma principalmente maledirà le tre divine Persone, e fra queste singolarmente il Figlio di Dio, che un giorno è morto per la di lei salute, maledicendo le sue piaghe, il suo sangue, le sue pene e la sua morte.

    Affetti e preghiere.

    Ah mio Dio, Voi dunque siete il mio sommo bene, bene infinito, ed io volontariamente tante volte v'ho perduto. Sapeva io già che col mio peccato vi da un gran disgusto, e che perdeva la vostra grazia, e l'ho fatto? Ah che se non vi vedessi trafitto in croce, o Figlio di Dio, morire per me, non avrei più animo di cercarvi13 e di sperare da Voi perdono. Eterno Padre, non guardate me, guardate questo amato Figlio, che vi cerca14 per me pietà; esauditelo, e perdonatemi. A quest'ora dovrei star nell'inferno da tanti anni senza speranza di potervi più amare, e di ricuperare la vostra grazia perduta. Dio mio, mi pento sopra ogni male di quest'ingiuria che v'ho fatta, di rinunziare alla vostr'amicizia e di disprezzare il vostro amore per li gusti miserabili di questa terra. Oh fossi morto prima mille volte! Come ho potuto essere così cieco e così pazzo! Vi ringrazio, Signor mio, che mi date tempo di poter rimediare al mal fatto. Giacché per misericordia vostra sto fuori dell'inferno, e vi posso amare, Dio mio, vi voglio amare. Non voglio più differire di convertirmi tutto a Voi. V'amo bontà infinita, v'amo15 mia vita, mio tesoro, mio amore, mio tutto. Ricordatemi sempre, o Signore, l'amore che mi avete portato, e l'inferno dove dovrei stare; acciocché questo pensiero mi accenda sempre a farvi atti d'amore e a dirvi sempre: io v'amo, io v'amo, io v'amo.
    O Maria Regina, speranza e Madre mia, se stessi nell'inferno, neppure potrei amar più Voi. V'amo Madre mia, e a Voi confido di non lasciare più d'amar Voi e 'l mio Dio. Aiutatemi, pregate Gesù per me.
    1 [31.] MANSI, op. cit., tr. 34, disc. 22; II, 646, col. 2: «Sanctus tamen Bruno in sermone de Iudicio finali, longe clarioribus verbis hanc ipsam confirmat veritatem, dicens: Addantur
    tormenta tormentis, et poenae poenis; saeviant saevius ministri; at Deo non privemur».
    2 [2.] DREXELIUS, Infernus damnatorum, c. II, parag. 2; Opera, I, Lugduni 1658, 148, col. 2: «Hic attonitus Chrysostomus: Nam si mille, ait, dixeris gehennas, nihil illius par dices doloris, quem sustinet anima. Intolerabilis gehenna est, confiteor, et multum intolerabilis, tamen intolerabilior haec regni amissio». Cfr. CHRYSOST., In ep. ad Philipp., c. IV, hom. 14, n. 4; PG 62, 280: «Si sexcentas gehennas attuleris, nihil par afferes dolori illi, quo tunc angitur anima, cum universus quatitur orbis... Intolerabilis res est gehenna, fateor, et valde quidem intolerabilis; attamen intolerabilius mihi videtur de regno cecidisse».
    3 [3.] Ps. AUGUSTINUS, De triplici habitaculo, l. unus, c. 4; PL 40, 995: «Cuius faciem si omnes carcere inferni inclusi viderent, nullam poenam, nullum dolorem nullamque tristitiam sentirent; cuius praesentia, si in inferno cum sanctis habitatoribus appareret, continuo infernus in amoenum converteretur paradisum». È in Appendice delle opere di s. Agostino, ma non è autentico (cfr. Glorieux, 28).
    4 [10.] S. THOMAS, Summa theol., I-II, q. 87, a. 4, c.: «Ex parte igitur aversionis, respondet peccato poena damni, quae etiam est infinita: est einm amissio infiniti boni, scilicet Dei».
    5 [14.] S. AUGUST., Enarrat. in Ps. XLIX, n. 7; PL 36, 569: «Si non veniret ignis die iudicii, et sola peccatoribus immineret separatio a facie Dei, in qualibet essent affluentia deliciarum, non videntes a quo creati sunt, et separati ab illa dulcedine ineffabili vultus eius, in qualibet aeternitate et impunitate peccati, plangere se deberent. Sed quid loquor, aut quibus loquor? Haec amantibus poena est, non contemnentibus». Cfr. CC 38, 580.
    6 [14.] ORLANDINI, Historia Societatis Iesu, l. X, nn. 55-62; Romae 1615, 318.
    7 [2.] S. ANTONINUS, Summa theol., p. I, tit. V, c. 3, parag. 3; Veronae 1740, col. 402: «Quum anima separatur a corpore, sibi subito infunduntur species omnium rerum naturalium… Et sic cognoscens quod Deus est summum bonum et summe utilis animae, videns se eo privatum sua miseria, quum capax fuerit adquirendi, summe dolet».
    8 [15.] CHRYSOST., In Matthaeum, hom. 23 (al. 24), n. 8; PG 57, 317: «Intolerabilis quippe est illa gehenna illaque poena. Attamen licet mille quis gehennas proposuerit, nihil tale dicturus est, quale est ex beata illa excidere gloria, Christo exosum esse, audire ab illo: Non novi vos».
    9 [15.] Davide) Davidde VR BR1 BR2.
    10 [18.] II Reg., 14, 32.
    11 [18.] SINISCALCHI L., La scienza della salute, med. V, punto 2; Padova 1773, 136: «Due cavalieri in Ispagna tosto che udirono dal re Filippo II in pena della poca compostezza, con cui stavano in chiesa: Non mi comparite più innanzi, tornati a casa ne morirono per la doglia».
    12 [14.] PEPE F., Discorsi in lode di Maria SS. per tutti i sabbati dell'anno, II, Napoli 1756, 228: «Dimandato un demonio dalla B. Catarina da Genova chi egli si fusse. Dopo un profondo sospiro, rispose: Sono un infelice spirito senza amor di Dio». Alquanto diversamente racconta il fatto ROSIGNOLI C. G., Verità eterne, Bologna 1689, 325: «Imperocché, scongiurandosi un demonio dell'inferno nel corpo di un'energumena, e costretto dal sacerdote cogli esorcismi, a manifestare il suo nome disse con voce lacrimevole: Ego sum ille nequam privatus amore Dei. Io son lo scelerato privo dell'amor di Dio. Alle quali parole la B. Caterina di Genova ivi presente tanto s'inorridì, che come percossa da un fulmine esclamò: Oh orribile miseria, esser privo dell'amor di Dio! Oh inferno degl'inferni, esser privo dell'amor di Dio». Cfr. MARABOTTO, Vita ammirabile e dottrina celeste di S. Caterina Fiesca Adorna, c. XIV, n. 12; Padova 1743, 59-60.
    13 [3.] cercarvi) chiedervi VR BR1 BR2.
    14 [5.] cerca) chiede VR BR1 BR2.
    15 [15.] v'amo) vi amo BR2.

    CONSIDERAZIONE XXVII –
    DELL'ETERNITÀ DELL'INFERNO

    «Et ibunt hi in supplicium aeternum» (Matth. 25. 46).

    PUNTO I

    Se l'inferno non fosse eterno, non sarebbe inferno. Quella pena che non dura molto, non è gran pena. A quell'infermo si taglia una postema, a quell'altro si foca una cancrena; il dolore è grande, ma perché finisce tra poco, non è gran tormento. Ma qual pena sarebbe, se quel taglio o quell'operazione di fuoco continuasse per una settimana, per un mese intero?1 Quando la pena è assai lunga, ancorché sia leggiera, come un dolore d'occhi, un dolore di mole, si rende insopportabile. Ma che dico dolore? anche una commedia, una musica che durasse troppo, o fosse per tutto un giorno, non potrebbe soffrirsi per lo tedio. E se durasse un mese? un anno? Che sarà l'inferno? dove non si ascolta sempre la stessa commedia, o la stessa musica: non vi è solo un dolore d'occhi, o di mole: non si sente solamente il tormento d'un taglio, o di un ferro rovente, ma vi sono tutti i tormenti, tutti i dolori; e per quanto tempo? per tutta l'eternità: «Cruciabuntur die ac nocte in saecula saeculorum» (Apoc. 20. 10).
    Quest'eternità è di fede; non è già qualche opinione, ma è verità attestataci da Dio in tante Scritture: «Discedite a me, maledicti, in ignem aeternum» (Matth. 25. 41). «Et hi ibunt in supplicium aeternum» (Ibid. num. 46). «Poenas dabunt in interitu aeternas» (2. Thess. 1. 9). «Omnis igne salietur» (Marc. 9. 48). Siccome il sale conserva le cose, così il fuoco dell'inferno nello stesso tempo che tormenta i dannati, fa l'officio di sale conservando loro la vita. «Ignis ibi consumit (dice S. Bernardo),2 ut semper reservet» (Medit. cap. 3).
    Or qual pazzia sarebbe quella di taluno, che per pigliarsi una giornata di spasso, si volesse condannare a star chiuso in una fossa per venti, o trenta anni? Se l'inferno durasse cent'anni; che dico cento? durasse non più che due o tre anni, pure sarebbe una gran pazzia, per un momento di vil piacere, condannarsi a due o tre anni di fuoco. Ma non si tratta di trenta, di cento, né di mille, né di cento mila anni; si tratta d'eternità, si tratta di patire per sempre gli stessi tormenti, che non avranno mai da finire, né da alleggerirsi un punto. Hanno avuto ragione dunque i santi, mentre stavano in vita, ed anche in pericolo di dannarsi, di piangere e tremare. Il B. Isaia3 anche mentre stava nel deserto tra digiuni e penitenze, piangeva dicendo: Ah misero me, che ancora non sono libero dal dannarmi! «Heu me miserum, quia nondum a gehennae igne sum liber!»




    Affetti e preghiere.

    Ah mio Dio, se mi aveste mandato all'inferno, come già più volte l'ho meritato, e poi me ne aveste cacciato per vostra misericordia, quanto ve ne sarei restato obbligato? ed indi qual vita santa avrei cominciato a fare? Ed ora che con maggior misericordia Voi mi avete preservato dal cadervi, che farò Tornerò ad offendervi e provocarvi a sdegno, affinché proprio mi mandiate ad ardere in quella carcere de' vostri ribelli, dove tanti già ardono per meno peccati de' miei? Ah mio Redentore, così ho fatto per lo passato; in vece di servirmi del tempo che mi davate per piangere i miei peccati, l'ho speso a più sdegnarvi. Ringrazio la vostra bontà infinita, che tanto mi ha sopportato. S'ella non era infinita, e come mai avrebbe potuto soffrirmi? Vi ringrazio dunque di avermi con tanta pazienza aspettato sinora; e vi ringrazio sommamente della luce che ora mi date, colla quale mi fate conoscere la mia pazzia e il torto che vi ho fatto in oltraggiarvi con tanti miei peccati. Gesù mio, li detesto e me ne pento con tutto il cuore; perdonatemi per la vostra passione; ed assistetemi colla vostra grazia, acciocché più non vi offenda. Giustamente or debbo temere che ad un altro peccato mortale Voi mi abbandoniate. Ah Signor mio, vi prego, mettetemi avanti gli occhi questo giusto timore, allorché il demonio mi tenterà di nuovo ad offendervi. Dio mio, io vi amo, né vi voglio più perdere; aiutatemi colla vostra grazia.
    Aiutatemi, o Vergine SS., fate ch'io sempre ricorra a Voi nelle mie tentazioni, acciocché non perda più Dio. Maria, Maria4 Voi siete la speranza mia.
    1 [10.] intero) intiero ND1 VR BR1 BR2.
    2 [27.] PS. BERNARDUS, Medit. piissimae de cognitione humanae conditionis, c. III, n. 10; PL 184, 491: «Sic enim ignis consumit, ut semper reservet; sic tormenta aguntur, ut semper renoventur» (cfr. Glorieux, 71).
    3 [8.] SPANNER A., Polyanthea sacra, I, Venetiis 1709: «Me miserum! me miserum! quia nondum a gehennae igne sum liber: nondum mihi constat, quoniam hinc sim profecturus». Cfr. S. ISAIAS Ab., Orationes, or. XIV, n. I; PG 40, 1139: «Me miserum, me miserum, quia nondum a gehennae igne sum liber. Qui ad illam homines detrahunt, adhuc in me operantur: et omnia opera eius moventur in corde meo». Alcuni scrivono anche: Esaias.
    4 [5.] Maria, om. una volta in BR1 BR2.

    PUNTO II

    Chi entra una volta nell'inferno, di là non uscirà più in eterno. Questo pensiero facea tremare Davide,1 dicendo: «Neque absorbeat me profundum, neque urgeat super me puteus os suum» (Ps. 68. 16). Caduto ch'è il dannato in quel pozzo di tormenti, si chiude la bocca e non si apre più. Nell'inferno v'è porta per entrare, ma non v'è porta per uscire: «Descensus erit (dice Eusebio Emisseno),2 ascensus non erit». E così spiega le parole del Salmista: «Neque urgeat os suum; quia cum susceperit eos, claudetur sursum, et aperietur deorsum». Fintanto che il peccatore vive, sempre può avere speranza di rimedio, ma colto ch'egli sarà dalla morte in peccato, sarà finita per lui ogni speranza. «Mortuo homine impio, nulla erit ultra spes» (Prov. 11. 7). Almeno potessero i dannati lusingarsi con qualche falsa speranza, e così trovare qualche sollievo alla loro disperazione. Quel povero impiagato, confinato in un letto, è stato già disperato da' medici di poter guarire; ma pure si lusinga, e si consola con dire: Chi sa se appresso si troverà qualche medico e qualche rimedio che mi sani. Quel misero condannato alla galea in3 vita anche si consola, dicendo: Chi sa che può succedere, e mi libero da queste catene. Almeno (dico) potesse il dannato dire similmente così, chi sa se un giorno uscirò da questa prigione; e così potesse ingannarsi almeno con questa falsa speranza. No, nell'inferno non v'è alcuna speranza né vera né falsa, non vi è «chi sa». «Statuam contra faciem» (Ps. 49. 21). Il misero si vedrà sempre innanzi agli occhi scritta la sua condanna, di dover sempre stare a piangere in quella fossa di pene: «Alii in vitam aeternam, et alii in opprobrium, ut videant semper» (Dan. 12. 2). Onde il dannato non solo patisce quel che patisce in ogni momento, ma soffre in ogni momento la pena dell'eternità, dicendo: Quel che ora patisco, io l'ho da patire per sempre. «Pondus aeternitatis sustinet», dice Tertulliano.4
    Preghiamo dunque il Signore, come pregava S. Agostino «Hic ure, hic seca, hic non parcas, ut in aeternum parcas». I castighi di questa vita passano. «Sagittae tuae transeunt, vox tonitrui tui in rota» (Ps. 76. 18). Ma i castighi dell'altra vita non passano mai. Di questi temiamo; temiamo di quel tuono («vox tonitrui tui in rota»), s'intende di quel tuono della condanna eterna, che uscirà dalla bocca del giudice nel giudizio contro i reprobi: «Discedite a me, maledicti, in ignem aeternum».6 E dice, «in rota»; la ruota è figura dell'eternità, a cui non si trova termine. «Eduxi gladium meum de vagina sua irrevocabilem» (Ez. 21. 5). Sarà grande il castigo dell'inferno, ma ciò che più dee atterrirci, è che sarà castigo irrevocabile.
    Ma come, dirà un miscredente, che giustizia è questa? castigare un peccato che dura un momento con una pena eterna? Ma come (io rispondo) può aver l'ardire un peccatore per un gusto d'un momento offendere un Dio d'infinita maestà? Anche nel giudizio umano (dice S. Tommaso, I. 2. q. 87. a. 3)7 la pena non si misura secondo la durazione del tempo, ma secondo la qualità del delitto: «Non quia homicidium in momento committitur, momentanea poena punitur». Ad un peccato mortale un inferno è poco: all'offesa d'una maestà infinita si dovrebbe un castigo infinito, dice S. Bernardino da Siena:8 «In omni peccato mortali infinita Deo contumelia irrogatur; infinitae autem iniuriae infinita debetur poena». Ma perché, dice l'Angelico9 la creatura non è capace di pena infinita nell'intensione, giustamente fa Dio che la sua pena sia infinita nella estensione.
    Oltreché questa pena dee esser necessariamente eterna, prima perché il dannato non può più soddisfare per la sua colpa. In questa vita intanto può soddisfare il peccator penitente, in quanto gli sono applicati i meriti di Gesu-Cristo; ma da questi meriti è escluso il dannato; onde non potendo egli placare più Dio, ed essendo eterno il suo peccato, eterna dee essere ancora la sua pena. «Non dabit Deo placationem suam, laborabit in aeternum» (Ps. 48. 8). Quindi dice il Belluacense (lib. 2. p. 3):10 «Culpa semper poterit ibi puniri, et nunquam poterit expiari»; poiché al dire di S. Antonino11 «ibi peccator poenitere non potest»;12 e perciò il Signore starà sempre con esso sdegnato. «Populus cui iratus est Dominus usque in aeternum» (Malach. 1. 4). Di più il dannato, benché Dio volesse perdonarlo, non vuol esser perdonato, perché la sua volontà è ostinata e confermata nell'odio contro Dio. Dice Innocenzo III:13 «Non humiliabuntur reprobi, sed malignitas odii in illis excrescet» (Lib. 3. de Cont. mundi c. 10). E S. Girolamo:14 «Insatiabiles sunt in desiderio peccandi» (In Proverb. 27). Ond'è che la piaga del dannato è disperata, mentre ricusa anche il guarirsi. «Factus est dolor eius perpetuus, et plaga desperabilis renuit curari» (Ier. 15. 18).15

    Affetti e preghiere.

    Dunque, mio Redentore, se a quest'ora io fossi dannato, siccome ho meritato, starei ostinato nell'odio contro di Voi, mio Dio, che siete morto per me? Oh Dio, e qual inferno sarebbe questo, odiare Voi che mi avete tanto amato, e siete una bellezza infinita, una bontà infinita, degna d'infinito amore! Dunque, se ora stessi nell'inferno, starei in uno stato sì infelice, che neppure vorrei il perdono ch'ora Voi m'offerite? Gesù mio, vi ringrazio della pietà che m'avete usata, e giacché ora posso essere perdonato, e posso amarvi, io voglio esser perdonato e voglio amarvi. Voi m'offerite il perdono, ed io ve lo domando, e lo spero per li meriti vostri. Io mi pento di tutte l'offese che v'ho fatte, o bontà infinita, e Voi perdonatemi. Io v'amo con tutta l'anima mia. Ah Signore, e che male Voi mi avete fatto, che avessi ad odiarvi come mio nemico per sempre? E quale amico ho avuto io mai, che ha fatto e patito per me, quel che avete fatto e patito Voi, o Gesù mio? Deh non permettete ch'io cada più in disgrazia vostra, e perda il vostro amore; fatemi prima morire, ch'abbia a succedermi questa somma ruina.
    O Maria, chiudetemi sotto il vostro manto, e non permettete ch'io n'esca più a ribellarmi contro Dio e contro Voi.
    1 [9.] Davide) Davidde VR BR1 BR2.
    2 [14.] EUSEBIUS EMISSENUS, Homil. de Epiphania, hom. 3; Opera, Parisiis 1575, f. 247: «Ardens inferni puteus aperietur, descensus erit, reditus non erit… Ideo autem dixit: Neque urgeat puteus super me os suum: quia cum susceperit reos claudetur sursum, et aperietur deorsum, dilatabitur in profundum, nullum spiramen, nullus liber anhelitus, claustris desuper urgentibus, relinquetur». Cfr. Maxima Bibl. Patrum, VI, Lugduni 1677, 655. Circa l'attribuzione di queste Omilie ad Eusebio Emisseno o ad Eusebio Gallicano, vedi PG 86, 287-291, 461-464.
    3 [24.] Meglio: a vita.
    4 [8.] NEPVEU F., Riflessioni cristiane, I, Venezia 1721, 26: «I dannati in ogni momento, dice Tertulliano, sostengono il peso di tuta l'eternità: Pondus aeternitatis sustinent». HOUDRY V., Bibl. concionatoria, Infernus, parag. VI; II, Venetiis 1764, 345: «Damnati quolibet momento, Tertullianus ait, totius aeternitatis sustinent pondus». Vedi pure [SARNELLI G.], La via facile e sicura del paradiso, I, Napoli 1738, 311. Cfr. TERTULLIANUS, Apologet., c. 48; PL 1, 527: «Tunc restituetur omne humanum genus ad expungendum quod in isto aevo boni seu mali meruit, et exinde pendendum in immensam aeternitatis perpetuitatem». CC I, 167-68.
    5 [10.] DREXELIUS, De aeternitate, cons. V, n. 3; Opera, I, Lugduni 1658, 15: «Hinc tam serio clamat et precatur Augustinus: Domine, hic ure, hic seca, modo in aeternum parcas». La frase è ripetuta da molti autori ascetici, ma in s. Agostino non si trova che l'idea: S. AUGUST., Enarrat. in Ps. XXXIII, sermo II, n. 20; PL 36, 319: «Ideo [Deus] videtur non exaudire, ut sanet et parcat in sempiternum». CC 38, 295. ID., Sermo 70, n. 2; PL 38, 443.
    6 [17.] Matth., 25, 41.
    7 [25.] S. THOMAS, Summa theol., I-II, q. 87, a. 3, ad I: «In nullo iudicio requiritur ut poena adaequetur culpae secundum durationem. Non enim quia adulterium vel homicidium in momento committitur, propter hoc momentanea poena punitur».
    8 [4.] S. BERNARDINUS SEN., Quadragesimale de Evang. aeterno, sermo XII, a. 2, c. 2; Opera, II, Venetiis 1745, 76: «In omni peccato mortali, infinita Deo contumelia irrogatur... Infinitae autem iniuriae vel contumeliae, infinita de iure debetur poena». Op. omnia, III, Ad Claras Aquas 1956, 237.
    9 [6.] S. THOMAS, Supplem. III partis, q. 99, a. I, c.: «Unde, cum non posset esse infinita poena per intensionem, quia creatura non est capax alicuius qualitati infinitae; requiritur quod sit saltem duratione infinita». Cfr. anche S. ANTONINUS, Summa theol., tit. V, c. 3; IV, Veronae 1740, col. 400: «Poena autem infinita non potest esse secundum intensionem, quia sic consumeret naturam; oportet ergo ut sit infinita secundum extensionem, id est, secundum durationem, ut sic poena respondeat culpae».
    10 [16.] V. BELLOVACENSIS, Spec. morale, l. II, p. 3, dist. 3; Venetiis 1591, 147, col. 3: «Quia culpa semper poterit ibi puniri, et numquam poterit expiari, sic nec in corpore poterunt tormenta finiri, nec corpus ipsum tormentis examinari».
    11 [17.] S. Antonino) S. Antonio, G. Antonelli (1833); S. Agostino, Marietti, (1846).
    12 [17.] S. ANTONINUS, op. cit., p. IV, tit. 14, c. 5, parag. II; IV, Veronae 1740, col. 792: «In vita praesenti habent etiam maximi peccatores subsidium multiplex a Deo praecipue per poenitentiam... Sed damnatus non dabit Deo placationem suam, in psal. XLVIII, quia poenitere non potest... In inferno quis confitebitur tibi? quasi diceret, nullus, ita nec contritio nec satisfactio». A proposito di questa citazione vedi Introduzione generale, Restituzione del Testo, 99-100.
    13 [1.] INNOCENTIUS III, De contemptu mundi, l. III, c. 10; PL 217, 741: «Non humiliabuntur reprobi iam desperati de venia, sed malignitas odii tantum in illis excrescet, ut velint illum omnino non esse, per quem sciunt se tam infeliciter esse».
    14 [3.] STRABUS W., Glossa ordinaria in Prov. XXVII, 20; PL 113, 1110 (cfr. Prol. 11, ss.): «Inferni tormenta non replentur, terminum accipiendo. Similiter et intentionem eorum qui terrena sapiunt, insatiabiles sunt in desiderio peccandi. Ideo enim sine fine puniuntur, quia voluntatem habuerunt sine fine peccandi, si naturam haberent sine fine vivendi».
    15 [5.] Ier., 15, 18: «Quare factus est dolor meus perpetuus, et plaga mea desperabilis renuit curari?»
    PUNTO III
    La morte in questa vita è la cosa più temuta da peccatori, ma nell'inferno sarà la più desiderata. «Quaerent mortem, et non invenient; et desiderabunt mori, et mors fugiet ab eis» (Apoc. 9. 6). Onde scrisse S. Girolamo:1 «O mors quam dulcis esses, quibus tam amara fuisti!» (Ap. S. Bon. Soliloq.). Dice Davide2 che la morte si pascerà de' dannati: «Mors depascet eos» (Psal. 48. 15). Spiega S. Bernardo3 che siccome la pecora pascendosi dell'erba, si ciba delle frondi, ma lascia le radici, così la morte si pasce de' dannati, gli uccide ogni momento, ma lascia loro la vita per continuare ad ucciderli colla pena in eterno: «Sicut animalia depascunt herbas, sed remanent radices; sic miseri in inferno corrodentur a morte, sed iterum reservabuntur ad poenas». Sicché dice S. Gregorio4 che il dannato muore ogni momento senza mai morire: «Flammis ultricibus traditus semper morietur» (Lib. Mor. c. 12). Se un uomo muore ucciso dal dolore, ognuno lo compatisce; almeno il dannato avesse chi lo compatisse. No, muore il misero per lo dolore ogni momento, ma non ha, né avrà mai chi lo compatisca. Zenone imperadore,5 chiuso in una fossa, gridava: Apritemi per pietà. Non fu da niuno inteso, onde fu ritrovato morto da disperato, poiché si avea mangiate le stesse carni delle sue braccia. Gridano i presciti dalla fossa dell'inferno, dice S. Cirillo Alessandrino,6 ma niuno viene a cacciarneli, e niuno ne ha compassione: «Lamentantur, et nullus eripit; plangunt et nemo compatitur».
    E questa loro miseria per quanto tempo durerà? per sempre, per sempre. Narrasi negli Esercizi spirituali del P. Segneri Iuniore (scritti dal Muratori)7 che in Roma essendo dimandato il demonio, che stava nel corpo d'un ossesso, per quanto tempo doveva star nell'inferno; rispose con rabbia, sbattendo la mano su d'una sedia: «Sempre, sempre». Fu tanto lo spavento, che molti giovani del Seminario Romano, che ivi si trovavano, si fecero una confessione generale, e mutarono vita a questa gran predica di due parole: «Sempre, sempre». Povero Giuda! son passati già mille e settecento anni che sta nell'inferno, e l'inferno suo ancora è da capo. Povero Caino! egli sta nel fuoco da cinque mila e 700 anni, e l'inferno suo è da capo. Fu interrogato un altro demonio,8 da quanto tempo era andato all'inferno, e rispose: «Ieri». Come ieri, gli fu detto, se tu sei dannato da cinque mila e più anni? Rispose di nuovo: Oh se sapessivo9 9a che viene a dire eternità, bene intendereste che cinque mila anni non sono a paragone neppure un momento. Se un angelo dicesse ad un dannato: Uscirai dall'inferno, ma quando son passati tanti secoli, quante sono le goccie dell'acqua, le frondi degli alberi e le arene del mare, il dannato farebbe più festa, che un mendico in aver la nuova10 d'esser fatto re. Sì, perché passeranno tutti questi secoli, si moltiplicheranno infinite volte, e l'inferno sempre sarà da capo. Ogni dannato farebbe questo patto con Dio: Signore, accrescete la pena mia quanto volete; fatela durare quanto vi piace; metteteci termine, e son contento. Ma no, che questo termine non vi sarà mai. La tromba della divina giustizia non altro suonerà nell'inferno che «sempre, sempre, mai, mai».
    Dimanderanno i dannati ai demoni: A che sta la notte? «Custos, quid de nocte?» (Is. 21. 11). Quando finisce? quando finiscono queste tenebre, queste grida, questa puzza, queste fiamme, questi tormenti? E loro è risposto: «Mai, mai». E quanto dureranno? «Sempre, sempre». Ah Signore, date luce a tanti ciechi, che pregati a non dannarsi, rispondono: All'ultimo, se vado all'inferno, pazienza. Oh Dio, essi non hanno pazienza di sentire un poco di freddo, di stare in una stanza troppo calda, di soffrire una percossa; e poi avranno pazienza di stare in un mar di fuoco, calpestati da' diavoli e abbandonati da Dio e da tutti per tutta l'eternità!

    Affetti e preghiere.

    Ah Padre delle misericordie, Voi non abbandonate chi vi cerca. «Non dereliquisti quaerentes te, Domine» (Psal. 9. 11). Io per lo passato vi ho voltate tante volte le spalle, e Voi non mi avete abbandonato: non mi abbandonate ora che vi cerco. Mi pento, o sommo bene, di aver fatto tanto poco conto della vostra grazia, che l'ho cambiata per niente. Guardate le piaghe del vostro Figlio, udite le sue voci, che vi pregano a perdonarmi, e perdonatemi. E Voi, mio Redentore, ricordatemi sempre le pene che avete patito per me,11 l'amore, che mi avete portato, e l'ingratitudine mia, per cui tante volte mi ho meritato l'inferno: acciocché io pianga sempre il torto che vi ho fatto, e viva sempre ardendo del vostro amore. Ah Gesù mio, come non arderò del vostro amore, pensando che da tanti anni dovrei ardere nell'inferno, e seguire ad ardere per tutta l'eternità, e che Voi siete morto per liberarmene, e con tanta pietà me ne avete liberato? Se fossi nell'inferno, ora vi odierei, e vi avrei da odiare per sempre; ma ora v'amo, e voglio amarvi per sempre. Così spero al12 sangue vostro. Voi mi amate, ed io ancora v'amo. Voi mi amerete sempre, se io13 non vi lascio. Ah mio Salvatore, salvatemi da questa disgrazia ch'io abbia a lasciarvi, e poi fatene di me quel che volete. Io merito ogni castigo, ed io l'accetto, acciocché mi liberiate dal castigo d'esser privo del vostro amore.
    O Maria rifugio mio, quante volte io stesso mi son condannato all'inferno, e Voi me ne avete liberato? Deh liberatemi ora dal peccato, che solo può privarmi della grazia di Dio e portarmi all'inferno.
    1 [5.] S. BONAVENTURA, Soliloquium, c. III; Opera, VII, Lugduni 1668, 118: «Ad districti ergo iudicis iustitiam pertinet, ut numquam careant supplicio, quorum mens in hac vita numquam voluit carere peccato. Hieronymus: O mors, quam dulcis esses quibus tam amara fuisti! Te solummodo desiderant, qui te vehementer odiebant». Nell'edizione critica del Soliloquium è stata soppressa l'attribuzione del testo a s. Girolamo: cfr. S. BONAVENTURA, Soliloquium, c. III, parag. 3; Opera, VIII, Ad Claras Aquas 1898, 54.
    2 [6.] Davide) Davidde VR BR1 BR2.
    3 [7.] S. BERNARDINUS SEN., Quadrag. de Evang. aeterno, sermo XI, art. III, c. 3, parag. 3; Opera, II, Venetiis 1745, 73: «Sicut enim animalia depascunt herbas, quia penitus non eradicant eas, sed remanent radices, unde iterum crescit herba: sic miseri in inferno corrodentur a morte, sed afflicti iterum reservabuntur ad poenas». Op. omnia, III, Ad Claras Aquas 1956, 227.
    4 [13.] S. GREGORIUS M., Moralia in Iob, l. XV, c. 17, n. 21; PL 75, 1092: «Damnati semper moriuntur numquam morte consumendi. Persolvit enim in tormento ea quae hic illicite servavit desideria; et, flammis ultricibus traditus, semper moritur, quia semper in morte servatur».
    5 [18.] BARONIUS C., Annales Ecclesiastici, an. 491, n. 1; VIII, Lucae 1741, 532: «Satellites porro, qui ad sepulcrum, in quo repositus fuit, custodiendum erant collocati, retulerunt se per duas noctes lamentabilem vocem audivisse ex sepulcro elatam: Miseremini et aperite mihi… Sed cum non aperirent, ferunt... inventum Zenonem, qui prae fame suos ipse lacertos mandiderat, et caligas quas portabat».
    6 [3.] S. CYRILLUS ALEX., Homilia 14, De exitu animi et de secundo adventu; PG 77, 1075, 1078: «Illic vae, vae perpetuo, illic eheu, illic vociferantur, nec est qui succurrat; clamant, nec ullus est qui liberet... Gemunt continenter et sine intermissione, sed nullus est qui misereatur… lamentantur, sed nullus est qui liberet. Exclamant, et plangunt, sed nullus est qui commoveatur».
    7 [8.] MURATORI L. A., Esercizi spirituali esposti secondo il metodo del P. Paolo Segneri iuniore, med. sopra l'inferno; Venezia 1739, 222: «Scongiurando in Roma un valente esorcista una persona indemoniata, e venendogli in pensiero, che quello spirito desse qualche buon avvertimento a gli astanti, l'interrogò dove stesse allora. Rispose: Nell'inferno. E per quanto tempo, replicò il religioso, hai tu da starvi? Ripugnò un pezzo il maligno: ma vinto dal comando proruppe in fine con voce miserabilissima in queste parole: Per sempre, per sempre, sbuffando, e battendo ogni volta le mani in terra con incredibil furia… Era ivi presente per curiosità gran numero di cavalieri, e d'altra gente; e tale spavento s'impresse in tutti, che tutti perderono la parola. Basta dire che molti andarono tosto a fare una confessione generale, ed alcuni migliorarono notabilmente la vita loro, mossi da quella gran predica fatta lor dal demonio in una sola parola: Per sempre».
    8 [17.] PEPE F., op. cit., I, Napoli 1756, 305: «Dimandato un demonio da quanto tempo era stato scacciato dal cielo. Ieri, rispose. Bugiardo, ripigliò l'esorcista. Se sapessi, che cosa è eternità, ripigliò il demonio, tutt'il tempo dalla creazione del mondo fino a questo punto lo riputeresti un'ora».
    9 [19.] sapessivo) sapeste VR BR1 BR2.
    9a [19.] Dialettismo: sapeste.
    10 [4.] nuova) nova NS7.
    11 [29.] sempre le pene che avete patito per me, rigo om. NS7.
    12 [3.] spero al) spero nel VR BR1 BR2.
    13 [4.] se io) s'io VR BR1 BR2.

    CONSIDERAZIONE XXVIII
    RIMORSI DEL DANNATO

    «Vermis eorum non moritur» (Marc. 9. 47).
    PUNTO I

    Per questo verme che non muore, spiega S. Tommaso1 che s'intende il rimorso di coscienza, dal quale eternamente sarà il dannato tormentato nell'inferno. Molti saranno i rimorsi2 con cui la coscienza roderà il cuore de' reprobi, ma tre saranno i rimorsi3 più tormentosi: il pensare al poco per cui si son dannati: al poco che dovean fare per salvarsi: e finalmente al gran bene che han perduto. Il primo rimorso4 dunque che avrà il dannato sarà il pensare per quanto poco s'è perduto. Dopo che Esaù ebbesi cibato di quella minestra di lenticchie, per cui avea5 venduta la sua primogenitura, dice la Scrittura che per lo dolore e rimorso della perdita fatta si pose ad urlare: «Irrugiit clamore magno» (Gen. 27. 34). Oh quali altri urli e ruggiti darà il dannato pensando che per poche soddisfazioni momentanee e avvelenate si ha perduto un regno eterno di contenti, e si ha da vedere eternamente condannato ad una continua morte! Onde piangerà assai più amaramente, che non piangeva Gionata, allorché videsi condannato a morte da Saulle suo padre, per essersi cibato d'un poco di mele.6 «Gustans gustavi paulum mellis, et ecce morior» (1. Reg. 14. 43). Oh Dio, e qual pena apporterà al dannato il vedere allora la causa della sua dannazione? Al presente che cosa a noi sembra la nostra vita passata, se non un sogno, un momento? Or che pareranno a chi sta nell'inferno quelli cinquanta, o sessanta anni di vita, che avrà vivuti in questa terra, quando si troverà7 nel fondo dell'eternità, in cui saranno già passati cento e mille milioni d'anni, e vedrà che la sua eternità allora comincia! Ma che dico cinquanta anni di vita? cinquanta anni tutti forse di gusti? e che forse il peccatore vivendo senza Dio, sempre gode ne' suoi peccati? quando durano i gusti del peccato? durano momenti; e tutto l'altro tempo per chi vive in disgrazia di Dio, è tempo di pene e8 di rancori. Or che pareranno quelli momenti di piaceri al povero dannato? e specialmente che parerà quell'uno ed ultimo peccato fatto, per lo quale s'è perduto? Dunque (dirà) per un misero gusto brutale ch'è durato un momento, e appena avuto è sparito come vento, io avrò da stare ad ardere in questo fuoco, disperato ed abbandonato da tutti, mentre Dio sarà Dio per tutta l'eternità!

    Affetti e preghiere.

    Signore, illuminatemi a conoscere l'ingiustizia che v'ho usata in offendervi, e 'l castigo eterno che con ciò mi ho meritato. Mio Dio, sento una gran pena di avervi offeso, ma questa pena mi consola; se Voi mi aveste mandato all'inferno, come io ho meritato, questo rimorso sarebbe l'inferno del mio inferno, pensando per quanto poco mi son dannato; ma ora questo rimorso (dico) mi consola, perché mi dà animo a sperare il perdono da Voi, che avete promesso di perdonare chi si pente. Sì, mio Signore, mi pento di avervi oltraggiato, abbraccio questa dolce pena, anzi vi prego ad accrescermela e a conservarmela sino alla morte, acciocché io9 pianga sempre amaramente i disgusti che v'ho dati. Gesù mio, perdonatemi; o mio Redentore, che per avere pietà di me, non avete avuta pietà di Voi, condannandovi a morire10 di dolore, per liberarmi dall'inferno, abbiate pietà di me. Fate dunque che il rimorso di avervi offeso mi tenga continuamente addolorato, e nello stesso tempo m'infiammi tutto d'amore verso di Voi, che tanto mi avete amato, e con tanta pazienza mi avete sofferto, ed ora invece di castighi, mi arricchite di lumi e di grazie; ve ne ringrazio, Gesù mio, e v'amo; v'amo più di me stesso, v'amo con tutt'il cuore. Voi non sapete disprezzare chi v'ama. Io v'amo, non mi discacciate dalla vostra faccia. Ricevetemi dunque nella vostra grazia, e non permettete ch'io v'abbia da perdere più. Maria Madre mia, accettatemi per vostro servo, e stringetemi a Gesù vostro Figlio. Pregatelo che mi perdoni, che mi doni il suo amore e la grazia della perseveranza sino alla morte.
    1 [5.] S. THOMAS, Suppl. III partis, q. 97, a. 2, c.: «Unde vermis qui in damnatis ponitur, non debet intelligi esse materialis, sed spiritualis qui est conscientiae remorsus: qui dicitur vermis, in quantum oritur ex putredine peccati et animam affligit, sicut corporalis vermis ex putredine ortus affligit pungendo».
    2 [7.] rimorsi) morsi VR BR1 BR2.
    3 [8.] rimorsi) morsi VR BR1 BR2.
    4 [10.] rimorso) morso VR BR1 BR2.
    5 [13.] avea) aveva VR BR1 BR2.
    6 [20.] Oggi miele.
    7 [26.] troverà) ritroverà VR BR1 BR2.
    8 [5.] e, om. VR.
    9 [22.] acciocché io) acciocch'io VR BR1.
    10 [25.] morire) morir VR BR1 BR2.

    PUNTO II

    Dice S. Tommaso1 che questa sarà la pena principale de' dannati, il vedere che si son perduti per niente, e che con tanta facilità poteano acquistarsi la gloria del paradiso, se voleano: «Principaliter dolebunt, quod pro nihilo damnati sunt, et facillime vitam poterant consequi sempiternam». Il secondo rimorso2 dunque della coscienza sarà il pensare al poco che dovean fare per salvarsi. Comparve a S. Umberto3 un dannato e gli disse che quest'appunto era la maggiore4 afflizione, che cruciavalo nell'inferno, il pensiero del poco per cui s'era dannato, e del poco che avrebbe avuto a fare per salvarsi. Dirà allora il misero: S'io mi mortificava a non guardare quell'oggetto, se vincea quel rispetto umano, se fuggiva quell'occasione, quel compagno, quella conversazione, non mi sarei dannato. Se mi fossi confessato ogni settimana, se avessi frequentata la Congregazione, se avessi letto ogni giorno quel libretto spirituale, se mi fossi raccomandato a Gesu-Cristo ed a Maria, non sarei ricaduto. Ho proposto tante volte di farlo, ma non l'ho eseguito; o pure l'ho cominciato a fare, e poi l'ho lasciato, e perciò mi son perduto.
    Accresceranno la pena di questo rimorso gli esempi, che avrà avuti degli altri suoi buoni amici e compagni; e più l'accresceranno i doni che Dio gli avea concessi per salvarsi: doni di natura, come buona sanità, beni di fortuna, talenti che 'l Signore gli avea dati affin di bene impiegarli, e farsi santo: doni poi di grazia, tanti lumi, ispirazioni, chiamate, e tanti anni conceduti a rimediare il mal fatto: ma vedrà che in questo stato miserabile, al quale è arrivato, non v'è più tempo da rimediare. Sentirà l'Angelo del Signore che grida e giura: «Et Angelus, quem vidi stantem, iuravit per viventem in saecula saeculorum... quia tempus non erit amplius» (Apoc. 10. 6). Oh che spade crudeli saranno tutte queste grazie ricevute al cuore del povero dannato, allorché vedrà esser finito già il tempo di poter più dar riparo alla sua eterna ruina. Dirà dunque piangendo cogli altri suoi compagni disperati: «Transiit messis, finita est aestas, et nos salvati non sumus» (Ier. 8. 20). Dirà: Oh se le fatiche che ho fatte per dannarmi, l'avessi spese per Dio, mi troverei fatto un gran santo; ed ora che me ne trovo, se non rimorsi e pene, che mi tormenteranno in eterno? Ah che questo pensiero crucierà il dannato più che il fuoco, e tutti gli altri tormenti dell'inferno; il dire: Io poteva essere per sempre felice, ed ora ho da essere per sempre infelice.

    Affetti e preghiere.

    Ah Gesù mio, e come avete potuto tanto sopportarmi? io tante volte v'ho voltate le spalle, e Voi non avete lasciato di venirmi appresso. Io tante volte vi ho offeso, e Voi mi avete perdonato; vi ho tornato ad offendere, e Voi avete ritornato a perdonarmi. Deh fatemi parte di quel dolore, che sentiste nell'orto di Getsemani de' peccati miei, che allora vi fecero sudar sangue. Mi pento, Redentor mio caro, di aver così malamente pagato il vostro Cuore.5 O gusti miei maledetti, vi detesto e maledico, voi mi avete fatta perdere la grazia del mio Signore. Amato mio Gesù, ora io v'amo sopra ogni cosa, rinunzio a tutte le soddisfazioni illecite e propongo prima di morir mille volte, che di offendervi più. Deh per quell'affetto con cui mi amaste sulla croce ed offeriste la vostra vita divina per me, datemi luce e forza di resistere alle tentazioni, e di ricorrere al vostro aiuto, quando sarò tentato.
    O Maria speranza mia, Voi tutto potete appresso Dio, impetratemi la santa perseveranza: ottenetemi ch'io più non mi divida dal suo santo amore.
    1 [5.] Forse trattasi di un testo sunteggiato: vedi S. THOMAS, Compendium Theologiae, c. 175; Opera, XVII, Romae 1570, opusc. II, f. 31, col. 3: «Dolent ergo mali quia peccata commiserunt, non propter hoc, quia peccata eis displiceant, quia etiam tunc mallent peccata illa committere, si facultas daretur, quam Deum habere... Sic igitur et voluntas eorum perpetuo manebit obstinata in malo, et tamen gravissime dolebunt de culpa commissa et de gloria amissa; et hic dolor vocatur remorsus conscientiae, qui metaphorice in Scripturis vermis nominatur, secundum illud Isaiae ultimmo 24: Vermis eorum non morietur». Cfr. Opuscula theol., op. I Compendium Theol., c. 175, n. 348; I, Taurini 1954, 82.
    2 [9.] rimorso) morso VR BR1 BR2.
    3 [10.] ROSIGNOLI C. G., Verità eterne, lez. VI, parag. 2; Bologna 1689, 114: «Ma che accade addur favole, se ne abbiamo la testimonianza addotta da B. Umberto, d'un dannato, che comparito in mesta gramaglia tutto affannato confessò che l'inferno del suo inferno era la rimembranza delle colpe commesse: d'aver perduto un regno eterno per brevissimo diletto: d'aver gittato in vanissime cure quel tempo, con un quarticello del quale avrebbe potuto con una buona confessione ottener la salute».
    4 [11.] maggiore) maggior VR.
    5 [30.] Cuore) amore ND1 VR ND3 BR1 BR2.

    PUNTO II

    Dice S. Tommaso1 che questa sarà la pena principale de' dannati, il vedere che si son perduti per niente, e che con tanta facilità poteano acquistarsi la gloria del paradiso, se voleano: «Principaliter dolebunt, quod pro nihilo damnati sunt, et facillime vitam poterant consequi sempiternam». Il secondo rimorso2 dunque della coscienza sarà il pensare al poco che dovean fare per salvarsi. Comparve a S. Umberto3 un dannato e gli disse che quest'appunto era la maggiore4 afflizione, che cruciavalo nell'inferno, il pensiero del poco per cui s'era dannato, e del poco che avrebbe avuto a fare per salvarsi. Dirà allora il misero: S'io mi mortificava a non guardare quell'oggetto, se vincea quel rispetto umano, se fuggiva quell'occasione, quel compagno, quella conversazione, non mi sarei dannato. Se mi fossi confessato ogni settimana, se avessi frequentata la Congregazione, se avessi letto ogni giorno quel libretto spirituale, se mi fossi raccomandato a Gesu-Cristo ed a Maria, non sarei ricaduto. Ho proposto tante volte di farlo, ma non l'ho eseguito; o pure l'ho cominciato a fare, e poi l'ho lasciato, e perciò mi son perduto.
    Accresceranno la pena di questo rimorso gli esempi, che avrà avuti degli altri suoi buoni amici e compagni; e più l'accresceranno i doni che Dio gli avea concessi per salvarsi: doni di natura, come buona sanità, beni di fortuna, talenti che 'l Signore gli avea dati affin di bene impiegarli, e farsi santo: doni poi di grazia, tanti lumi, ispirazioni, chiamate, e tanti anni conceduti a rimediare il mal fatto: ma vedrà che in questo stato miserabile, al quale è arrivato, non v'è più tempo da rimediare. Sentirà l'Angelo del Signore che grida e giura: «Et Angelus, quem vidi stantem, iuravit per viventem in saecula saeculorum... quia tempus non erit amplius» (Apoc. 10. 6). Oh che spade crudeli saranno tutte queste grazie ricevute al cuore del povero dannato, allorché vedrà esser finito già il tempo di poter più dar riparo alla sua eterna ruina. Dirà dunque piangendo cogli altri suoi compagni disperati: «Transiit messis, finita est aestas, et nos salvati non sumus» (Ier. 8. 20). Dirà: Oh se le fatiche che ho fatte per dannarmi, l'avessi spese per Dio, mi troverei fatto un gran santo; ed ora che me ne trovo, se non rimorsi e pene, che mi tormenteranno in eterno? Ah che questo pensiero crucierà il dannato più che il fuoco, e tutti gli altri tormenti dell'inferno; il dire: Io poteva essere per sempre felice, ed ora ho da essere per sempre infelice.



    Affetti e preghiere.

    Ah Gesù mio, e come avete potuto tanto sopportarmi? io tante volte v'ho voltate le spalle, e Voi non avete lasciato di venirmi appresso. Io tante volte vi ho offeso, e Voi mi avete perdonato; vi ho tornato ad offendere, e Voi avete ritornato a perdonarmi. Deh fatemi parte di quel dolore, che sentiste nell'orto di Getsemani de' peccati miei, che allora vi fecero sudar sangue. Mi pento, Redentor mio caro, di aver così malamente pagato il vostro Cuore.5 O gusti miei maledetti, vi detesto e maledico, voi mi avete fatta perdere la grazia del mio Signore. Amato mio Gesù, ora io v'amo sopra ogni cosa, rinunzio a tutte le soddisfazioni illecite e propongo prima di morir mille volte, che di offendervi più. Deh per quell'affetto con cui mi amaste sulla croce ed offeriste la vostra vita divina per me, datemi luce e forza di resistere alle tentazioni, e di ricorrere al vostro aiuto, quando sarò tentato.
    O Maria speranza mia, Voi tutto potete appresso Dio, impetratemi la santa perseveranza: ottenetemi ch'io più non mi divida dal suo santo amore.
    1 [5.] Forse trattasi di un testo sunteggiato: vedi S. THOMAS, Compendium Theologiae, c. 175; Opera, XVII, Romae 1570, opusc. II, f. 31, col. 3: «Dolent ergo mali quia peccata commiserunt, non propter hoc, quia peccata eis displiceant, quia etiam tunc mallent peccata illa committere, si facultas daretur, quam Deum habere... Sic igitur et voluntas eorum perpetuo manebit obstinata in malo, et tamen gravissime dolebunt de culpa commissa et de gloria amissa; et hic dolor vocatur remorsus conscientiae, qui metaphorice in Scripturis vermis nominatur, secundum illud Isaiae ultimmo 24: Vermis eorum non morietur». Cfr. Opuscula theol., op. I Compendium Theol., c. 175, n. 348; I, Taurini 1954, 82.
    2 [9.] rimorso) morso VR BR1 BR2.
    3 [10.] ROSIGNOLI C. G., Verità eterne, lez. VI, parag. 2; Bologna 1689, 114: «Ma che accade addur favole, se ne abbiamo la testimonianza addotta da B. Umberto, d'un dannato, che comparito in mesta gramaglia tutto affannato confessò che l'inferno del suo inferno era la rimembranza delle colpe commesse: d'aver perduto un regno eterno per brevissimo diletto: d'aver gittato in vanissime cure quel tempo, con un quarticello del quale avrebbe potuto con una buona confessione ottener la salute».
    4 [11.] maggiore) maggior VR.
    5 [30.] Cuore) amore ND1 VR ND3 BR1 BR2.

    SERMONE VIII. - PER LA DOMENICA III. DOPO L'EPIFANIA

    Rimorsi del dannato.

    Filii autem regni eiicientur in tenebras exteriores; ibi erit fletus et stridor dentium. (Matth. 8. 12.)

    Nel corrente evangelio si narra che essendo entrato Gesù Cristo in Cafarnao, venne a ritrovarlo il Centurione, ed a pregarlo che desse la sanità ad un suo servo paralitico che teneva in sua casa. Il Signore gli disse: Ego veniam et curabo eum. No, replicò il Centurione, non son degno io che voi entriate nella mia casa: basta che vogliate sanarlo, e il mio servo sarà sano. Ed il Salvatore vedendo la sua fede, in quel punto lo consolò rendendo la sanità al servo, e rivolto a' suoi discepoli disse loro: Multi ab oriente et occidente venient, et recumbent cum Abraham, Isaac et Iacob in regno coelorum; filii autem regni eiicientur in tenebras exteriores; ibi erit fletus et stridor dentium. E con ciò volle il Signore darci a sapere che molti nati fra gl'infedeli si salveranno coi santi, e molti nati nel grembo della santa chiesa anderanno all'inferno, ove il verme della coscienza coi suoi morsi li farà piangere amaramente per sempre. Vediamo i rimorsi che il cristiano dannato patirà nell'inferno:
    Rimorso I. Del poco che far dovea per salvarsi;
    Rimorso II. Del poco per cui si è dannato;
    Rimorso III. Del gran bene che ha perduto per sua colpa.

    RIMORSO I. Del poco che dovea fare per salvarsi.

    Un giorno apparve un dannato a sant'Uberto, e ciò appunto gli disse che due rimorsi erano i suoi carnefici più crudeli nell'inferno, il pensare al quanto poco gli toccava a fare in questa vita per salvarsi, ed al quanto poco era stato quello per cui si era dannato. Lo stesso scrisse poi s. Tomaso: Principaliter dolebunt quod pro nihilo damnati sunt, et facillime vitam poterant consequi sempiternam. Fermiamoci a considerare il primo rimorso, cioè quanto poche e brevi sono state le soddisfazioni, per le quali ogni dannato si è perduto. Dirà il misero: se io mi astenea da quel diletto, se vincea quel rispetto umano, se fuggiva quell'occasione, quel cattivo compagno, non mi sarei dannato. Se avessi frequentata la congregazione, se mi fossi confessato ogni settimana, se nelle tentazioni mi fossi raccomandato a Dio non sarei ricaduto. Ho proposto tante volte di farlo, ma poi non l'ho fatto: l'ho cominciato a fare, ma poi l'ho lasciato, e così mi son perduto.
    Crescerà il tormento di questo rimorso col ricordarsi il dannato i buoni esempi che avrà avuti d'altri giovani suoi pari, che anche in mezzo al mondo han menata una vita casta e divota. Crescerà poi maggiormente la pena colla memoria di tutti i doni che il Signore gli ha fatti, a fine di cooperarsi ad acquistare la salute eterna, doni di natura, buona sanità, beni di fortuna, buoni natali, buon talento; tutti doni da Dio a lui concessi, non per vivere tra i piaceri di terra o per sopraffare gli altri, ma per impiegarli a bene dell'anima sua e farsi santo: tanti doni poi di grazia, lumi divini, ispirazioni sante, chiamate amorose: di più tanti anni di vita datigli da Dio per rimediare al mal fatto. Ma udirà l'angelo del Signore, che gli fa sapere che per lui è terminato il tempo di salvarsi: Et angelus quem vidi stantem, iuravit per viventem in saecula saeculorum... quia tempus non erit amplius1.Oimè che spade crudeli saranno tutti questi beneficj ricevuti al cuore del povero dannato, quando vedrassi entrato già nella carcere dell'inferno, e vedrà che più non vi è tempo di far riparo alla sua eterna ruina! Dunque, dirà piangendo da disperato insieme cogli altri suoi infelici compagni: Transiit messis, finita est aestas, et nos salvati non sumus2. E passato, dirà, il tempo di raccoglier frutti per la vita eterna, è finita l'estate in cui potevamo salvarci; ma non ci siamo salvati, ed è venuto il verno, ma verno eterno, nel quale abbiamo da vivere infelici e disperati per sempre, finché Dio sarà Dio. Dirà inoltre il misero: oh pazzo che sono stato! Se le pene che ho sofferte per soddisfare i miei capricci, le avessi sofferte per Dio: se le fatiche che ho fatte per dannarmi, le avessi fatte per salvarmi, quanto ora me ne troverei contento! Ed ora che me ne trovo, se non rimorsi e pene che mi tormentano e mi tormenteranno per tutta l'eternità! Dunque, dirà finalmente, io poteva essere per sempre felice, ed ora ho da essere per sempre infelice! Ah che questo pensiero affliggerà il dannato più che il fuoco e tutti gli altri tormenti dell'inferno.

    RIMORSO II. Del poco per cui si è perduto.

    Il re Saule fece ordine, stando nel campo, che niuno sotto pena della vita si cibasse di alcuna cosa. Gionata suo figlio, essendo giovine e trovandosi con fame, si cibò di un poco di mele; onde il padre sapendolo volle che si eseguisse l'ordine dato, e il figlio fosse giustiziato. Il povero figlio, vedendosi già condannato a morte, piangeva dicendo: Gustans gustavi paullulum mellis, et ecce morior1. Ma tutto il popolo essendosi mosso a compassione di Gionata, si interpose col padre e lo liberò dalla morte. Per il povero dannato non vi è né vi sarà mai chi ne abbia compassione, e s'interponga con Dio per liberarlo dalla morte eterna dell'inferno; anzi tutti godranno della sua giusta pena, mentre egli per un breve piacere ha voluto perdere Dio ed il paradiso.Esaù dopo essersi cibato di quella minestra di lenticchie, per la quale avea venduta la sua primogenitura, dice la scrittura, che cruciato dal dolore e dal rimorso della perdita fatta si pose ad urlare: Irrugiit clamore magno2. Oh quali alti ruggiti ed urli darà il dannato pensando che per poche soddisfazioni avvelenate e momentanee ha perduto il regno eterno del paradiso, e ha da vedersi condannato in eterno ad una continua morte!
    Starà il disgraziato nell'inferno continuamente a considerare la causa infelice della sua dannazione. A noi che viviamo su questa terra, la vita passata non sembra che un momento ed un sogno. Oimè al dannato che parranno quei cinquanta o sessanta anni di vita che avrà menati nel mondo, quando si troverà nel fondo dell'eternità, e già saran passati per lui cento e mille milioni d'anni di pena, e vedrà che la sua eternità infelice è da capo e sarà sempre da capo! Ma che, forse quei cinquant'anni saranno stati per lui tutti pieni di piaceri? Forse il peccatore, vivendo in disgrazia di Dio, gode sempre ne' suoi peccati? Quanto durano i gusti del peccato? Durano momenti; e tutt'altro tempo, per chi vive lontano da Dio, è tempo di angustie e di pene. Or che pareranno quei momenti di piacere al povero dannato, quando si troverà già sepolto in quella fossa di fuoco? Quid profuit superbia, aut divitiarum iactantia? Transierunt omnia illa tamquam umbra3. Povero me, dirà egli, io sulla terra son vissuto a mio capriccio, mi ho prese le mie soddisfazioni, ma quelle a che mi han giovato? Elle han durato momenti, e mi han fatta fare una vita inquieta ed amara, ed ora mi tocca di stare ad ardere in questa fornace per sempre disperato ed abbandonato da tutti.

    RIMORSO III. Del gran bene che per sua colpa ha perduto.

    L'infelice principessa Lisabetta regina d'Inghilterra, accecata dalla passione di regnare, disse un giorno: «Mi dia il Signore quarant'anni di regno ed io gli rinunzio il paradiso». Ebbe già la misera questi quarant'anni di regno, ma ora ch'ella sta nell'altro mondo confinata all'inferno, certamente che non si troverà contenta di tal rinunzia fatta. Oh quanto si troverà afflitta, pensando che per quarant'anni di regno terreno, posseduto sempre tra le angustie, traversie e timori, ha perduto il regno eterno del cielo? Plus coelo torquetur, quam gehenna, scrisse s. Pier Grisologo; sono i miseri dannati più tormentati dalla perdita volontariamente da essi fatta del paradiso, che dalle stesse pene dell'inferno.
    La pena somma che fa l'inferno è l'aver perduto Dio, quel sommo bene che fa tutto il paradiso.Scrisse s. Brunone: Addantur tormenta tormentis, et Deo non priventur1. Si contenterebbero i dannati che si accrescessero mille inferni all'inferno che patiscono, e non restassero privi di Dio; ma questo sarà il loro inferno, il vedersi privati di Dio in eterno per loro propria colpa. Dicea s. Teresa che se uno perde per colpa propria anche una bagattella, una moneta, un anello di poco valore, pensando che l'ha perduta per sua trascuraggine molto si affligge e non trova pace: or qual pena sarà quella del dannato, in pensare che ha perduto un bene infinito, qual è Dio, e vedere che l' ha perduto per colpa propria!Vedrà che Iddio lo voleva salvo, ed avea posta in mano di lui l'elezione della vita o della morte eterna, secondo dice l'Ecclesiastico2: Ante hominem vita et mors... quod placuerit ei dabitur illi; sicché vedrà essere stato in mano sua il rendersi, se voleva, eternamente felice; e che egli di sua elezione ha voluto dannarsi. Vedrà nel giorno del giudizio tanti suoi compagni che si sono salvati, ma esso perché non ha voluto finirla, è andato a finirla nell'inferno. Ergo erravimus, dirà rivolto a' suoi compagni infelici dell'inferno, dunque l'abbiamo sbagliata, perdendo per nostra colpa il cielo e Dio; ed al nostro errore non vi è più rimedio. Questa pena gli farà dire: Non est pax ossibus meis a facie peccatorum meorum3. Ella sarà una pena interna intrinsecata nelle ossa, che non gli farà trovar mai riposo in eterno, in vedere che egli stesso è stata la causa della sua ruina; onde non avrà oggetto di maggiore orrore, che se medesimo, provando la pena minacciata dal Signore: Statuam te contra faciem tuam4.Fratello mio, se per lo passato ancora tu sei stato pazzo in voler perdere Dio per un gusto miserabile, non voler seguitare ad esser pazzo; procura di dar presto rimedio, or che puoi rimediare. Trema; chi sa se ora non ti risolvi a mutar vita, Dio ti abbandoni e resti perduto per sempre? Quando il demonio ti tenta ricordati dell'inferno, il pensiero dell'inferno ti libererà dall'inferno: ricordati, dico, dell'inferno, e ricorri a Gesù Cristo, ricorri a Maria ss. per aiuto, ed essi ti libereranno dal peccato che è la porta dell'inferno.

    Note

    1 Apoc. 10. 6.
    2 Ier. 9. 20.
    1 1. Reg. 14. 43.
    2 Gen. 27. 34.
    3 Sap. 5. 8. et 9.
    1 Serm. de iudic. fin.
    2 15. 18.
    3 Ps. 37. 4.
    4 Ps. 9. 11.

    S. Teresa d’Avila Dottore della Chiesa

    CAPITOLO 32

    In cui narra come il Signore l’abbia trasportata in spirito in un luogo dell’inferno che, per i suoi peccati, si era meritata. Di ciò che in esso vide dà solo un’idea, rispetto a quello che fu tale spettacolo. Comincia a raccontare come poté fondare il monastero di San Giuseppe, dove ora si trova.
    1. Passato molto tempo da quando il Signore mi aveva fatto già molte delle grazie suddette e anche altre, assai notevoli, mentre un giorno ero in orazione, mi sembrò di trovarmi ad un tratto tutta sprofondata nell’inferno, senza saper come. Capii che il Signore voleva farmi vedere il luogo che lì i demoni mi avevano preparato e che io avevo meritato per i miei peccati. Tale visione durò un brevissimo spazio di tempo, ma anche se vivessi molti anni, mi sembra che non potrei mai dimenticarla. L’entrata mi pareva come un vicolo assai lungo e stretto, come un forno molto basso, scuro e angusto; il suolo, una melma piena di sudiciume e di un odore pestilenziale in cui si muoveva una quantità di rettili schifosi. Nella parete di fondo vi era una cavità come di un armadietto incassato nel muro, dove mi sentii rinchiudere in un spazio assai ristretto. Ma tutto questo era uno spettacolo persino piacevole in confronto a quello che qui ebbi a soffrire. Ciò che ho detto, comunque, è mal descritto.
    2. Quello che sto per dire, però, mi pare che non si possa neanche tentare di descriverlo né si possa intendere: sentivo nell’anima un fuoco di tale violenza che io non so come poterlo riferire; il corpo era tormentato da così intollerabili dolori che, pur avendone sofferti in questa vita di assai gravi, anzi, a quanto dicono i medici, dei più gravi che in terra si possano soffrire – perché i miei nervi si erano tutti rattrappiti quando rimasi paralizzata, senza dire di molti altri di vario genere che ho avuto, alcuni dei quali, come ho detto, causati dal demonio – tutto è nulla in paragone di quello che ho sofferto lì allora, tanto più al pensiero che sarebbero stati tormenti senza fine e senza tregua. Eppure anche questo non era nulla in confronto al tormento dell’anima: un’oppressione, un’angoscia, una tristezza così profonda, un così accorato e disperato dolore, che non so come esprimerlo. Dire che è come un sentirsi continuamente strappare l’anima è poco, perché morendo, sembra che altri ponga fine alla nostra vita, ma qui è la stessa anima a farsi a pezzi. Non so proprio come descrivere quel fuoco interno e quella disperazione che esasperava così orribili tormenti e così gravi sofferenze. Non vedevo chi me li procurasse, ma mi pareva di sentirmi bruciare e dilacerare; ripeto, però, che il peggior supplizio era dato da quel fuoco e da quella disperazione interiore.
    3. Stavo in un luogo pestilenziale, senza alcuna speranza di conforto, senza la possibilità di sedermi e stendere le membra, chiusa com’ero in quella specie di buco nel muro. Le stesse pareti, orribili a vedersi, mi gravavano addosso dandomi un senso di soffocamento. Non c’era luce, ma tenebre fittissime. Io non capivo come potesse avvenire questo: che, pur non essendoci luce, si vedesse ugualmente ciò che poteva dar pena alla vista. Il Testi di Santi, Papi, Dottori della Chiesa e altri importanti autori.


    S. Alfonso de’Liguori

    Dall’ ”Apparecchio alla morte”

    CONSIDERAZIONE XXVI –
    DELLE PENE DELL'INFERNO

    «Et ibunt hi in supplicium aeternum» (Matth. 25. 46). -
    PUNTO I

    Due mali fa il peccatore, allorché pecca, lascia Dio sommo bene, e si rivolta alle creature: «Duo enim mala fecit populus meus, me dereliquerunt fontem aquae vivae, et foderunt sibi cisternas; cisternas dissipatas, quae continere non valent aquas» (Ier. 2. 13). Perché dunque il peccatore si volta alle creature con disgusto di Dio, giustamente nell'inferno sarà tormentato dalle stesse creature, dal fuoco e da' demonii, e questa è la pena del senso. Ma perché la sua colpa maggiore, dove consiste il peccato, è il voltare le spalle a Dio, perciò la pena principale che sarà nell'inferno, sarà la pena del danno. Ch'é1 la pena d'aver perduto Dio.
    Consideriamo prima la pena del senso. È di fede che vi è l'inferno. In mezzo alla terra vi è questa prigione riservata al castigo de' ribelli di Dio. Che cosa è questo inferno? è il luogo de' tormenti. «In hunc locum tormentorum», così chiamò l'inferno l'Epulone dannato (Luca 16. 28). Luogo di tormenti, dove tutti i sensi e le potenze del dannato hanno da avere il lor proprio tormento; e quanto più alcuno in un senso avrà offeso Dio, tanto più in quel senso avrà da esser tormentato: «Per quae peccat quis, per haec et torquetur» (Sap. 11. 17). «Quantum in deliciis fuit, tantum date illi tormentum» (Apoc. 18. 7).2 Sarà tormentata la vista colle tenebre. «Terram tenebrarum, et opertam mortis caligine» (Iob. 10. 21). Che compassione fa il sentire che un pover'uomo sta chiuso in una fossa oscura per mentre vive, per 40-50 anni di vita! L'inferno è una fossa chiusa da tutte le parti dove non entrerà mai raggio di sole o d'altra luce. «Usque in aeternum non videbit lumen» (Psal. 48. 20). Il fuoco che sulla terra illumina, nell'inferno sarà tutt'oscuro. «Vox Domini intercidentis flammam ignis» (Psal. 28. 7). Spiega S. Basilio Il Signore dividerà dal fuoco la luce, onde tal fuoco farà solamente l'officio di bruciare, ma non d'illuminare; e lo spiega più in breve Alberto Magno:4 «Dividet a calore splendorem». Lo stesso fumo che uscirà da questo fuoco, componerà quella procella di tenebre, di cui parla S. Giacomo, che accecherà gli occhi de' dannati: «Quibus procella tenebrarum servata est in aeternum» (Iac. 2. 13).5 Dice S. Tommaso (3. p. q. 97. n. 4),6 che a' dannati è riservato tanto di luce solamente, quanto basta a più tormentarli. «Quantum sufficit ad videndum illa, quae torquere possunt». Vedranno in quel barlume di luce la bruttezza degli altri reprobi e de' demoni, che prenderanno forme orrende per più spaventarli.
    Sarà tormentato l'odorato. Che pena sarebbe trovarsi chiuso in una stanza con un cadavere fracido? «De cadaveribus eorum ascendit foetor» (Is. 34. 3). Il dannato ha da stare in mezzo a tanti milioni d'altri dannati, vivi alla pena, ma cadaveri per la puzza che mandano. Dice S. Bonaventura7 che se un corpo d'un dannato fosse cacciato dall'inferno, basterebbe a far morire per la puzza tutti gli uomini. E poi dicono alcuni pazzi: Se vado all'inferno, non sono solo. Miseri! quanti più sono nell'inferno, tanto più penano. «Ibi (dice S. Tommaso)8 miserorum societas miseriam non minuet, sed augebit» (S. Thom. Suppl. q. 89. a. 1). Più penano (dico) per la puzza, per le grida e per la strettezza; poiché staran nell'inferno l'un sopra l'altro, come pecore ammucchiate in tempo d'inverno: «Sicut oves in inferno positi sunt» (Psal. 48. 15). Anzi più, staran come uve spremute sotto il torchio dell'ira di Dio. «Et ipse calcat torcular vini furoris irae Dei» (Apoc. 19. 15). Dal che ne avverrà poi la pena dell'immobilità. «Fiant immobiles quasi lapis» (Exod. 15. 16). Sicché il dannato siccome caderà nell'inferno nel giorno finale, così avrà da restare senza cambiare più sito e senza poter più muovere né un piede, né una mano, per mentre Dio sarà Dio.
    Sarà tormentato l'udito cogli urli continui e pianti di quei poveri disperati. I demonii faranno continui strepiti. «Sonitus terroris semper in aure eius» (Iob. 15. 21). Che pena è quando si vuol dormire e si sente un infermo che continuamente si lamenta, un cane che abbaia, o un fanciullo che piange? Miseri dannati, che han da sentire di continuo per tutta l'eternità quei rumori e le grida di quei tormentati! Sarà tormentata la gola colla fame; avrà il dannato una fame canina: «Famem patientur ut canes» (Psal. 58. 15). Ma non avrà mai una briciola di pane. Avrà poi una tale sete, che non gli basterebbe tutta l'acqua del mare; ma non ne avrà neppure una stilla: una stilla ne domandava l'Epulone,9 ma questa non l'ha avuta ancora, e non l'avrà mai, mai.

    Affetti e preghiere.

    Ah mio Signore, ecco a' piedi vostri chi ha fatto tanto poco conto della vostra grazia e de' vostri castighi. Povero me, se Voi, Gesù mio, non aveste avuto di me pietà, da quanti anni starei in quella fornace puzzolente, dove già vi stanno ad ardere tanti pari miei! Ah mio Redentore, come pensando a ciò non ardo del vostro amore? come potrò per l'avvenire pensare ad offendervi di nuovo! Ah non sia mai, Gesu-Cristo mio, fatemi prima mille volte morire. Giacché avete cominciato, compite l'opera. Voi mi avete cacciato dal lezzo di tanti miei peccati, e con tanto amore mi avete chiamato ad amarvi; deh fate ora che questo tempo che mi date, io lo spenda tutto per Voi. Quanto desidererebbero i dannati un giorno, un'ora del tempo che a me concedete; ed io che farò? seguirò a spenderlo in cose di vostro disgusto? No, Gesù mio, non lo permettete, per li meriti di quel sangue, che sinora m'ha liberato dall'inferno. V'amo, o sommo bene, e perché v'amo mi pento di avervi offeso; non voglio più offendervi, ma sempre amarvi.
    Regina e Madre mia Maria, pregate Gesù per me, ed ottenetemi il dono della perseveranza e del suo santo amore.
    1 [13.] danno. Ch'è) danno, ch'è BR2.
    2 [24.] Apoc., 18, 7: «Quantum glorificavit se et in deliciis fuit, tantum date illi tormentum et luctum».
    3 [1.] METAPHRASTES, Sermones 24 selecti, sermo 14 de futuro iudicio, n. 2; PG 32, 1299: «Ut cum duae sint in igne facultates, quarum una comburit, altera illustrat... adeo ut supplicii quidem ignis obscurus sit... cuius quidem lumen, iustorum oblectamento: urendi vero molestia, puniendorum tribuetur ultioni». Cfr. S. BASILIUS M., Hom. in Ps. 28, n. 6: PG 29, 298: «Quamquam… ignis consiliis humanis insecabilis ac individuus videtur esse, nihilominus tamen Dei iussu interciditur ac dividitur…, adeo ut supplicii quidem ignis obscurus sit; lux vero requietis, vi careat comburendi». IDEM, Hom. in Ps. 33, n. 8; PG 29, 371: «Postea animo tibi fingas barathrum profundum, tenebras inextricabiles, ignem splendoris expertem, vim quidem urendi in tenebris habentem, sed luce destitutum».
    4 [3.] S. ALBERTUS M., Summa theologica, p. II, q. 12, membrum 2; Opera, XVIII, Lugduni 1651, 85, col. 2: «Unde Basilius etiam dicit super illud Ps. 18: Vox Domini intercidentis flammam ignis, quod in die iudicii lumen quod est in igne, ascendet ad locum beatorum: et ardor fuliginosus descendet ad locum damnatorum: et sic vox Domini sive praeceptum intercidit flammam ignis».
    5 [7.] Iud., 13, non Iac., 2, 13: «Iudicium enim sine misericordia illi, qui non fecit misericordiam».
    6 [7.] S. THOMAS, Suppl. III partis Summae theol., q. 97, a. 4, c.: «Unde simpliciter loquendo locus est tenebrosus; se tamen ex divina dispositione est ibi aliquid luminis, quantum sufficit ad videndum illa quae animam torquere possunt».
    7 [16.] Il testo è comune tra gli autori spirituali, che mai indicano il luogo preciso di s. Bonaventura: BESSEUS P., Conciones... super quatuor novissima. De inferno, concio 4; Venetiis 1617, 472: «Unde Isaias (XXXIV, 3): De cadaveribus eorum ascendet foetor; at tam enormis et pestilens, ut Bonaventura dicere ausus sit mundum universum confestim lue inficiendum, si vel unius damnati corpus in eum inferretur». DREXELIUS, Infermus damnatorum carcer et rogus, c. V, par. 2, Lugduni 1658, 156, col. 2: «Divus Bonaventura ausus est dicere: Si vel unius damnati cadaver in orbe hoc nostro sit, orbem totum ab eo inficiendum». ROSIGNOLI C. G., Verità eterne, lez. VI, parag. I: Bologna 1689, 105-106: «Più ebbe a dire S.
    Bonaventura che se il cadavere d'un dannato fosse tratto dall'inferno, e riposto sopra la superficie della terra ad esalare il suo lezzo, basterebbe ad appestare tutta la terra». Vedi anche SPANNER, op. cit., I, Venetiis 1709, 431.
    8 [3.] S. THOMAS, Suppl. III partis Summae theol., q. 89, a. 4, c.: «Nec ob hoc minuitur aliquid de daemonum poena, quia in hoc etiam quod alios torquent, ipsi torquebuntur: ibi enim miserorum societas miseriam non minuet, sed augebit».
    9 [25.] Luc., 16, 24: «Mitte Lazarum, ut intingat extremum digiti sui in aquam, ut refrigeret linguam meam, quia crucior in hac flamma».

    PUNTO II.

    La pena poi che più tormenta il senso del dannato, è il fuoco del l'inferno, che tormenta il tatto. «Vindicta carnis impii ignis, et vermis» (Eccli. 7. 19). Che perciò il Signore nel giudizio ne fa special menzione: «Discedite a me, maledicti, in ignem aeternum» (Matth. 41).1 Anche in questa terra la pena del fuoco è la maggior2 di tutte; ma vi è tanta differenza dal fuoco nostro a quello dell'inferno, che dice S. Agostino3 che 'l nostro sembra dipinto. «In eius comparatione noster hic ignis depictus est». E S. Vincenzo Ferreri dice che a confronto il nostro4 è freddo. La ragione è,5 perché il fuoco nostro è creato per nostro utile, ma il fuoco dell'inferno è creato da Dio a posta per tormentare. «Longe alius (dice Tertulliano)6 est ignis, qui usui humano, alius qui Dei iustitiae deservit». Lo sdegno di Dio accende questo fuoco vendicatore. «Ignis succensus est in furore meo» (Ier. 15. 14). Quindi da Isaia il fuoco dell'inferno è chiamato spirito d'ardore: «Si abluerit Dominus sordes... in spiritu ardoris» (Is. 4).7 Il dannato sarà mandato non al fuoco, ma nel fuoco: «Discedite a me, maledicti, in ignem aeternum». Sicché il misero sarà circondato dal fuoco, come un legno dentro una fornace. Si troverà il dannato con un abisso di fuoco da sotto,8 un abisso di sopra, e un abisso d'intorno. Se tocca, se vede, se respira; non tocca, non vede, né respira altro che fuoco. Starà nel fuoco come il pesce nell'acqua. Ma questo fuoco non solamente starà d'intorno al dannato, ma entrerà anche dentro le sue viscere a tormentarlo. Il suo corpo diventerà tutto di fuoco, sicché bruceranno le viscere dentro del ventre, il cuore dentro del petto, le cervella dentro il capo, il sangue dentro le vene, anche le midolla dentro l'ossa: ogni dannato diventerà in se stesso una fornace di fuoco. «Pone eos ut clibanum ignis» (Ps. 20. 10). Taluni non possono soffrire di camminare per una via battuta dal sole, di stare in una stanza chiusa con una braciera,9 non soffrire una scintilla, che svola da una candela; e poi non temono quel fuoco, che divora, come dice Isaia:
    «Quis poterit habitare de vobis cum igne devorante?» (Is. 33. 14). Siccome una fiera divora un capretto, così il fuoco dell'inferno divora il dannato; lo divora, ma senza farlo mai morire. Siegui pazzo, dice S. Pier Damiani10 (parlando al disonesto), siegui11 a contentare la tua carne, che verrà un giorno in cui le tue disonestà diventeranno tutte pece nelle tue viscere, che farà più grande e più tormentosa la fiamma che ti brucerà nell'inferno: «Venit dies, imo nox, quando libido tua vertetur in picem, qua se nutriat perpetuus ignis in tuis visceribus» (S. P. Dam. Epist. 6). Aggiunge S. Girolamo (Epist. ad Pam.)12 che questo fuoco porterà seco tutti i tormenti e dolori che si patiscono in questa terra; dolori di fianco e di testa, di viscere, di nervi: «In uno igne omnia supplicia sentiunt in inferno peccatores». In questo fuoco vi sarà anche la pena del freddo. «Ad nimium calorem transeat ab aquis nivium» (Iob. 24. 19). Ma sempre bisogna intendere che tutte le pene di questa terra sono un'ombra, come dice il Grisostomo,13 a paragone delle pene dell'inferno: «Pone ignem, pone ferrum, quid, nisi umbra ad illa tormenta?»Le potenze anche avranno il lor proprio tormento. Il dannato sarà tormentato nella memoria, col ricordarsi del tempo che ha avuto in questa vita per salvarsi, e l'ha speso per dannarsi; e delle grazie che ha ricevute da Dio, e non se ne ha voluto servire. Nell'intelletto, col pensare al gran bene che ha perduto, paradiso e Dio; e che a questa perdita non vi è più rimedio. Nella volontà, in vedere che gli sarà negata sempre ogni cosa che domanda. «Desiderium peccatorum peribit» (Ps. 111. 10). Il misero non avrà mai niente di quel che desidera, ed avrà sempre tutto quello che abborrisce, che saranno le sue pene eterne. Vorrebbe uscir da' tormenti, e trovar pace, ma sarà sempre tormentato, e non avrà mai pace.
    Affetti e preghiere.

    Ah Gesù mio, il vostro sangue e la vostra morte sono la speranza mia. Voi siete morto, per liberare me dalla morte eterna. Ah Signore, e chi più ha partecipato de' meriti della vostra passione, che io miserabile, il quale tante volte mi ho meritato l'inferno? Deh non mi fate vivere più ingrato a tante grazie che mi avete fatte. Voi m'avete liberato dal fuoco dell'inferno, perché non volete ch'io arda in quel fuoco di tormento, ma arda del dolce fuoco dell'amor vostro. Aiutatemi dunque, acciocché io possa compiacere il vostro desiderio. Se ora stessi nell'inferno, non vi potrei più amare; ma giacché posso amarvi, io vi voglio amare. V'amo bontà infinita, v'amo mio Redentore, che tanto mi avete amato. Come ho potuto vivere tanto tempo scordato di Voi! Vi ringrazio che Voi non vi siete scordato di me. Se di me vi foste scordato, o starei al presente nell'inferno, o non avrei dolore de' miei peccati. Questo dolore che mi sento nel cuore di avervi offeso, questo desiderio che provo di amarvi assai, son doni della vostra grazia, che ancora mi assiste. Ve ne ringrazio, Gesù mio. Spero per l'avvenire di dare a Voi la vita che mi resta. Rinunzio a tutto. Voglio solo pensare a servirvi e darvi gusto. Ricordatemi sempre l'inferno che mi ho meritato, e le grazie che mi avete fatte; e non permettete ch'io abbia un'altra volta a voltarvi le spalle, ed a condannarmi da me stesso a questa fossa di tormenti.
    O Madre di Dio, pregate per me peccatore. La vostra intercessione m'ha liberato dall'inferno, con questa ancora liberatemi, o Madre mia, dal peccato, che solo può condannarmi di nuovo all'inferno.
    1 [21.] Matth., 25, 41.
    2 [22.] maggior) maggiore VR BR1 BR2.
    3 [24.] V. BELLOVACENSIS, Spec. morale, l. II, p. 3, dist. 2, Venetiis 1591, f. 146, col. 4: «Augustinus de Civ. Dei... Item ignis iste ad comparationem illius non est nisi quasi umbra vel pictura». DREXELIUS, op. cit., c. VI, parag. I; Lugduni 1658, 159, col. 2: «Noster ignis Augustino pictus videtur, sed ille alter, verus». GISOLFO P., op. cit., p. I, disc. 17; II, Roma 1694, 506: «E 'l fuoco infernale ha tanta maggior attività, ha tanto più intenso ardore, che afferma S. Agostino, esservi quella differenza tra l'uno e l'altro fuoco, quale appunto è co 'l fuoco dipinto in un quadro, e tra il fuoco vero materiale: In cuius comparatione noster hic ignis depictus est: S. August., tom. 10, serm. 181 de tempore, fol. 691». Cfr. S. AUGUST., Enarratio in Ps. XLIX, n. 7; PL 36, 569: «Non erit iste ignis sicut focus tuus, quo tamen si manum mittere cogaris, facies quidquid voluerit qui hoc minatur». Cfr. CC 38, 580-81.
    4 [2.] il nostro) del nostro ND1 VR ND3 BR1 NS7: lo sbaglio è evidente pel controsenso che ne risulta; seguiamo la lezione più corretta «il» che si trova in BR2.
    5 [2.] Pare che s. Alfonso riferisca a senso il pensiero del Ferreri che sovente parla del fuoco infernale «intolerabilis» ed «inextinguibilis»: vedi VINCENTIUS FERRERI, Sermones hiemales, Venetiis 1573, 377; Sermones aestivales, Venetiis 1573, 195, 230, 472, 478; Sermones de Sanctis, Coloniae Agrippinae 1675, 560-61, ecc. Nei Sermoni compendiati, serm. X, n. 5; Napoli 1771, 40 s. Alfonso attribuisce la stessa idea a s. Anselmo.
    6 [4.] GISOLFO P., op. cit., disc. 17, 501: «Altro è il fuoco, che serve ad uso, e alle comodità degli uomini, dice Tertulliano, e altro è il fuoco, che serve alla divina giustizia: Longe alius est ignis, qui usui humano, alius qui Dei iustitiae deservit». Cfr. TERTULLIANUS, Apologeticus, c. 48; PL I, 527-528: «Noverunt philosophi diversitatem arcani et publici ignis. Ita longe alius est qui usui humano, alius qui iudicio Dei apparet… Et hoc erit testimonium ignis aeterni, hoc exemplum iusti iudicii poenam nutrientis. Montes uruntur et durant: quid nocentes et Dei hostes?» Cfr. CC I, 168.
    7 [8.] Is., 4, 4: «Si abluerit Dominus sordes filiarum Sion, et sanguinem Ierusalem laverit de medio eius, in spiritu iudicii et spiritu ardoris.»
    8 [12.] da sotto) di sotto VR BR1 BR2.
    9 [22.] un braciere.
    10 [4.] S. PETRUS DAMIANUS, De caelibatu sacerdotum, c. III; PL 145, 385: «Veniet profecto dies, imo nox, quando libido ista tua vertatur in picem, qua se perpetuus ignis in tuis visceribus inextinguibiliter nutriat, et medullas tuas simul et ossa indefectiva conflagratione depascat».
    11 [4.] Segui.
    12 [9.] MANSI, Bibliotheca mor. praedic., tr. 34, disc. 7; II, Venetiis 1703, 614 col. 2: «Siquidem in uno igne omnia supplicia sentiunt in inferno peccatores, ut inquit Hieronymus (Ep. I ad Pammach.)». Tra altri anche SEGNERI P., Cristiano Istruito, p. II, ragion. XVIII; Opere, III, Venezia 1742, 165, col. I, attribuisce con la stessa citazione a s. Girolamo il testo, che però manca nelle lettere genuine.
    13 [16.] GISOLFO P., op. cit., disc. XV; I, 437: «Onde S. Giovan Crisostomo: Pone, si libet, ignem, ferrum et bestias, et si quid his difficilius: attamen nec umbra sunt haec ad inferni tormenta». Cfr. CHRYS., In epist. ad Rom., hom. 31, n. 5; PG 60, 674: «Quid enim mihi grave dicere possis? Paupertatem, morbum, captivitatem, mutilationem corporis. Verum illa omnia risu sunt digna si cum supplicio illo [inferni] comparentur».

    PUNTO III

    Ma tutte queste pene son niente a rispetto della pena del danno. Non fanno l'inferno le tenebre, la puzza, le grida e 'l fuoco; la pena che fa l'inferno è la pena di aver perduto Dio. Dice S. Brunone:1 «Addantur tormenta tormentis, ac Deo non priventur» (Serm. de Iud. fin.). E S. Gio. Grisostomo:2 «Si mille dixeris gehennas, nihil par dices illius doloris» (Hom. 49. ad Pop.). Ed aggiunge S. Agostino3 che se i dannati godessero la vista di Dio, «nullam poenam sentirent, et infernus ipse verteretur in paradisum» (S. Aug. to. 9. de Tripl. hab.). Per intendere qualche cosa di questa pena, si consideri che se taluno perde (per esempio) una gemma, che valea 100 scudi, sente gran pena, ma se valea 200 sente doppia pena: se 400 più pena. In somma quanto cresce il valore della cosa perduta, tanto cresce la pena. Il dannato qual bene ha perduto? un bene infinito, ch'è Dio; onde dice S. Tommaso4 che sente una pena in certo modo infinita: «Poena damnati est infinita, quia est amissio boni infiniti» (D. Th. 1. 2. q. 87. a. 4).
    Questa pena ora solo si teme da' santi. «Haec amantibus, non contemnentibus poena est», dice S. Agostino.5 S. Ignazio di Loiola dicea:6 Signore, ogni pena sopporto, ma questa no, di star privo di Voi. Ma questa pena niente si apprende da' peccatori, che si contentano di vivere i mesi e gli anni senza Dio, perché i miseri vivono fra le tenebre. In morte non però han da conoscere il gran bene che perdono. L'anima in uscire da questa vita, come dice S. Antonino,7 subito intende ch'ella è creata per Dio: «Separata autem anima a corpore intelligit Deum summum bonum et ad illud esse creatam». Onde subito si slancia per andare ad abbracciarsi col suo sommo bene; ma stando in peccato, sarà da Dio discacciata. Se un cane vede la lepre, ed uno lo tiene con una catena, che forza fa il cane per romper la catena ed andare a pigliar la preda? L'anima in separarsi dal corpo, naturalmente è tirata a Dio, ma il peccato la divide da Dio, e la manda lontana all'inferno. «Iniquitates vestrae diviserunt inter vos, et Deum vestrum» (Is. 59. 2). Tutto l'inferno dunque consiste in quella prima parola della condanna: «Discedite a me, maledicti». Andate, dirà Gesu-Cristo, non voglio che vediate più la mia faccia. «Si mille quis ponat gehennas, nihil tale dicturus est, quale est exosum esse Christo» (Chrysost. hom. 24. in Matth.).8 Allorché Davide9 condannò Assalonne a non comparirgli più davanti, fu tale questa pena ad Assalonne che rispose: Dite a mio padre, che o mi permetta di vedere la sua faccia o mi dia la morte (2. Reg. 14. 24).10 Filippo II11 ad un grande che vide stare irriverente in chiesa, gli disse: Non mi comparite più davanti. Fu tanta la pena di quel grande, che giunto alla casa se ne morì di dolore. Che sarà, quando Dio in morte intimerà al reprobo: Va via che io non voglio vederti più. «Abscondam faciem ab eo, et invenient eum omnia mala» (Deut. 31. 17). Voi (dirà Gesù a' dannati nel giorno finale) non siete più miei, io non sono più vostro. «Voca nomen eius, non populus meus, quia vos non populus meus, et ego non ero vester» (Osea 1. 9). Che pena è ad un figlio, a cui gli muore il padre, o ad una moglie quando le muore lo sposo, il dire: Padre mio, sposo mio, non t'ho da vedere più. Ah se ora udissimo un'anima dannata che piange, e le chiedessimo: Anima, perché piangi tanto? Questo solo ella risponderebbe: Piango, perché ho perduto Dio, e non l'ho da vedere più. Almeno potesse la misera nell'inferno amare il suo Dio, e rassegnarsi alla sua volontà. Ma no; se potesse ciò fare, l'inferno non sarebbe inferno; l'infelice non può rassegnarsi alla volontà di Dio, perché è fatta nemica della divina volontà. Né può amare più il suo Dio, ma l'odia e l'odierà per sempre; e questo sarà il suo inferno, il conoscere che Dio è un bene sommo e il vedersi poi costretto ad odiarlo, nello stesso tempo che lo conosce degno d'infinito amore. «Ego sum ille nequam privatus amore Dei», così rispose quel demonio, interrogato chi fosse da S. Caterina da Genova.12 Il dannato odierà e maledirà Dio, e maledicendo Dio, maledirà anche i beneficii che gli ha fatti, la creazione, la redenzione, i sagramenti, specialmente del battesimo e della penitenza, e sopra tutto il SS. Sagramento dell'altare. Odierà tutti gli angeli e santi ma specialmente l'angelo suo custode e i santi suoi avvocati, e più di tutti la divina Madre; ma principalmente maledirà le tre divine Persone, e fra queste singolarmente il Figlio di Dio, che un giorno è morto per la di lei salute, maledicendo le sue piaghe, il suo sangue, le sue pene e la sua morte.

    Affetti e preghiere.

    Ah mio Dio, Voi dunque siete il mio sommo bene, bene infinito, ed io volontariamente tante volte v'ho perduto. Sapeva io già che col mio peccato vi da un gran disgusto, e che perdeva la vostra grazia, e l'ho fatto? Ah che se non vi vedessi trafitto in croce, o Figlio di Dio, morire per me, non avrei più animo di cercarvi13 e di sperare da Voi perdono. Eterno Padre, non guardate me, guardate questo amato Figlio, che vi cerca14 per me pietà; esauditelo, e perdonatemi. A quest'ora dovrei star nell'inferno da tanti anni senza speranza di potervi più amare, e di ricuperare la vostra grazia perduta. Dio mio, mi pento sopra ogni male di quest'ingiuria che v'ho fatta, di rinunziare alla vostr'amicizia e di disprezzare il vostro amore per li gusti miserabili di questa terra. Oh fossi morto prima mille volte! Come ho potuto essere così cieco e così pazzo! Vi ringrazio, Signor mio, che mi date tempo di poter rimediare al mal fatto. Giacché per misericordia vostra sto fuori dell'inferno, e vi posso amare, Dio mio, vi voglio amare. Non voglio più differire di convertirmi tutto a Voi. V'amo bontà infinita, v'amo15 mia vita, mio tesoro, mio amore, mio tutto. Ricordatemi sempre, o Signore, l'amore che mi avete portato, e l'inferno dove dovrei stare; acciocché questo pensiero mi accenda sempre a farvi atti d'amore e a dirvi sempre: io v'amo, io v'amo, io v'amo.
    O Maria Regina, speranza e Madre mia, se stessi nell'inferno, neppure potrei amar più Voi. V'amo Madre mia, e a Voi confido di non lasciare più d'amar Voi e 'l mio Dio. Aiutatemi, pregate Gesù per me.
    1 [31.] MANSI, op. cit., tr. 34, disc. 22; II, 646, col. 2: «Sanctus tamen Bruno in sermone de Iudicio finali, longe clarioribus verbis hanc ipsam confirmat veritatem, dicens: Addantur
    tormenta tormentis, et poenae poenis; saeviant saevius ministri; at Deo non privemur».
    2 [2.] DREXELIUS, Infernus damnatorum, c. II, parag. 2; Opera, I, Lugduni 1658, 148, col. 2: «Hic attonitus Chrysostomus: Nam si mille, ait, dixeris gehennas, nihil illius par dices doloris, quem sustinet anima. Intolerabilis gehenna est, confiteor, et multum intolerabilis, tamen intolerabilior haec regni amissio». Cfr. CHRYSOST., In ep. ad Philipp., c. IV, hom. 14, n. 4; PG 62, 280: «Si sexcentas gehennas attuleris, nihil par afferes dolori illi, quo tunc angitur anima, cum universus quatitur orbis... Intolerabilis res est gehenna, fateor, et valde quidem intolerabilis; attamen intolerabilius mihi videtur de regno cecidisse».
    3 [3.] Ps. AUGUSTINUS, De triplici habitaculo, l. unus, c. 4; PL 40, 995: «Cuius faciem si omnes carcere inferni inclusi viderent, nullam poenam, nullum dolorem nullamque tristitiam sentirent; cuius praesentia, si in inferno cum sanctis habitatoribus appareret, continuo infernus in amoenum converteretur paradisum». È in Appendice delle opere di s. Agostino, ma non è autentico (cfr. Glorieux, 28).
    4 [10.] S. THOMAS, Summa theol., I-II, q. 87, a. 4, c.: «Ex parte igitur aversionis, respondet peccato poena damni, quae etiam est infinita: est einm amissio infiniti boni, scilicet Dei».
    5 [14.] S. AUGUST., Enarrat. in Ps. XLIX, n. 7; PL 36, 569: «Si non veniret ignis die iudicii, et sola peccatoribus immineret separatio a facie Dei, in qualibet essent affluentia deliciarum, non videntes a quo creati sunt, et separati ab illa dulcedine ineffabili vultus eius, in qualibet aeternitate et impunitate peccati, plangere se deberent. Sed quid loquor, aut quibus loquor? Haec amantibus poena est, non contemnentibus». Cfr. CC 38, 580.
    6 [14.] ORLANDINI, Historia Societatis Iesu, l. X, nn. 55-62; Romae 1615, 318.
    7 [2.] S. ANTONINUS, Summa theol., p. I, tit. V, c. 3, parag. 3; Veronae 1740, col. 402: «Quum anima separatur a corpore, sibi subito infunduntur species omnium rerum naturalium… Et sic cognoscens quod Deus est summum bonum et summe utilis animae, videns se eo privatum sua miseria, quum capax fuerit adquirendi, summe dolet».
    8 [15.] CHRYSOST., In Matthaeum, hom. 23 (al. 24), n. 8; PG 57, 317: «Intolerabilis quippe est illa gehenna illaque poena. Attamen licet mille quis gehennas proposuerit, nihil tale dicturus est, quale est ex beata illa excidere gloria, Christo exosum esse, audire ab illo: Non novi vos».
    9 [15.] Davide) Davidde VR BR1 BR2.
    10 [18.] II Reg., 14, 32.
    11 [18.] SINISCALCHI L., La scienza della salute, med. V, punto 2; Padova 1773, 136: «Due cavalieri in Ispagna tosto che udirono dal re Filippo II in pena della poca compostezza, con cui stavano in chiesa: Non mi comparite più innanzi, tornati a casa ne morirono per la doglia».
    12 [14.] PEPE F., Discorsi in lode di Maria SS. per tutti i sabbati dell'anno, II, Napoli 1756, 228: «Dimandato un demonio dalla B. Catarina da Genova chi egli si fusse. Dopo un profondo sospiro, rispose: Sono un infelice spirito senza amor di Dio». Alquanto diversamente racconta il fatto ROSIGNOLI C. G., Verità eterne, Bologna 1689, 325: «Imperocché, scongiurandosi un demonio dell'inferno nel corpo di un'energumena, e costretto dal sacerdote cogli esorcismi, a manifestare il suo nome disse con voce lacrimevole: Ego sum ille nequam privatus amore Dei. Io son lo scelerato privo dell'amor di Dio. Alle quali parole la B. Caterina di Genova ivi presente tanto s'inorridì, che come percossa da un fulmine esclamò: Oh orribile miseria, esser privo dell'amor di Dio! Oh inferno degl'inferni, esser privo dell'amor di Dio». Cfr. MARABOTTO, Vita ammirabile e dottrina celeste di S. Caterina Fiesca Adorna, c. XIV, n. 12; Padova 1743, 59-60.
    13 [3.] cercarvi) chiedervi VR BR1 BR2.
    14 [5.] cerca) chiede VR BR1 BR2.
    15 [15.] v'amo) vi amo BR2.

    CONSIDERAZIONE XXVII –
    DELL'ETERNITÀ DELL'INFERNO

    «Et ibunt hi in supplicium aeternum» (Matth. 25. 46).

    PUNTO I

    Se l'inferno non fosse eterno, non sarebbe inferno. Quella pena che non dura molto, non è gran pena. A quell'infermo si taglia una postema, a quell'altro si foca una cancrena; il dolore è grande, ma perché finisce tra poco, non è gran tormento. Ma qual pena sarebbe, se quel taglio o quell'operazione di fuoco continuasse per una settimana, per un mese intero?1 Quando la pena è assai lunga, ancorché sia leggiera, come un dolore d'occhi, un dolore di mole, si rende insopportabile. Ma che dico dolore? anche una commedia, una musica che durasse troppo, o fosse per tutto un giorno, non potrebbe soffrirsi per lo tedio. E se durasse un mese? un anno? Che sarà l'inferno? dove non si ascolta sempre la stessa commedia, o la stessa musica: non vi è solo un dolore d'occhi, o di mole: non si sente solamente il tormento d'un taglio, o di un ferro rovente, ma vi sono tutti i tormenti, tutti i dolori; e per quanto tempo? per tutta l'eternità: «Cruciabuntur die ac nocte in saecula saeculorum» (Apoc. 20. 10).
    Quest'eternità è di fede; non è già qualche opinione, ma è verità attestataci da Dio in tante Scritture: «Discedite a me, maledicti, in ignem aeternum» (Matth. 25. 41). «Et hi ibunt in supplicium aeternum» (Ibid. num. 46). «Poenas dabunt in interitu aeternas» (2. Thess. 1. 9). «Omnis igne salietur» (Marc. 9. 48). Siccome il sale conserva le cose, così il fuoco dell'inferno nello stesso tempo che tormenta i dannati, fa l'officio di sale conservando loro la vita. «Ignis ibi consumit (dice S. Bernardo),2 ut semper reservet» (Medit. cap. 3).
    Or qual pazzia sarebbe quella di taluno, che per pigliarsi una giornata di spasso, si volesse condannare a star chiuso in una fossa per venti, o trenta anni? Se l'inferno durasse cent'anni; che dico cento? durasse non più che due o tre anni, pure sarebbe una gran pazzia, per un momento di vil piacere, condannarsi a due o tre anni di fuoco. Ma non si tratta di trenta, di cento, né di mille, né di cento mila anni; si tratta d'eternità, si tratta di patire per sempre gli stessi tormenti, che non avranno mai da finire, né da alleggerirsi un punto. Hanno avuto ragione dunque i santi, mentre stavano in vita, ed anche in pericolo di dannarsi, di piangere e tremare. Il B. Isaia3 anche mentre stava nel deserto tra digiuni e penitenze, piangeva dicendo: Ah misero me, che ancora non sono libero dal dannarmi! «Heu me miserum, quia nondum a gehennae igne sum liber!»




    Affetti e preghiere.

    Ah mio Dio, se mi aveste mandato all'inferno, come già più volte l'ho meritato, e poi me ne aveste cacciato per vostra misericordia, quanto ve ne sarei restato obbligato? ed indi qual vita santa avrei cominciato a fare? Ed ora che con maggior misericordia Voi mi avete preservato dal cadervi, che farò Tornerò ad offendervi e provocarvi a sdegno, affinché proprio mi mandiate ad ardere in quella carcere de' vostri ribelli, dove tanti già ardono per meno peccati de' miei? Ah mio Redentore, così ho fatto per lo passato; in vece di servirmi del tempo che mi davate per piangere i miei peccati, l'ho speso a più sdegnarvi. Ringrazio la vostra bontà infinita, che tanto mi ha sopportato. S'ella non era infinita, e come mai avrebbe potuto soffrirmi? Vi ringrazio dunque di avermi con tanta pazienza aspettato sinora; e vi ringrazio sommamente della luce che ora mi date, colla quale mi fate conoscere la mia pazzia e il torto che vi ho fatto in oltraggiarvi con tanti miei peccati. Gesù mio, li detesto e me ne pento con tutto il cuore; perdonatemi per la vostra passione; ed assistetemi colla vostra grazia, acciocché più non vi offenda. Giustamente or debbo temere che ad un altro peccato mortale Voi mi abbandoniate. Ah Signor mio, vi prego, mettetemi avanti gli occhi questo giusto timore, allorché il demonio mi tenterà di nuovo ad offendervi. Dio mio, io vi amo, né vi voglio più perdere; aiutatemi colla vostra grazia.
    Aiutatemi, o Vergine SS., fate ch'io sempre ricorra a Voi nelle mie tentazioni, acciocché non perda più Dio. Maria, Maria4 Voi siete la speranza mia.
    1 [10.] intero) intiero ND1 VR BR1 BR2.
    2 [27.] PS. BERNARDUS, Medit. piissimae de cognitione humanae conditionis, c. III, n. 10; PL 184, 491: «Sic enim ignis consumit, ut semper reservet; sic tormenta aguntur, ut semper renoventur» (cfr. Glorieux, 71).
    3 [8.] SPANNER A., Polyanthea sacra, I, Venetiis 1709: «Me miserum! me miserum! quia nondum a gehennae igne sum liber: nondum mihi constat, quoniam hinc sim profecturus». Cfr. S. ISAIAS Ab., Orationes, or. XIV, n. I; PG 40, 1139: «Me miserum, me miserum, quia nondum a gehennae igne sum liber. Qui ad illam homines detrahunt, adhuc in me operantur: et omnia opera eius moventur in corde meo». Alcuni scrivono anche: Esaias.
    4 [5.] Maria, om. una volta in BR1 BR2.

    PUNTO II

    Chi entra una volta nell'inferno, di là non uscirà più in eterno. Questo pensiero facea tremare Davide,1 dicendo: «Neque absorbeat me profundum, neque urgeat super me puteus os suum» (Ps. 68. 16). Caduto ch'è il dannato in quel pozzo di tormenti, si chiude la bocca e non si apre più. Nell'inferno v'è porta per entrare, ma non v'è porta per uscire: «Descensus erit (dice Eusebio Emisseno),2 ascensus non erit». E così spiega le parole del Salmista: «Neque urgeat os suum; quia cum susceperit eos, claudetur sursum, et aperietur deorsum». Fintanto che il peccatore vive, sempre può avere speranza di rimedio, ma colto ch'egli sarà dalla morte in peccato, sarà finita per lui ogni speranza. «Mortuo homine impio, nulla erit ultra spes» (Prov. 11. 7). Almeno potessero i dannati lusingarsi con qualche falsa speranza, e così trovare qualche sollievo alla loro disperazione. Quel povero impiagato, confinato in un letto, è stato già disperato da' medici di poter guarire; ma pure si lusinga, e si consola con dire: Chi sa se appresso si troverà qualche medico e qualche rimedio che mi sani. Quel misero condannato alla galea in3 vita anche si consola, dicendo: Chi sa che può succedere, e mi libero da queste catene. Almeno (dico) potesse il dannato dire similmente così, chi sa se un giorno uscirò da questa prigione; e così potesse ingannarsi almeno con questa falsa speranza. No, nell'inferno non v'è alcuna speranza né vera né falsa, non vi è «chi sa». «Statuam contra faciem» (Ps. 49. 21). Il misero si vedrà sempre innanzi agli occhi scritta la sua condanna, di dover sempre stare a piangere in quella fossa di pene: «Alii in vitam aeternam, et alii in opprobrium, ut videant semper» (Dan. 12. 2). Onde il dannato non solo patisce quel che patisce in ogni momento, ma soffre in ogni momento la pena dell'eternità, dicendo: Quel che ora patisco, io l'ho da patire per sempre. «Pondus aeternitatis sustinet», dice Tertulliano.4
    Preghiamo dunque il Signore, come pregava S. Agostino «Hic ure, hic seca, hic non parcas, ut in aeternum parcas». I castighi di questa vita passano. «Sagittae tuae transeunt, vox tonitrui tui in rota» (Ps. 76. 18). Ma i castighi dell'altra vita non passano mai. Di questi temiamo; temiamo di quel tuono («vox tonitrui tui in rota»), s'intende di quel tuono della condanna eterna, che uscirà dalla bocca del giudice nel giudizio contro i reprobi: «Discedite a me, maledicti, in ignem aeternum».6 E dice, «in rota»; la ruota è figura dell'eternità, a cui non si trova termine. «Eduxi gladium meum de vagina sua irrevocabilem» (Ez. 21. 5). Sarà grande il castigo dell'inferno, ma ciò che più dee atterrirci, è che sarà castigo irrevocabile.
    Ma come, dirà un miscredente, che giustizia è questa? castigare un peccato che dura un momento con una pena eterna? Ma come (io rispondo) può aver l'ardire un peccatore per un gusto d'un momento offendere un Dio d'infinita maestà? Anche nel giudizio umano (dice S. Tommaso, I. 2. q. 87. a. 3)7 la pena non si misura secondo la durazione del tempo, ma secondo la qualità del delitto: «Non quia homicidium in momento committitur, momentanea poena punitur». Ad un peccato mortale un inferno è poco: all'offesa d'una maestà infinita si dovrebbe un castigo infinito, dice S. Bernardino da Siena:8 «In omni peccato mortali infinita Deo contumelia irrogatur; infinitae autem iniuriae infinita debetur poena». Ma perché, dice l'Angelico9 la creatura non è capace di pena infinita nell'intensione, giustamente fa Dio che la sua pena sia infinita nella estensione.
    Oltreché questa pena dee esser necessariamente eterna, prima perché il dannato non può più soddisfare per la sua colpa. In questa vita intanto può soddisfare il peccator penitente, in quanto gli sono applicati i meriti di Gesu-Cristo; ma da questi meriti è escluso il dannato; onde non potendo egli placare più Dio, ed essendo eterno il suo peccato, eterna dee essere ancora la sua pena. «Non dabit Deo placationem suam, laborabit in aeternum» (Ps. 48. 8). Quindi dice il Belluacense (lib. 2. p. 3):10 «Culpa semper poterit ibi puniri, et nunquam poterit expiari»; poiché al dire di S. Antonino11 «ibi peccator poenitere non potest»;12 e perciò il Signore starà sempre con esso sdegnato. «Populus cui iratus est Dominus usque in aeternum» (Malach. 1. 4). Di più il dannato, benché Dio volesse perdonarlo, non vuol esser perdonato, perché la sua volontà è ostinata e confermata nell'odio contro Dio. Dice Innocenzo III:13 «Non humiliabuntur reprobi, sed malignitas odii in illis excrescet» (Lib. 3. de Cont. mundi c. 10). E S. Girolamo:14 «Insatiabiles sunt in desiderio peccandi» (In Proverb. 27). Ond'è che la piaga del dannato è disperata, mentre ricusa anche il guarirsi. «Factus est dolor eius perpetuus, et plaga desperabilis renuit curari» (Ier. 15. 18).15

    Affetti e preghiere.

    Dunque, mio Redentore, se a quest'ora io fossi dannato, siccome ho meritato, starei ostinato nell'odio contro di Voi, mio Dio, che siete morto per me? Oh Dio, e qual inferno sarebbe questo, odiare Voi che mi avete tanto amato, e siete una bellezza infinita, una bontà infinita, degna d'infinito amore! Dunque, se ora stessi nell'inferno, starei in uno stato sì infelice, che neppure vorrei il perdono ch'ora Voi m'offerite? Gesù mio, vi ringrazio della pietà che m'avete usata, e giacché ora posso essere perdonato, e posso amarvi, io voglio esser perdonato e voglio amarvi. Voi m'offerite il perdono, ed io ve lo domando, e lo spero per li meriti vostri. Io mi pento di tutte l'offese che v'ho fatte, o bontà infinita, e Voi perdonatemi. Io v'amo con tutta l'anima mia. Ah Signore, e che male Voi mi avete fatto, che avessi ad odiarvi come mio nemico per sempre? E quale amico ho avuto io mai, che ha fatto e patito per me, quel che avete fatto e patito Voi, o Gesù mio? Deh non permettete ch'io cada più in disgrazia vostra, e perda il vostro amore; fatemi prima morire, ch'abbia a succedermi questa somma ruina.
    O Maria, chiudetemi sotto il vostro manto, e non permettete ch'io n'esca più a ribellarmi contro Dio e contro Voi.
    1 [9.] Davide) Davidde VR BR1 BR2.
    2 [14.] EUSEBIUS EMISSENUS, Homil. de Epiphania, hom. 3; Opera, Parisiis 1575, f. 247: «Ardens inferni puteus aperietur, descensus erit, reditus non erit… Ideo autem dixit: Neque urgeat puteus super me os suum: quia cum susceperit reos claudetur sursum, et aperietur deorsum, dilatabitur in profundum, nullum spiramen, nullus liber anhelitus, claustris desuper urgentibus, relinquetur». Cfr. Maxima Bibl. Patrum, VI, Lugduni 1677, 655. Circa l'attribuzione di queste Omilie ad Eusebio Emisseno o ad Eusebio Gallicano, vedi PG 86, 287-291, 461-464.
    3 [24.] Meglio: a vita.
    4 [8.] NEPVEU F., Riflessioni cristiane, I, Venezia 1721, 26: «I dannati in ogni momento, dice Tertulliano, sostengono il peso di tuta l'eternità: Pondus aeternitatis sustinent». HOUDRY V., Bibl. concionatoria, Infernus, parag. VI; II, Venetiis 1764, 345: «Damnati quolibet momento, Tertullianus ait, totius aeternitatis sustinent pondus». Vedi pure [SARNELLI G.], La via facile e sicura del paradiso, I, Napoli 1738, 311. Cfr. TERTULLIANUS, Apologet., c. 48; PL 1, 527: «Tunc restituetur omne humanum genus ad expungendum quod in isto aevo boni seu mali meruit, et exinde pendendum in immensam aeternitatis perpetuitatem». CC I, 167-68.
    5 [10.] DREXELIUS, De aeternitate, cons. V, n. 3; Opera, I, Lugduni 1658, 15: «Hinc tam serio clamat et precatur Augustinus: Domine, hic ure, hic seca, modo in aeternum parcas». La frase è ripetuta da molti autori ascetici, ma in s. Agostino non si trova che l'idea: S. AUGUST., Enarrat. in Ps. XXXIII, sermo II, n. 20; PL 36, 319: «Ideo [Deus] videtur non exaudire, ut sanet et parcat in sempiternum». CC 38, 295. ID., Sermo 70, n. 2; PL 38, 443.
    6 [17.] Matth., 25, 41.
    7 [25.] S. THOMAS, Summa theol., I-II, q. 87, a. 3, ad I: «In nullo iudicio requiritur ut poena adaequetur culpae secundum durationem. Non enim quia adulterium vel homicidium in momento committitur, propter hoc momentanea poena punitur».
    8 [4.] S. BERNARDINUS SEN., Quadragesimale de Evang. aeterno, sermo XII, a. 2, c. 2; Opera, II, Venetiis 1745, 76: «In omni peccato mortali, infinita Deo contumelia irrogatur... Infinitae autem iniuriae vel contumeliae, infinita de iure debetur poena». Op. omnia, III, Ad Claras Aquas 1956, 237.
    9 [6.] S. THOMAS, Supplem. III partis, q. 99, a. I, c.: «Unde, cum non posset esse infinita poena per intensionem, quia creatura non est capax alicuius qualitati infinitae; requiritur quod sit saltem duratione infinita». Cfr. anche S. ANTONINUS, Summa theol., tit. V, c. 3; IV, Veronae 1740, col. 400: «Poena autem infinita non potest esse secundum intensionem, quia sic consumeret naturam; oportet ergo ut sit infinita secundum extensionem, id est, secundum durationem, ut sic poena respondeat culpae».
    10 [16.] V. BELLOVACENSIS, Spec. morale, l. II, p. 3, dist. 3; Venetiis 1591, 147, col. 3: «Quia culpa semper poterit ibi puniri, et numquam poterit expiari, sic nec in corpore poterunt tormenta finiri, nec corpus ipsum tormentis examinari».
    11 [17.] S. Antonino) S. Antonio, G. Antonelli (1833); S. Agostino, Marietti, (1846).
    12 [17.] S. ANTONINUS, op. cit., p. IV, tit. 14, c. 5, parag. II; IV, Veronae 1740, col. 792: «In vita praesenti habent etiam maximi peccatores subsidium multiplex a Deo praecipue per poenitentiam... Sed damnatus non dabit Deo placationem suam, in psal. XLVIII, quia poenitere non potest... In inferno quis confitebitur tibi? quasi diceret, nullus, ita nec contritio nec satisfactio». A proposito di questa citazione vedi Introduzione generale, Restituzione del Testo, 99-100.
    13 [1.] INNOCENTIUS III, De contemptu mundi, l. III, c. 10; PL 217, 741: «Non humiliabuntur reprobi iam desperati de venia, sed malignitas odii tantum in illis excrescet, ut velint illum omnino non esse, per quem sciunt se tam infeliciter esse».
    14 [3.] STRABUS W., Glossa ordinaria in Prov. XXVII, 20; PL 113, 1110 (cfr. Prol. 11, ss.): «Inferni tormenta non replentur, terminum accipiendo. Similiter et intentionem eorum qui terrena sapiunt, insatiabiles sunt in desiderio peccandi. Ideo enim sine fine puniuntur, quia voluntatem habuerunt sine fine peccandi, si naturam haberent sine fine vivendi».
    15 [5.] Ier., 15, 18: «Quare factus est dolor meus perpetuus, et plaga mea desperabilis renuit curari?»
    PUNTO III
    La morte in questa vita è la cosa più temuta da peccatori, ma nell'inferno sarà la più desiderata. «Quaerent mortem, et non invenient; et desiderabunt mori, et mors fugiet ab eis» (Apoc. 9. 6). Onde scrisse S. Girolamo:1 «O mors quam dulcis esses, quibus tam amara fuisti!» (Ap. S. Bon. Soliloq.). Dice Davide2 che la morte si pascerà de' dannati: «Mors depascet eos» (Psal. 48. 15). Spiega S. Bernardo3 che siccome la pecora pascendosi dell'erba, si ciba delle frondi, ma lascia le radici, così la morte si pasce de' dannati, gli uccide ogni momento, ma lascia loro la vita per continuare ad ucciderli colla pena in eterno: «Sicut animalia depascunt herbas, sed remanent radices; sic miseri in inferno corrodentur a morte, sed iterum reservabuntur ad poenas». Sicché dice S. Gregorio4 che il dannato muore ogni momento senza mai morire: «Flammis ultricibus traditus semper morietur» (Lib. Mor. c. 12). Se un uomo muore ucciso dal dolore, ognuno lo compatisce; almeno il dannato avesse chi lo compatisse. No, muore il misero per lo dolore ogni momento, ma non ha, né avrà mai chi lo compatisca. Zenone imperadore,5 chiuso in una fossa, gridava: Apritemi per pietà. Non fu da niuno inteso, onde fu ritrovato morto da disperato, poiché si avea mangiate le stesse carni delle sue braccia. Gridano i presciti dalla fossa dell'inferno, dice S. Cirillo Alessandrino,6 ma niuno viene a cacciarneli, e niuno ne ha compassione: «Lamentantur, et nullus eripit; plangunt et nemo compatitur».
    E questa loro miseria per quanto tempo durerà? per sempre, per sempre. Narrasi negli Esercizi spirituali del P. Segneri Iuniore (scritti dal Muratori)7 che in Roma essendo dimandato il demonio, che stava nel corpo d'un ossesso, per quanto tempo doveva star nell'inferno; rispose con rabbia, sbattendo la mano su d'una sedia: «Sempre, sempre». Fu tanto lo spavento, che molti giovani del Seminario Romano, che ivi si trovavano, si fecero una confessione generale, e mutarono vita a questa gran predica di due parole: «Sempre, sempre». Povero Giuda! son passati già mille e settecento anni che sta nell'inferno, e l'inferno suo ancora è da capo. Povero Caino! egli sta nel fuoco da cinque mila e 700 anni, e l'inferno suo è da capo. Fu interrogato un altro demonio,8 da quanto tempo era andato all'inferno, e rispose: «Ieri». Come ieri, gli fu detto, se tu sei dannato da cinque mila e più anni? Rispose di nuovo: Oh se sapessivo9 9a che viene a dire eternità, bene intendereste che cinque mila anni non sono a paragone neppure un momento. Se un angelo dicesse ad un dannato: Uscirai dall'inferno, ma quando son passati tanti secoli, quante sono le goccie dell'acqua, le frondi degli alberi e le arene del mare, il dannato farebbe più festa, che un mendico in aver la nuova10 d'esser fatto re. Sì, perché passeranno tutti questi secoli, si moltiplicheranno infinite volte, e l'inferno sempre sarà da capo. Ogni dannato farebbe questo patto con Dio: Signore, accrescete la pena mia quanto volete; fatela durare quanto vi piace; metteteci termine, e son contento. Ma no, che questo termine non vi sarà mai. La tromba della divina giustizia non altro suonerà nell'inferno che «sempre, sempre, mai, mai».
    Dimanderanno i dannati ai demoni: A che sta la notte? «Custos, quid de nocte?» (Is. 21. 11). Quando finisce? quando finiscono queste tenebre, queste grida, questa puzza, queste fiamme, questi tormenti? E loro è risposto: «Mai, mai». E quanto dureranno? «Sempre, sempre». Ah Signore, date luce a tanti ciechi, che pregati a non dannarsi, rispondono: All'ultimo, se vado all'inferno, pazienza. Oh Dio, essi non hanno pazienza di sentire un poco di freddo, di stare in una stanza troppo calda, di soffrire una percossa; e poi avranno pazienza di stare in un mar di fuoco, calpestati da' diavoli e abbandonati da Dio e da tutti per tutta l'eternità!

    Affetti e preghiere.

    Ah Padre delle misericordie, Voi non abbandonate chi vi cerca. «Non dereliquisti quaerentes te, Domine» (Psal. 9. 11). Io per lo passato vi ho voltate tante volte le spalle, e Voi non mi avete abbandonato: non mi abbandonate ora che vi cerco. Mi pento, o sommo bene, di aver fatto tanto poco conto della vostra grazia, che l'ho cambiata per niente. Guardate le piaghe del vostro Figlio, udite le sue voci, che vi pregano a perdonarmi, e perdonatemi. E Voi, mio Redentore, ricordatemi sempre le pene che avete patito per me,11 l'amore, che mi avete portato, e l'ingratitudine mia, per cui tante volte mi ho meritato l'inferno: acciocché io pianga sempre il torto che vi ho fatto, e viva sempre ardendo del vostro amore. Ah Gesù mio, come non arderò del vostro amore, pensando che da tanti anni dovrei ardere nell'inferno, e seguire ad ardere per tutta l'eternità, e che Voi siete morto per liberarmene, e con tanta pietà me ne avete liberato? Se fossi nell'inferno, ora vi odierei, e vi avrei da odiare per sempre; ma ora v'amo, e voglio amarvi per sempre. Così spero al12 sangue vostro. Voi mi amate, ed io ancora v'amo. Voi mi amerete sempre, se io13 non vi lascio. Ah mio Salvatore, salvatemi da questa disgrazia ch'io abbia a lasciarvi, e poi fatene di me quel che volete. Io merito ogni castigo, ed io l'accetto, acciocché mi liberiate dal castigo d'esser privo del vostro amore.
    O Maria rifugio mio, quante volte io stesso mi son condannato all'inferno, e Voi me ne avete liberato? Deh liberatemi ora dal peccato, che solo può privarmi della grazia di Dio e portarmi all'inferno.
    1 [5.] S. BONAVENTURA, Soliloquium, c. III; Opera, VII, Lugduni 1668, 118: «Ad districti ergo iudicis iustitiam pertinet, ut numquam careant supplicio, quorum mens in hac vita numquam voluit carere peccato. Hieronymus: O mors, quam dulcis esses quibus tam amara fuisti! Te solummodo desiderant, qui te vehementer odiebant». Nell'edizione critica del Soliloquium è stata soppressa l'attribuzione del testo a s. Girolamo: cfr. S. BONAVENTURA, Soliloquium, c. III, parag. 3; Opera, VIII, Ad Claras Aquas 1898, 54.
    2 [6.] Davide) Davidde VR BR1 BR2.
    3 [7.] S. BERNARDINUS SEN., Quadrag. de Evang. aeterno, sermo XI, art. III, c. 3, parag. 3; Opera, II, Venetiis 1745, 73: «Sicut enim animalia depascunt herbas, quia penitus non eradicant eas, sed remanent radices, unde iterum crescit herba: sic miseri in inferno corrodentur a morte, sed afflicti iterum reservabuntur ad poenas». Op. omnia, III, Ad Claras Aquas 1956, 227.
    4 [13.] S. GREGORIUS M., Moralia in Iob, l. XV, c. 17, n. 21; PL 75, 1092: «Damnati semper moriuntur numquam morte consumendi. Persolvit enim in tormento ea quae hic illicite servavit desideria; et, flammis ultricibus traditus, semper moritur, quia semper in morte servatur».
    5 [18.] BARONIUS C., Annales Ecclesiastici, an. 491, n. 1; VIII, Lucae 1741, 532: «Satellites porro, qui ad sepulcrum, in quo repositus fuit, custodiendum erant collocati, retulerunt se per duas noctes lamentabilem vocem audivisse ex sepulcro elatam: Miseremini et aperite mihi… Sed cum non aperirent, ferunt... inventum Zenonem, qui prae fame suos ipse lacertos mandiderat, et caligas quas portabat».
    6 [3.] S. CYRILLUS ALEX., Homilia 14, De exitu animi et de secundo adventu; PG 77, 1075, 1078: «Illic vae, vae perpetuo, illic eheu, illic vociferantur, nec est qui succurrat; clamant, nec ullus est qui liberet... Gemunt continenter et sine intermissione, sed nullus est qui misereatur… lamentantur, sed nullus est qui liberet. Exclamant, et plangunt, sed nullus est qui commoveatur».
    7 [8.] MURATORI L. A., Esercizi spirituali esposti secondo il metodo del P. Paolo Segneri iuniore, med. sopra l'inferno; Venezia 1739, 222: «Scongiurando in Roma un valente esorcista una persona indemoniata, e venendogli in pensiero, che quello spirito desse qualche buon avvertimento a gli astanti, l'interrogò dove stesse allora. Rispose: Nell'inferno. E per quanto tempo, replicò il religioso, hai tu da starvi? Ripugnò un pezzo il maligno: ma vinto dal comando proruppe in fine con voce miserabilissima in queste parole: Per sempre, per sempre, sbuffando, e battendo ogni volta le mani in terra con incredibil furia… Era ivi presente per curiosità gran numero di cavalieri, e d'altra gente; e tale spavento s'impresse in tutti, che tutti perderono la parola. Basta dire che molti andarono tosto a fare una confessione generale, ed alcuni migliorarono notabilmente la vita loro, mossi da quella gran predica fatta lor dal demonio in una sola parola: Per sempre».
    8 [17.] PEPE F., op. cit., I, Napoli 1756, 305: «Dimandato un demonio da quanto tempo era stato scacciato dal cielo. Ieri, rispose. Bugiardo, ripigliò l'esorcista. Se sapessi, che cosa è eternità, ripigliò il demonio, tutt'il tempo dalla creazione del mondo fino a questo punto lo riputeresti un'ora».
    9 [19.] sapessivo) sapeste VR BR1 BR2.
    9a [19.] Dialettismo: sapeste.
    10 [4.] nuova) nova NS7.
    11 [29.] sempre le pene che avete patito per me, rigo om. NS7.
    12 [3.] spero al) spero nel VR BR1 BR2.
    13 [4.] se io) s'io VR BR1 BR2.

    CONSIDERAZIONE XXVIII
    RIMORSI DEL DANNATO

    «Vermis eorum non moritur» (Marc. 9. 47).
    PUNTO I

    Per questo verme che non muore, spiega S. Tommaso1 che s'intende il rimorso di coscienza, dal quale eternamente sarà il dannato tormentato nell'inferno. Molti saranno i rimorsi2 con cui la coscienza roderà il cuore de' reprobi, ma tre saranno i rimorsi3 più tormentosi: il pensare al poco per cui si son dannati: al poco che dovean fare per salvarsi: e finalmente al gran bene che han perduto. Il primo rimorso4 dunque che avrà il dannato sarà il pensare per quanto poco s'è perduto. Dopo che Esaù ebbesi cibato di quella minestra di lenticchie, per cui avea5 venduta la sua primogenitura, dice la Scrittura che per lo dolore e rimorso della perdita fatta si pose ad urlare: «Irrugiit clamore magno» (Gen. 27. 34). Oh quali altri urli e ruggiti darà il dannato pensando che per poche soddisfazioni momentanee e avvelenate si ha perduto un regno eterno di contenti, e si ha da vedere eternamente condannato ad una continua morte! Onde piangerà assai più amaramente, che non piangeva Gionata, allorché videsi condannato a morte da Saulle suo padre, per essersi cibato d'un poco di mele.6 «Gustans gustavi paulum mellis, et ecce morior» (1. Reg. 14. 43). Oh Dio, e qual pena apporterà al dannato il vedere allora la causa della sua dannazione? Al presente che cosa a noi sembra la nostra vita passata, se non un sogno, un momento? Or che pareranno a chi sta nell'inferno quelli cinquanta, o sessanta anni di vita, che avrà vivuti in questa terra, quando si troverà7 nel fondo dell'eternità, in cui saranno già passati cento e mille milioni d'anni, e vedrà che la sua eternità allora comincia! Ma che dico cinquanta anni di vita? cinquanta anni tutti forse di gusti? e che forse il peccatore vivendo senza Dio, sempre gode ne' suoi peccati? quando durano i gusti del peccato? durano momenti; e tutto l'altro tempo per chi vive in disgrazia di Dio, è tempo di pene e8 di rancori. Or che pareranno quelli momenti di piaceri al povero dannato? e specialmente che parerà quell'uno ed ultimo peccato fatto, per lo quale s'è perduto? Dunque (dirà) per un misero gusto brutale ch'è durato un momento, e appena avuto è sparito come vento, io avrò da stare ad ardere in questo fuoco, disperato ed abbandonato da tutti, mentre Dio sarà Dio per tutta l'eternità!

    Affetti e preghiere.

    Signore, illuminatemi a conoscere l'ingiustizia che v'ho usata in offendervi, e 'l castigo eterno che con ciò mi ho meritato. Mio Dio, sento una gran pena di avervi offeso, ma questa pena mi consola; se Voi mi aveste mandato all'inferno, come io ho meritato, questo rimorso sarebbe l'inferno del mio inferno, pensando per quanto poco mi son dannato; ma ora questo rimorso (dico) mi consola, perché mi dà animo a sperare il perdono da Voi, che avete promesso di perdonare chi si pente. Sì, mio Signore, mi pento di avervi oltraggiato, abbraccio questa dolce pena, anzi vi prego ad accrescermela e a conservarmela sino alla morte, acciocché io9 pianga sempre amaramente i disgusti che v'ho dati. Gesù mio, perdonatemi; o mio Redentore, che per avere pietà di me, non avete avuta pietà di Voi, condannandovi a morire10 di dolore, per liberarmi dall'inferno, abbiate pietà di me. Fate dunque che il rimorso di avervi offeso mi tenga continuamente addolorato, e nello stesso tempo m'infiammi tutto d'amore verso di Voi, che tanto mi avete amato, e con tanta pazienza mi avete sofferto, ed ora invece di castighi, mi arricchite di lumi e di grazie; ve ne ringrazio, Gesù mio, e v'amo; v'amo più di me stesso, v'amo con tutt'il cuore. Voi non sapete disprezzare chi v'ama. Io v'amo, non mi discacciate dalla vostra faccia. Ricevetemi dunque nella vostra grazia, e non permettete ch'io v'abbia da perdere più. Maria Madre mia, accettatemi per vostro servo, e stringetemi a Gesù vostro Figlio. Pregatelo che mi perdoni, che mi doni il suo amore e la grazia della perseveranza sino alla morte.
    1 [5.] S. THOMAS, Suppl. III partis, q. 97, a. 2, c.: «Unde vermis qui in damnatis ponitur, non debet intelligi esse materialis, sed spiritualis qui est conscientiae remorsus: qui dicitur vermis, in quantum oritur ex putredine peccati et animam affligit, sicut corporalis vermis ex putredine ortus affligit pungendo».
    2 [7.] rimorsi) morsi VR BR1 BR2.
    3 [8.] rimorsi) morsi VR BR1 BR2.
    4 [10.] rimorso) morso VR BR1 BR2.
    5 [13.] avea) aveva VR BR1 BR2.
    6 [20.] Oggi miele.
    7 [26.] troverà) ritroverà VR BR1 BR2.
    8 [5.] e, om. VR.
    9 [22.] acciocché io) acciocch'io VR BR1.
    10 [25.] morire) morir VR BR1 BR2.

    PUNTO II

    Dice S. Tommaso1 che questa sarà la pena principale de' dannati, il vedere che si son perduti per niente, e che con tanta facilità poteano acquistarsi la gloria del paradiso, se voleano: «Principaliter dolebunt, quod pro nihilo damnati sunt, et facillime vitam poterant consequi sempiternam». Il secondo rimorso2 dunque della coscienza sarà il pensare al poco che dovean fare per salvarsi. Comparve a S. Umberto3 un dannato e gli disse che quest'appunto era la maggiore4 afflizione, che cruciavalo nell'inferno, il pensiero del poco per cui s'era dannato, e del poco che avrebbe avuto a fare per salvarsi. Dirà allora il misero: S'io mi mortificava a non guardare quell'oggetto, se vincea quel rispetto umano, se fuggiva quell'occasione, quel compagno, quella conversazione, non mi sarei dannato. Se mi fossi confessato ogni settimana, se avessi frequentata la Congregazione, se avessi letto ogni giorno quel libretto spirituale, se mi fossi raccomandato a Gesu-Cristo ed a Maria, non sarei ricaduto. Ho proposto tante volte di farlo, ma non l'ho eseguito; o pure l'ho cominciato a fare, e poi l'ho lasciato, e perciò mi son perduto.
    Accresceranno la pena di questo rimorso gli esempi, che avrà avuti degli altri suoi buoni amici e compagni; e più l'accresceranno i doni che Dio gli avea concessi per salvarsi: doni di natura, come buona sanità, beni di fortuna, talenti che 'l Signore gli avea dati affin di bene impiegarli, e farsi santo: doni poi di grazia, tanti lumi, ispirazioni, chiamate, e tanti anni conceduti a rimediare il mal fatto: ma vedrà che in questo stato miserabile, al quale è arrivato, non v'è più tempo da rimediare. Sentirà l'Angelo del Signore che grida e giura: «Et Angelus, quem vidi stantem, iuravit per viventem in saecula saeculorum... quia tempus non erit amplius» (Apoc. 10. 6). Oh che spade crudeli saranno tutte queste grazie ricevute al cuore del povero dannato, allorché vedrà esser finito già il tempo di poter più dar riparo alla sua eterna ruina. Dirà dunque piangendo cogli altri suoi compagni disperati: «Transiit messis, finita est aestas, et nos salvati non sumus» (Ier. 8. 20). Dirà: Oh se le fatiche che ho fatte per dannarmi, l'avessi spese per Dio, mi troverei fatto un gran santo; ed ora che me ne trovo, se non rimorsi e pene, che mi tormenteranno in eterno? Ah che questo pensiero crucierà il dannato più che il fuoco, e tutti gli altri tormenti dell'inferno; il dire: Io poteva essere per sempre felice, ed ora ho da essere per sempre infelice.

    Affetti e preghiere.

    Ah Gesù mio, e come avete potuto tanto sopportarmi? io tante volte v'ho voltate le spalle, e Voi non avete lasciato di venirmi appresso. Io tante volte vi ho offeso, e Voi mi avete perdonato; vi ho tornato ad offendere, e Voi avete ritornato a perdonarmi. Deh fatemi parte di quel dolore, che sentiste nell'orto di Getsemani de' peccati miei, che allora vi fecero sudar sangue. Mi pento, Redentor mio caro, di aver così malamente pagato il vostro Cuore.5 O gusti miei maledetti, vi detesto e maledico, voi mi avete fatta perdere la grazia del mio Signore. Amato mio Gesù, ora io v'amo sopra ogni cosa, rinunzio a tutte le soddisfazioni illecite e propongo prima di morir mille volte, che di offendervi più. Deh per quell'affetto con cui mi amaste sulla croce ed offeriste la vostra vita divina per me, datemi luce e forza di resistere alle tentazioni, e di ricorrere al vostro aiuto, quando sarò tentato.
    O Maria speranza mia, Voi tutto potete appresso Dio, impetratemi la santa perseveranza: ottenetemi ch'io più non mi divida dal suo santo amore.
    1 [5.] Forse trattasi di un testo sunteggiato: vedi S. THOMAS, Compendium Theologiae, c. 175; Opera, XVII, Romae 1570, opusc. II, f. 31, col. 3: «Dolent ergo mali quia peccata commiserunt, non propter hoc, quia peccata eis displiceant, quia etiam tunc mallent peccata illa committere, si facultas daretur, quam Deum habere... Sic igitur et voluntas eorum perpetuo manebit obstinata in malo, et tamen gravissime dolebunt de culpa commissa et de gloria amissa; et hic dolor vocatur remorsus conscientiae, qui metaphorice in Scripturis vermis nominatur, secundum illud Isaiae ultimmo 24: Vermis eorum non morietur». Cfr. Opuscula theol., op. I Compendium Theol., c. 175, n. 348; I, Taurini 1954, 82.
    2 [9.] rimorso) morso VR BR1 BR2.
    3 [10.] ROSIGNOLI C. G., Verità eterne, lez. VI, parag. 2; Bologna 1689, 114: «Ma che accade addur favole, se ne abbiamo la testimonianza addotta da B. Umberto, d'un dannato, che comparito in mesta gramaglia tutto affannato confessò che l'inferno del suo inferno era la rimembranza delle colpe commesse: d'aver perduto un regno eterno per brevissimo diletto: d'aver gittato in vanissime cure quel tempo, con un quarticello del quale avrebbe potuto con una buona confessione ottener la salute».
    4 [11.] maggiore) maggior VR.
    5 [30.] Cuore) amore ND1 VR ND3 BR1 BR2.

    PUNTO II

    Dice S. Tommaso1 che questa sarà la pena principale de' dannati, il vedere che si son perduti per niente, e che con tanta facilità poteano acquistarsi la gloria del paradiso, se voleano: «Principaliter dolebunt, quod pro nihilo damnati sunt, et facillime vitam poterant consequi sempiternam». Il secondo rimorso2 dunque della coscienza sarà il pensare al poco che dovean fare per salvarsi. Comparve a S. Umberto3 un dannato e gli disse che quest'appunto era la maggiore4 afflizione, che cruciavalo nell'inferno, il pensiero del poco per cui s'era dannato, e del poco che avrebbe avuto a fare per salvarsi. Dirà allora il misero: S'io mi mortificava a non guardare quell'oggetto, se vincea quel rispetto umano, se fuggiva quell'occasione, quel compagno, quella conversazione, non mi sarei dannato. Se mi fossi confessato ogni settimana, se avessi frequentata la Congregazione, se avessi letto ogni giorno quel libretto spirituale, se mi fossi raccomandato a Gesu-Cristo ed a Maria, non sarei ricaduto. Ho proposto tante volte di farlo, ma non l'ho eseguito; o pure l'ho cominciato a fare, e poi l'ho lasciato, e perciò mi son perduto.
    Accresceranno la pena di questo rimorso gli esempi, che avrà avuti degli altri suoi buoni amici e compagni; e più l'accresceranno i doni che Dio gli avea concessi per salvarsi: doni di natura, come buona sanità, beni di fortuna, talenti che 'l Signore gli avea dati affin di bene impiegarli, e farsi santo: doni poi di grazia, tanti lumi, ispirazioni, chiamate, e tanti anni conceduti a rimediare il mal fatto: ma vedrà che in questo stato miserabile, al quale è arrivato, non v'è più tempo da rimediare. Sentirà l'Angelo del Signore che grida e giura: «Et Angelus, quem vidi stantem, iuravit per viventem in saecula saeculorum... quia tempus non erit amplius» (Apoc. 10. 6). Oh che spade crudeli saranno tutte queste grazie ricevute al cuore del povero dannato, allorché vedrà esser finito già il tempo di poter più dar riparo alla sua eterna ruina. Dirà dunque piangendo cogli altri suoi compagni disperati: «Transiit messis, finita est aestas, et nos salvati non sumus» (Ier. 8. 20). Dirà: Oh se le fatiche che ho fatte per dannarmi, l'avessi spese per Dio, mi troverei fatto un gran santo; ed ora che me ne trovo, se non rimorsi e pene, che mi tormenteranno in eterno? Ah che questo pensiero crucierà il dannato più che il fuoco, e tutti gli altri tormenti dell'inferno; il dire: Io poteva essere per sempre felice, ed ora ho da essere per sempre infelice.



    Affetti e preghiere.

    Ah Gesù mio, e come avete potuto tanto sopportarmi? io tante volte v'ho voltate le spalle, e Voi non avete lasciato di venirmi appresso. Io tante volte vi ho offeso, e Voi mi avete perdonato; vi ho tornato ad offendere, e Voi avete ritornato a perdonarmi. Deh fatemi parte di quel dolore, che sentiste nell'orto di Getsemani de' peccati miei, che allora vi fecero sudar sangue. Mi pento, Redentor mio caro, di aver così malamente pagato il vostro Cuore.5 O gusti miei maledetti, vi detesto e maledico, voi mi avete fatta perdere la grazia del mio Signore. Amato mio Gesù, ora io v'amo sopra ogni cosa, rinunzio a tutte le soddisfazioni illecite e propongo prima di morir mille volte, che di offendervi più. Deh per quell'affetto con cui mi amaste sulla croce ed offeriste la vostra vita divina per me, datemi luce e forza di resistere alle tentazioni, e di ricorrere al vostro aiuto, quando sarò tentato.
    O Maria speranza mia, Voi tutto potete appresso Dio, impetratemi la santa perseveranza: ottenetemi ch'io più non mi divida dal suo santo amore.
    1 [5.] Forse trattasi di un testo sunteggiato: vedi S. THOMAS, Compendium Theologiae, c. 175; Opera, XVII, Romae 1570, opusc. II, f. 31, col. 3: «Dolent ergo mali quia peccata commiserunt, non propter hoc, quia peccata eis displiceant, quia etiam tunc mallent peccata illa committere, si facultas daretur, quam Deum habere... Sic igitur et voluntas eorum perpetuo manebit obstinata in malo, et tamen gravissime dolebunt de culpa commissa et de gloria amissa; et hic dolor vocatur remorsus conscientiae, qui metaphorice in Scripturis vermis nominatur, secundum illud Isaiae ultimmo 24: Vermis eorum non morietur». Cfr. Opuscula theol., op. I Compendium Theol., c. 175, n. 348; I, Taurini 1954, 82.
    2 [9.] rimorso) morso VR BR1 BR2.
    3 [10.] ROSIGNOLI C. G., Verità eterne, lez. VI, parag. 2; Bologna 1689, 114: «Ma che accade addur favole, se ne abbiamo la testimonianza addotta da B. Umberto, d'un dannato, che comparito in mesta gramaglia tutto affannato confessò che l'inferno del suo inferno era la rimembranza delle colpe commesse: d'aver perduto un regno eterno per brevissimo diletto: d'aver gittato in vanissime cure quel tempo, con un quarticello del quale avrebbe potuto con una buona confessione ottener la salute».
    4 [11.] maggiore) maggior VR.
    5 [30.] Cuore) amore ND1 VR ND3 BR1 BR2.

    SERMONE VIII. - PER LA DOMENICA III. DOPO L'EPIFANIA

    Rimorsi del dannato.

    Filii autem regni eiicientur in tenebras exteriores; ibi erit fletus et stridor dentium. (Matth. 8. 12.)

    Nel corrente evangelio si narra che essendo entrato Gesù Cristo in Cafarnao, venne a ritrovarlo il Centurione, ed a pregarlo che desse la sanità ad un suo servo paralitico che teneva in sua casa. Il Signore gli disse: Ego veniam et curabo eum. No, replicò il Centurione, non son degno io che voi entriate nella mia casa: basta che vogliate sanarlo, e il mio servo sarà sano. Ed il Salvatore vedendo la sua fede, in quel punto lo consolò rendendo la sanità al servo, e rivolto a' suoi discepoli disse loro: Multi ab oriente et occidente venient, et recumbent cum Abraham, Isaac et Iacob in regno coelorum; filii autem regni eiicientur in tenebras exteriores; ibi erit fletus et stridor dentium. E con ciò volle il Signore darci a sapere che molti nati fra gl'infedeli si salveranno coi santi, e molti nati nel grembo della santa chiesa anderanno all'inferno, ove il verme della coscienza coi suoi morsi li farà piangere amaramente per sempre. Vediamo i rimorsi che il cristiano dannato patirà nell'inferno:
    Rimorso I. Del poco che far dovea per salvarsi;
    Rimorso II. Del poco per cui si è dannato;
    Rimorso III. Del gran bene che ha perduto per sua colpa.

    RIMORSO I. Del poco che dovea fare per salvarsi.

    Un giorno apparve un dannato a sant'Uberto, e ciò appunto gli disse che due rimorsi erano i suoi carnefici più crudeli nell'inferno, il pensare al quanto poco gli toccava a fare in questa vita per salvarsi, ed al quanto poco era stato quello per cui si era dannato. Lo stesso scrisse poi s. Tomaso: Principaliter dolebunt quod pro nihilo damnati sunt, et facillime vitam poterant consequi sempiternam. Fermiamoci a considerare il primo rimorso, cioè quanto poche e brevi sono state le soddisfazioni, per le quali ogni dannato si è perduto. Dirà il misero: se io mi astenea da quel diletto, se vincea quel rispetto umano, se fuggiva quell'occasione, quel cattivo compagno, non mi sarei dannato. Se avessi frequentata la congregazione, se mi fossi confessato ogni settimana, se nelle tentazioni mi fossi raccomandato a Dio non sarei ricaduto. Ho proposto tante volte di farlo, ma poi non l'ho fatto: l'ho cominciato a fare, ma poi l'ho lasciato, e così mi son perduto.
    Crescerà il tormento di questo rimorso col ricordarsi il dannato i buoni esempi che avrà avuti d'altri giovani suoi pari, che anche in mezzo al mondo han menata una vita casta e divota. Crescerà poi maggiormente la pena colla memoria di tutti i doni che il Signore gli ha fatti, a fine di cooperarsi ad acquistare la salute eterna, doni di natura, buona sanità, beni di fortuna, buoni natali, buon talento; tutti doni da Dio a lui concessi, non per vivere tra i piaceri di terra o per sopraffare gli altri, ma per impiegarli a bene dell'anima sua e farsi santo: tanti doni poi di grazia, lumi divini, ispirazioni sante, chiamate amorose: di più tanti anni di vita datigli da Dio per rimediare al mal fatto. Ma udirà l'angelo del Signore, che gli fa sapere che per lui è terminato il tempo di salvarsi: Et angelus quem vidi stantem, iuravit per viventem in saecula saeculorum... quia tempus non erit amplius1.Oimè che spade crudeli saranno tutti questi beneficj ricevuti al cuore del povero dannato, quando vedrassi entrato già nella carcere dell'inferno, e vedrà che più non vi è tempo di far riparo alla sua eterna ruina! Dunque, dirà piangendo da disperato insieme cogli altri suoi infelici compagni: Transiit messis, finita est aestas, et nos salvati non sumus2. E passato, dirà, il tempo di raccoglier frutti per la vita eterna, è finita l'estate in cui potevamo salvarci; ma non ci siamo salvati, ed è venuto il verno, ma verno eterno, nel quale abbiamo da vivere infelici e disperati per sempre, finché Dio sarà Dio. Dirà inoltre il misero: oh pazzo che sono stato! Se le pene che ho sofferte per soddisfare i miei capricci, le avessi sofferte per Dio: se le fatiche che ho fatte per dannarmi, le avessi fatte per salvarmi, quanto ora me ne troverei contento! Ed ora che me ne trovo, se non rimorsi e pene che mi tormentano e mi tormenteranno per tutta l'eternità! Dunque, dirà finalmente, io poteva essere per sempre felice, ed ora ho da essere per sempre infelice! Ah che questo pensiero affliggerà il dannato più che il fuoco e tutti gli altri tormenti dell'inferno.

    RIMORSO II. Del poco per cui si è perduto.

    Il re Saule fece ordine, stando nel campo, che niuno sotto pena della vita si cibasse di alcuna cosa. Gionata suo figlio, essendo giovine e trovandosi con fame, si cibò di un poco di mele; onde il padre sapendolo volle che si eseguisse l'ordine dato, e il figlio fosse giustiziato. Il povero figlio, vedendosi già condannato a morte, piangeva dicendo: Gustans gustavi paullulum mellis, et ecce morior1. Ma tutto il popolo essendosi mosso a compassione di Gionata, si interpose col padre e lo liberò dalla morte. Per il povero dannato non vi è né vi sarà mai chi ne abbia compassione, e s'interponga con Dio per liberarlo dalla morte eterna dell'inferno; anzi tutti godranno della sua giusta pena, mentre egli per un breve piacere ha voluto perdere Dio ed il paradiso.Esaù dopo essersi cibato di quella minestra di lenticchie, per la quale avea venduta la sua primogenitura, dice la scrittura, che cruciato dal dolore e dal rimorso della perdita fatta si pose ad urlare: Irrugiit clamore magno2. Oh quali alti ruggiti ed urli darà il dannato pensando che per poche soddisfazioni avvelenate e momentanee ha perduto il regno eterno del paradiso, e ha da vedersi condannato in eterno ad una continua morte!
    Starà il disgraziato nell'inferno continuamente a considerare la causa infelice della sua dannazione. A noi che viviamo su questa terra, la vita passata non sembra che un momento ed un sogno. Oimè al dannato che parranno quei cinquanta o sessanta anni di vita che avrà menati nel mondo, quando si troverà nel fondo dell'eternità, e già saran passati per lui cento e mille milioni d'anni di pena, e vedrà che la sua eternità infelice è da capo e sarà sempre da capo! Ma che, forse quei cinquant'anni saranno stati per lui tutti pieni di piaceri? Forse il peccatore, vivendo in disgrazia di Dio, gode sempre ne' suoi peccati? Quanto durano i gusti del peccato? Durano momenti; e tutt'altro tempo, per chi vive lontano da Dio, è tempo di angustie e di pene. Or che pareranno quei momenti di piacere al povero dannato, quando si troverà già sepolto in quella fossa di fuoco? Quid profuit superbia, aut divitiarum iactantia? Transierunt omnia illa tamquam umbra3. Povero me, dirà egli, io sulla terra son vissuto a mio capriccio, mi ho prese le mie soddisfazioni, ma quelle a che mi han giovato? Elle han durato momenti, e mi han fatta fare una vita inquieta ed amara, ed ora mi tocca di stare ad ardere in questa fornace per sempre disperato ed abbandonato da tutti.

    RIMORSO III. Del gran bene che per sua colpa ha perduto.

    L'infelice principessa Lisabetta regina d'Inghilterra, accecata dalla passione di regnare, disse un giorno: «Mi dia il Signore quarant'anni di regno ed io gli rinunzio il paradiso». Ebbe già la misera questi quarant'anni di regno, ma ora ch'ella sta nell'altro mondo confinata all'inferno, certamente che non si troverà contenta di tal rinunzia fatta. Oh quanto si troverà afflitta, pensando che per quarant'anni di regno terreno, posseduto sempre tra le angustie, traversie e timori, ha perduto il regno eterno del cielo? Plus coelo torquetur, quam gehenna, scrisse s. Pier Grisologo; sono i miseri dannati più tormentati dalla perdita volontariamente da essi fatta del paradiso, che dalle stesse pene dell'inferno.
    La pena somma che fa l'inferno è l'aver perduto Dio, quel sommo bene che fa tutto il paradiso.Scrisse s. Brunone: Addantur tormenta tormentis, et Deo non priventur1. Si contenterebbero i dannati che si accrescessero mille inferni all'inferno che patiscono, e non restassero privi di Dio; ma questo sarà il loro inferno, il vedersi privati di Dio in eterno per loro propria colpa. Dicea s. Teresa che se uno perde per colpa propria anche una bagattella, una moneta, un anello di poco valore, pensando che l'ha perduta per sua trascuraggine molto si affligge e non trova pace: or qual pena sarà quella del dannato, in pensare che ha perduto un bene infinito, qual è Dio, e vedere che l' ha perduto per colpa propria!Vedrà che Iddio lo voleva salvo, ed avea posta in mano di lui l'elezione della vita o della morte eterna, secondo dice l'Ecclesiastico2: Ante hominem vita et mors... quod placuerit ei dabitur illi; sicché vedrà essere stato in mano sua il rendersi, se voleva, eternamente felice; e che egli di sua elezione ha voluto dannarsi. Vedrà nel giorno del giudizio tanti suoi compagni che si sono salvati, ma esso perché non ha voluto finirla, è andato a finirla nell'inferno. Ergo erravimus, dirà rivolto a' suoi compagni infelici dell'inferno, dunque l'abbiamo sbagliata, perdendo per nostra colpa il cielo e Dio; ed al nostro errore non vi è più rimedio. Questa pena gli farà dire: Non est pax ossibus meis a facie peccatorum meorum3. Ella sarà una pena interna intrinsecata nelle ossa, che non gli farà trovar mai riposo in eterno, in vedere che egli stesso è stata la causa della sua ruina; onde non avrà oggetto di maggiore orrore, che se medesimo, provando la pena minacciata dal Signore: Statuam te contra faciem tuam4.Fratello mio, se per lo passato ancora tu sei stato pazzo in voler perdere Dio per un gusto miserabile, non voler seguitare ad esser pazzo; procura di dar presto rimedio, or che puoi rimediare. Trema; chi sa se ora non ti risolvi a mutar vita, Dio ti abbandoni e resti perduto per sempre? Quando il demonio ti tenta ricordati dell'inferno, il pensiero dell'inferno ti libererà dall'inferno: ricordati, dico, dell'inferno, e ricorri a Gesù Cristo, ricorri a Maria ss. per aiuto, ed essi ti libereranno dal peccato che è la porta dell'inferno.

    Note

    1 Apoc. 10. 6.
    2 Ier. 9. 20.
    1 1. Reg. 14. 43.
    2 Gen. 27. 34.
    3 Sap. 5. 8. et 9.
    1 Serm. de iudic. fin.
    2 15. 18.
    3 Ps. 37. 4.
    4 Ps. 9. 11.

 

 
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