Osservazioni lucide quelle di Piero Ostellino, che nel Corriere, da liberale su un giornale che sa essere liberale, argomenta il suo “perché sì” a D’Alema con i fatti e la storia recente, che un qualche peso dovrebbero pure averlo nelle scelte politiche.
Secco e lucido anche Angelo Panebianco nell’argomentare il suo “perché no”. E delle due ragioni che adduce per il suo “no”, una ci convince e l’altra ci convince del contrario. La prima ragione, la più semplice, è che il Quirinale è un luogo dove si deve esercitare una funzione di garanzia, tanto più preziosa in un paese elettoralmente e culturalmente e civilmente diviso a metà, e di questa funzione fa parte il metodo di elezione. Se ti vota una larga maggioranza è un conto, se ti vota la tua parte è un altro conto. Vero. E un giorno si dovrà stabilire a freddo quel che ora è oggetto di contesa calda: perché l’accenno di dialogo istituzionale e politico, avviato subito dopo il voto proprio nelle pagine del Corriere, e proprio da D’Alema e Berlusconi, sia stato strozzato in culla. Da quello strozzamento nasce l’interpretazione rigida del cosiddetto metodo Ciampi, che può portare a una forte, sebbene controllata, polarizzazione nel voto di lunedì prossimo e dei giorni seguenti.
La seconda ragione di Panebianco, complementare alla prima, è che c’è bisogno di politica fuori dalle stanze ovattate della presidenza della Repubblica, nel governo del paese, e siccome D’Alema è un leader che Panebianco dice di stimare, meglio lì a fare l’operativo che sul colle del Quirinale a fare alta rappresentanza e pura mediazione istituzionale.
Qui però casca non l’asino, ma il dotto e caro amico nostro politologo, il migliore ex aequo con Sartori, che però è spesso simpaticamente e sottilmente matto.
Infatti l’Italia non ha bisogno di politica in senso generico, di quella ne ha in abbondanza e forse anche troppa, come le tasse e i regolamenti e le leggi in numero esorbitante, ha piuttosto bisogno di una svolta politica decisiva che ridia alla Repubblica e alle sue regole una piena e condivisa legittimazione.
Il problema da questo punto di vista non è la carriera o il cursus honorum di D’Alema, ma il punto di incontro dei curricula di D’Alema (la Politica) e di Berlusconi (l’Antipolitica).
Ci ripetiamo invano da anni che bisogna cambiare le regole per riprendere a fare politica in modo pieno e rappresentativo e autonomo, per quel che la politica serve (e serve).
E’ vero il contrario: bisogna che nasca una nuova situazione politica generale per poter cambiare le regole in modo serio, efficace, compiuto e sufficientemente rappresentativo. Questo fu il problema della Bicamerale, che i ragazzini scrivono con il Kappa lanciando freccette, e che invece è l’unico precedente di un possibile risultato futuro, il quasi gol che ora potrebbe andare in rete.
Noi dunque siamo per D’Alema nel senso che siamo per un’intesa strategica D’Alema-Berlusconi, in modo che il primo faccia dismettere ai suoi l’illusione di una politica separata dal paese e il secondo faccia dismettere ai suoi l’illusione di un paese vivo e reale separato dalla politica.
Questa si chiamerebbe, a occhio e croce, una seconda e compiuta Repubblica.
Ferrara su il Foglio
saluti