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Discussione: Dopo il no di Ciampi

  1. #31
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    Predefinito Perchè sì, perchè no

    Osservazioni lucide quelle di Piero Ostellino, che nel Corriere, da liberale su un giornale che sa essere liberale, argomenta il suo “perché sì” a D’Alema con i fatti e la storia recente, che un qualche peso dovrebbero pure averlo nelle scelte politiche.
    Secco e lucido anche Angelo Panebianco nell’argomentare il suo “perché no”. E delle due ragioni che adduce per il suo “no”, una ci convince e l’altra ci convince del contrario. La prima ragione, la più semplice, è che il Quirinale è un luogo dove si deve esercitare una funzione di garanzia, tanto più preziosa in un paese elettoralmente e culturalmente e civilmente diviso a metà, e di questa funzione fa parte il metodo di elezione. Se ti vota una larga maggioranza è un conto, se ti vota la tua parte è un altro conto. Vero. E un giorno si dovrà stabilire a freddo quel che ora è oggetto di contesa calda: perché l’accenno di dialogo istituzionale e politico, avviato subito dopo il voto proprio nelle pagine del Corriere, e proprio da D’Alema e Berlusconi, sia stato strozzato in culla. Da quello strozzamento nasce l’interpretazione rigida del cosiddetto metodo Ciampi, che può portare a una forte, sebbene controllata, polarizzazione nel voto di lunedì prossimo e dei giorni seguenti.
    La seconda ragione di Panebianco, complementare alla prima, è che c’è bisogno di politica fuori dalle stanze ovattate della presidenza della Repubblica, nel governo del paese, e siccome D’Alema è un leader che Panebianco dice di stimare, meglio lì a fare l’operativo che sul colle del Quirinale a fare alta rappresentanza e pura mediazione istituzionale.
    Qui però casca non l’asino, ma il dotto e caro amico nostro politologo, il migliore ex aequo con Sartori, che però è spesso simpaticamente e sottilmente matto.
    Infatti l’Italia non ha bisogno di politica in senso generico, di quella ne ha in abbondanza e forse anche troppa, come le tasse e i regolamenti e le leggi in numero esorbitante, ha piuttosto bisogno di una svolta politica decisiva che ridia alla Repubblica e alle sue regole una piena e condivisa legittimazione.
    Il problema da questo punto di vista non è la carriera o il cursus honorum di D’Alema, ma il punto di incontro dei curricula di D’Alema (la Politica) e di Berlusconi (l’Antipolitica).
    Ci ripetiamo invano da anni che bisogna cambiare le regole per riprendere a fare politica in modo pieno e rappresentativo e autonomo, per quel che la politica serve (e serve).
    E’ vero il contrario: bisogna che nasca una nuova situazione politica generale per poter cambiare le regole in modo serio, efficace, compiuto e sufficientemente rappresentativo. Questo fu il problema della Bicamerale, che i ragazzini scrivono con il Kappa lanciando freccette, e che invece è l’unico precedente di un possibile risultato futuro, il quasi gol che ora potrebbe andare in rete.
    Noi dunque siamo per D’Alema nel senso che siamo per un’intesa strategica D’Alema-Berlusconi, in modo che il primo faccia dismettere ai suoi l’illusione di una politica separata dal paese e il secondo faccia dismettere ai suoi l’illusione di un paese vivo e reale separato dalla politica.
    Questa si chiamerebbe, a occhio e croce, una seconda e compiuta Repubblica.

    Ferrara su il Foglio

    saluti

  2. #32
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    Predefinito Scirocco anche d'inverno

    Il metodo è appiccicoso, come lo scirocco, laddove il sistema, cioè il mutamento del sistema, è una brezzolina di primavera che a Roma non arriva mai. Noi l’avevamo detto, come si dice quando si è in angolo, groggy dopo una bella scazzottata al centro del ring, vicini al ko. Un’intesa si fa con il sistema Berlusconi annata 1997, si vota D’Alema presidente (della Bicamerale) contro Fini e Casini, senza paura di dover dare spiegazioni alle folle cieche dei comizi, sapendo che l’elettorato è un’altra cosa dai tifosi, vuole che il suo voto pesi nella politica, e che la politica dia innovazione di sistema, non grigia continuità di metodo.
    Si vota D’Alema e, come allora, ci si impadronisce dello schema di gioco di una intera legislatura, ché se poi le cose vanno bene, bene, se vanno male si provvede, mic c’è una strada sola.
    Ma intanto si sventa la manovra dei giochini e casini fini.
    I quali giochini sono cominciati subito, martedì 11 aprile alle ore 19, Palazzo Chigi, quando il capo di An ha lodato il Cav. per come aveva condotto la campagna elettorale e poi, di fronte alle sue parole in favore dell’unità nazionale, gli ha detto con un sottotesto in cui solo parte delle virgolette sono immaginarie: “Leggi il comunicato ufficiale, non ti allargare, la campagna elettorale è finita, ora la politica la faccio io con Pier”. E sai che spasso, sai che interesse.
    Finisse con Napolitano al Quirinale, un successino diessino condito con le aspettative della multiforme lobby del metodo, i metodisti all’italiana, e grazie per le magnifiche rose, al Cav. torneranno buoni due nostri vecchi consigli del 1994, uno seguito e l’altro no: stringergli la mano alla Camera e mandare lui alla Commissione di Bruxelles invece di Emma, dea della gratitudine che gli ha fatto perdere le elezioni insieme ai suoi alleati maggiori, protagonisti della formidabile battaglia della mezza età. Ma a noi cosa tornerà buono?
    Per anni abbiamo dovuto mostrare platealmente in queste colonne il nostro puntiglioso disinteresse per la politica sciroccosa, e ci siamo edificati con temi effettivamente superiori cercando di educarci a pensare il mondo: erano gli anni delle verifiche, delle rinunce a battere lo stato fiscale, del tran tran mezzo solidarista e mezzo assistenzialista, del giro di valzer per tutti e per nessuno, primo violino Follini e flauto dolce il corrierista Tabacci.
    Si salvò solo un referendum extrapolitico.
    Pare che ci risiamo. Discuteremo del partito democratico e della tessera n°1, del partito dei moderati col trattino e senza trattino, ci toccheranno le carte dei valori e altre divagazioni politiciste senza politica, con un Cav. debole e annoiato come e più di noi.

    Dice: ma un po’ di rispetto, no? Ma sì, rispettiamo tutti, per carità. Un presidente è pur sempre un presidente, anche se sia un residente della politica, un villeggiante della Repubblica che si dimenticò nella sua vita di tante cose: di rispettare i maestri come Giorgio Amendola, di rispettare le immunità parlamentari di fronte all’offensiva paragolpista dei magistrati codini, di rispondere a Craxi che chiamò in causa il suo moralismo post sovietico.
    Un coniglio bianco in campo bianco sullo stemma del Quirinale può bene starci. Peccato per Fassino, che aveva fatto sabato qui una proposta politica, e ora gli tocca dire che bisogna votare Napolitano perché ha un “rispetto sacrale” per le istituzioni.
    Tutta questa cerimoniosità pagana per istituzioni che andrebbero desacralizzate, scosse, cambiate. Invece potremmo rimediare uno scirocco bestiale, afa anche d’inverno.

    Ferrara su il Foglio del 9 maggio

    saluti

  3. #33
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    Predefinito Il fattore C

    C come coraggio

    Giorgio Napolitano ha avuto un privilegio che raramente i comunisti hanno ricevuto da vivi: al congresso di Pesaro Piero Fassino lo definì “un compagno che aveva avuto ragione prima”.
    In questo, nell’aver indicato con un certo anticipo l’esigenza di un’evoluzione del comunismo italiano che rompesse con l’obsoleto involucro ideologico, Napolitano ha il maggior titolo di merito.
    Bisogna però, per obiettività, tener conto che anche in quel “prima” si esprimeva un colossale ritardo. Napolitano, infatti, ha un senso, per così dire “storicistico” dei tempi politici. In un articolo per Repubblica della fine del 1996, riferendosi all’errore che aveva commesso nel condannare la rivoluzione ungherese del 1956, scrisse testualmente dei “giovani dirigenti di quel tempo, come me, che già nel trentesimo anniversario dei ‘fatti d’Ungheria’ hanno riconosciuto pubblicamente le ragioni dei ‘dissenzienti’ di allora”. Insomma un ritardo di trent’anni viene quasi rivendicato come un anticipo, e per la verità rispetto ad altri ex dirigenti comunisti, lo era.
    A parte questo caso macroscopico, si può considerare una costante dell’attività di Giorgio Napolitano una certa discrasia tra i tempi dell’elaborazione e dell’analisi, spesso effettivamente anticipatori, almeno rispetto all’ambiente in cui operava, e quelli della esplicita battaglia politica, quasi sempre ritardati rispetto alle esigenze e anche alle possibilità.
    Il fatto è che la personalità di Napolitano è di quelle che aborriscono gli “strappi”, a differenza di quello che fu per decenni il suo punto di riferimento politico, Giorgio Amendola.
    Napolitano è andato oltre Amendola, che non è mai uscito dall’orizzonte comunista, nell’elaborazione, ma non ha tenuto il passo del suo maestro nella battaglia politica, provocandone anche l’amarezza quando lo lasciò solo a polemizzare con l’imbarbarimento delle lotte sindacali alla fine degli anni Settanta.
    Al contrario, Napolitano, allora responsabile economico del Partito comunista italiano, preferiva intrattenere rapporti con Bruno Trentin, leader dei metalmeccanici della Cgil, alla cui ombra si stava creando un gruppo dirigente, legato a Claudio Sabattini, che avrebbe capeggiato la deriva estremistica dell’ala dura della Cgil. La ragione di questi tentennamenti non sta in una mancata comprensione dei processi politici in corso, ma nella convinzione (o nell’illusione) che solo mantenendo l’unità, anche con le tendenze più lontane dalle sue, avrebbe potuto influire sulle scelte del partito.
    In Napolitano si trova traccia di questa sostanziale fedeltà al metodo del centralismo democratico anche in tempi relativamente recenti.
    Responsabile dell’organizzazione del Pci nella fase che seguì alla scomparsa di Enrico Berlinguer, Napolitano tentò un’estrema difesa di quel meccanismo, ormai superato dall’emergere di posizioni contrapposte anche nella discussione pubblica, in una relazione su questi temi in cui impiegò tutta la sua lucidità e la sua sottigliezza a difesa di una causa persa. Solo alla fine, nei congressi di scioglimento del Pci, si arrese all’evidenza e presentò una mozione “riformista” distinta da quella della maggioranza di Achille Occhetto, il che può apparire assai poco, ma che comunque lo differenzia da altri leader, come Massimo D’Alema, che non scelsero mai di collocarsi in una posizione di minoranza nel dibattito interno.

    La politica internazionale
    Anche nelle scelte di politica internazionale, sulle quali ha espresso la sua elaborazione più originale, ha pesato questa tendenza alla conservazione dell’unità a tutti i costi. Chi legge il libro di Silvio Pons, “Berlinguer e la fine del comunismo”, trova assai coraggiose le affermazioni di Giorgio Napolitano che vi sono riportate. Si tratta però di testi ricavati dai verbali di riunioni interne riservate, il cui tono esplicito contrasta in modo stridente con le posizioni pubbliche, nelle quali solo gli esperti potevano scorgere nelle sfumature qualche timidissima differenziazione. Quando Napolitano lamenta onestamente la difficoltà a trasformare la svolta postcomunista in coscienza diffusa dei militanti, deve tener conto che a essi è stata offerta solo troppo tardi l’immagine di un confronto che, anche per sua scelta, era rimasto chiuso per troppi anni.
    La cautela, in certi casi, non è una virtù. Non lo è stata, nel caso di Napolitano, quella esercitata dall’allora presidente della Camera nei confronti dell’offensiva giustizialista che, anche per la neghittosa reazione di chi doveva difendere l’istituzione rappresentativa, potè esercitare una sorta di ricatto generale sul Parlamento.
    Da Napolitano ci si può aspettare lealtà, correttezza e lucidità. Ma il coraggio, come scrisse Alessandro Manzoni, “uno, se non ce l’ha, non se lo può dare”.

    Da il Foglio

    saluti

  4. #34
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    Predefinito Il metodo prevale sul sistema

    Maggioranza

    Roma. Giorgio Napolitano si intravede appena un momento, sulla porta dell’aula, già presidenziale (e del resto presidenziale è sempre stato), blu il vestito e blu la cravatta, un’occhiata rapida prima di tornare dentro. Non è uomo da struscio e da chiacchiere nel cortile di Montecitorio, quello che oggi diventerà il successore di Ciampi, giusto una battuta di quelle dove non c’è neanche una mezza parola per impiccare un candidato: “Oggi fase interlocutoria”. E se Napolitano è defilato, D’Alema ha voluto invece concedersi una più ciarliera puntata nel Transatlantico, battute e battutine e sorrisini, poi via per un corridoio laterale. L’uomo che doveva essere presidente e quello che sarà presidente hanno un approccio decisamente diverso.
    D’Alema ha combattuto per la sua elezione, Napolitano la sua si limiterà a raccoglierla. E forse più di tutto era istruttiva l’espressione alla buvette di Pasquale Cascella, il giornalista dell’Unità che è stato portavoce tanto dell’uno e tanto dell’altro, e che ieri aveva il cuore diviso e il tifo sospeso. Naviga sulla forza delle cose, Napolitano, e già alle sei del pomeriggio Franco Giordano, il successore di Fausto Bertinotti, mormorava: “Credo che sarà Napolitano”. I sostenitori di D’Alema abbozzano e ironizzano. Come fa Salvatore Buglio, che dai Ds è passato alla Rosa nel pugno, ma al cuore non si comanda, e fa sapere: “Se affondano Massimo, io c’ho la zattera e lo vado a prendere”. E refrattario all’idea della scheda bianca ieri si mostrava Mirello Crisafulli, dalemiano ennese: “Voto D’Alema”. Un compagno: “Ma no, oggi per spirito di partito…”. E lui: “Ecco, a me lo spirito di partito mi porta a D’Alema”.
    E anche la rifondatrice Rina Gagliardi sospirava all’annunciato cambio di compagno al Colle: “Conosco D’Alema da quando venne alla Normale di Pisa, anni Sessanta. Bellino, fatto e rifinito, come adesso, tale e quale, senza il baffino…”. Però, ecco, è il sentimento che parla (e chissà se oggi si vedrà anche un po’ il risentimento).
    Ma la politica avanza, l’intesa si stringe, Napolitano sfugge alla curiosità ma non all’inevitabilità. Già il fatto di non votarlo come candidato di bandiera era stato letto nell’Unione come un chiaro segnale che la faccenda si faceva seria.
    “Una scelta che rafforza Napolitano – ragionava dopo pranzo Oliviero Diliberto, leader del Pdci –perché non lo espone all’incognita del voto segreto”. Ma certo, per ore e ore, il clima è restato ambiguo, con il centrodestra da una parte e il centrosinistra dall’altra vicino a un reciproco incartamento.
    E nel cortile, nel pieno dell’incertezza, a un certo punto si leva un urlo.
    E’ il verde no global Paolo Cento, che punta a un gruppo di compagni diessini: “Sapete che vi dico: aridatece la Dc!”.
    Non che D’Alema non abbia combattuto fino in fondo, ma ha scelto la pena di un secondo ritiro in pochi giorni per evitare di essere buttato fuori strada dalle cose.
    “Adesso, pure se vuole il papato glielo devono dare!”, mormorava minaccioso un sostenitore. E un autorevolissimo dirigente, mentre già la candidatura di Napolitano cominciava a diventare una certezza, scuoteva la testa: “No, no, bisogna eleggere Massimo, sennò resta a intorbidire tutto. Senza contare che farebbe il presidente in una maniera egregia”. I sostenitori del senatore a vita spiegavano i passaggi successivi, “dalla candidatura istituzionale a quella a maggioranza”, e a quel punto chissà, nel Transatlantico c’erano pure i diessini che invitavano a “guardare se ci saranno preferenze, e quante, per Massimo, perché i giochi possono riaprirsi”. Ma la china era già stata presa. Il sorriso e le chiacchiere dalemiane, subito dopo pranzo, erano in realtà il suo elegante (e pubblico) abbandono del sogno del Quirinale. Le dichiarazioni cominciavano a diventare meno evasive, più nette.
    C’era il rutelliano Paolo Gentiloni: “Quella di Napolitano è una candidatura su cui insistere, non effimera. Visti gli avvenimenti di queste ore, mi sembra anche che possa raccogliere un ampio consenso”.
    Ecco Leoluca Orlando: “Napolitano è oggi il migliore candidato, per requisiti politici e istituzionali, per la carica di presidente della Repubblica”.
    Così è lo stesso D’Alema che, nel tardo pomeriggio, taglia corto ogni illazione, genere: sì, perché alla quarta votazione, con la maggioranza, Napolitano esce di scena e… “Chi dice queste cose sono persone con scarsa esperienza politica e faranno una brutta figura”. E poi: “Giorgio Napolitano è entrato cardinale e credo uscirà Papa”.
    Adesso è il turno di Piero Fassino, che definisce quella di Napolitano “una candidatura a cui è difficile dire di no” e “noi siamo pronti a votarlo non appena ci saranno le condizioni per eleggerlo”. E siccome si è fatta l’ora del tigì, tocca a quello di Mediaset, il Tg5, l’annuncio (semi) ufficiale: “Quirinale, domani Napolitano presidente”.
    E’ andata così. Adesso tutti a dire che D’Alema quello che vuole avrà, ma quello che voleva (e per ben due volte) non ha avuto. Almeno a Linda Giuva, nel segreto dell’urna, un voto è arrivato.
    Di buono c’è che l’elezione di oggi metterà fine alla ressa a Montecitorio. Resta il rimpianto di un deputato calabrese non rieletto. Fissa le belle ed eleganti parlamentari e si duole facendo il verso al personaggio di Antonio Albanese:
    “Cazzu, non sto più qui proprio adesso che cchiù pilu pe’ tutti è arrivato per davvero”.

    Opposizione
    Roma. Il testacoda del centrodestra su Giorgio Napolitano, cui alla fine il Cav. s’è piegato nel tardo pomeriggio di ieri, è la vittoria del metodo sul sistema. Il metodo si chiama “Ciampi” ma in verità è il travestimento contemporaneo della figura di garanzia per un futuro potere neocentrista. O giù di lì. Il sistema poteva essere la soluzione di uno scontro integerrimo tra i due Poli, foss’anche a colpi di schede bianche e candidati di bandiera per i primi tre giri di voto, fino al trionfo del realismo della politica sulle tentazioni dei casini e giochini fini per accerchiare Berlusconi e – complice Rutelli –liberarsi pure di una proposta politica incarnata da D’Alema.
    Ieri lo scontro di culture nella Casa delle libertà sembrava racchiuso nel traffico di due differenti linee telefoniche. Quella di Silvio Berlusconi e quella di Pier Ferdinando Casini.
    Il Cav. di prima mattina concertava con l’alleato leghista un modo per solidificare il troppo fluido centrodestra. Esortava a stabilire un nome di bandiera per dare forma al conflitto con il centrosinistra: noi di qua per Gianni Letta; loro di là, a domare sospetti antidalemiani di retrovia (nemmeno troppo acquartierati, visto che il loro capo è Rutelli). Noi e gli altri – sempre secondo il Cav. e Bossi – accomunati dalla necessità di separarci nel voto sapendo che la salute del sistema politico esige di considerare D’Alema come la soluzione migliore sebbene non detta.
    L’altra linea partiva dall’ufficio di Casini e toccava gli apparecchi di Gianfranco Fini e dei suoi. Uno di loro ha ricevuto poco dopo l’alba lo squillo dell’ex presidente della Camera: “Ma come, davvero non votate per Napolitano?”. Perché gli udc tessevano ragnatele per piazzare subito al Quirinale il senza sangue Giorgio Napolitano; oppure per aprire la via a un tecnico come Giuliano Amato o Mario Monti, sempre in omaggio al “metodo Ciampi”. L’obiettivo degli ex dc è guardare lontano e trovare un Parlamento ancora diviso a metà, in cui Romano Prodi abbia liberato Palazzo Chigi dopo un transito fulmineo e scombinato, e il nuovo capo dello stato, al suo posto, abbia richiamato dalle brume dell’euroburocrazia qualche civil servant benedetto dalla provvidenza e non dalla politica. Siccome il metodo, come diceva Lucio Colletti, è anche la scienza dei nullatenenti, Fini ci è cascato da subito. Abbagliato dall’idea spiccia di regolare così i conti della successione nel centrodestra. Ma fare dal primo giorno il grande elettore di Napolitano, questo no. Da qui è nata la temporanea conversione alla candidatura di Gianni Letta: “Alla prima va così, poi vediamo”, dicevano un po’ tutti. Infatti.
    Quando in mattinata il leghista Roberto Maroni aveva detto: “O c’è un candidato della Cdl, o non c’è più la Cdl”, pareva che l’asse politico del centrodestra si fosse organizzato. La candidatura di Letta, non precisamente uno che piace a Bossi, era il mezzo per prevenire “certe manovrine”, sostenevano i bossiani. Del resto bastava leggere la Padania di domenica e di ieri per intuire che il quotidiano leghista sta dosando i propri colpi contro i poteri forti e centristi lasciando sempre D’Alema pressoché illeso nell’ombra. Perché, anche se non lo si può dire, il presidente dei Ds sarebbe stato la migliore garanzia per l’asse del nord.
    Al momento di sistemarsi in aula per l’appello, prima di votare Gianni Letta, alcuni finiani azzardavano dubbi sulla tenuta della candidatura di Napolitano, sembrava ancora possibile che il Cav. imponesse Letta pure al secondo giro”.
    Un’imposizione della Realpolitik berlusconiana, avrebbero scritto i giornali. Invece no, come da pronostico di uno che se ne intende come Clemente Mastella: “Domani parte della maggioranza voterà per Napolitano”. Perché gli amanti del “metodo” non demordono.
    Fosse stato per Casini e Rutelli (assistito da Ciriaco De Mita), non sarebbe rimasta inesplorata neppure una via stretta stretta come quella del colpo di coda quirinalizio a favore di Franco Marini, con un Napolitano redivivo che gli subentri alla presidenza di Palazzo Madama. Ma non ci sarà bisogno, perché l’arte di sbrindellare due schieramenti prima di chiudere le tre votazioni a maggioranza qualificata aveva già fruttato.
    Il fatto che l’Unione avesse scelto la soluzione della scheda bianca ha consentito a Fini di non esporsi, parlare di stallo, farsi descrivere in privato come “insofferente alla disciplina berlusconiana e pronto a convergere su Napolitano”, mentre annunciava al pubblico che tanto ormai “tutti trattano con tutti”.
    Nel frattempo Casini negoziava con il legato prodiano Ricki Levi l’imminente rompete le righe a beneficio di Napolitano (l’interessato inorgogliva al punto di far trapelare che non avrebbe voluto ritirarsi nemmeno dopo il terzo scrutinio).
    Marco Follini e Bruno Tabacci hanno guidato l’avanguardia udc verso i lidi di Napolitano fin dal primo scrutinio.
    Il Cav. ha preso atto e, dopo un giro di colloqui con leader dei partiti della Cdl, ha cominciato a diffondere in via ufficiosa l’intenzione di votare, oggi, per Giorgio Napolitano. Se non alla seconda votazione, per la quale appare più probabile che l’opposizione opti per la scheda bianca, alla terza che si terrà nel pomeriggio.
    Il leghista Roberto Calderoli, non rassegnato, ha insistito finché possibile: “Non c’è alcun accordo nel centrodestra”.

    Da il Foglio del 9 maggio

    saluti

  5. #35
    RenzoAudisio
    Ospite

    Predefinito

    Citazione Originariamente Scritto da mustang
    _______________________________

    Mi hai "spaventato" accennando allo schema bidimensionale del Diagramma di Nolan...e non ho capito dove avrei dimostrato mancanza del senso di ironia e di autoironia; si parlava della possibilità di candidare la signora Fallaci al Quirinale.
    Se vogliamo parlare di "strategia" - argomento che si può trattare bene solo avendo perfetta conoscenza della propria situazione e di quella del nemico da affrontare - io candiderei il premier dimissionario Silvio Berlusconi a capo dello Stato. Con l'intenzione ferma di nominarlo tale.
    Fra due anni, forse meno, l'Italia dovrà affrontare nuove elezioni politiche e la coalizione di centro-destra le vincerà.
    A questo punto, nuova legislatura nuova Costituzione, quella modificata dal governo Berlusconi e a grande maggioranza accettata dal popolo nel prossimo referendum.
    Ed ecco che avremo, più o meno, un Capo di Stato che avrà il suo Governo.
    Berlusconi al Quirinale e D'Alema a palazzo Chigi.

    Fantapolitica?

    saluti
    Perchè ti dovrebbe spaventare il diagramma di Nolan?
    Mi pare un sistema molto più adeguato a descrivere le tendenze politiche, rispetto al sistema "destra-sinistra" (che non rappresenta nulla).
    Ormai che i giochi sono fatti mi pare inutile continuare a disquisire sulle strategie più opportune della casa delle libertà.
    Napolitano c'è da detestarlo per mille motivi (per me come e più di ogni altro politicante e statista), ma non sarà poi una iattura per la CDL (se vai a vedere lo avevo anche auspicato come candidato) anzi... tutto starà nel non difficile compito di imbalsamarlo nella sua carica istituzionale.

    P.S. Sulla tua previsione referendaria ci andrei cauto... non mi pare che ci sia molta volontà in merito. Naturalmente tutto ciò lo dico da spettatore esterno ed obiettivo, infatti io come libertario mi defilo da tutta questa merdumine politica statal-nazionalista, io non voglio nè Presidenti nè Governi e farei un sol fuoco di tutti i Palazzi (specie quelli romani ;-) ).

  6. #36
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    Citazione Originariamente Scritto da RenzoAudisio
    Perchè ti dovrebbe spaventare il diagramma di Nolan?
    Mi pare un sistema molto più adeguato a descrivere le tendenze politiche, rispetto al sistema "destra-sinistra" (che non rappresenta nulla).
    Ormai che i giochi sono fatti mi pare inutile continuare a disquisire sulle strategie più opportune della casa delle libertà.
    Napolitano c'è da detestarlo per mille motivi (per me come e più di ogni altro politicante e statista), ma non sarà poi una iattura per la CDL (se vai a vedere lo avevo anche auspicato come candidato) anzi... tutto starà nel non difficile compito di imbalsamarlo nella sua carica istituzionale.

    P.S. Sulla tua previsione referendaria ci andrei cauto... non mi pare che ci sia molta volontà in merito. Naturalmente tutto ciò lo dico da spettatore esterno ed obiettivo, infatti io come libertario mi defilo da tutta questa merdumine politica statal-nazionalista, io non voglio nè Presidenti nè Governi e farei un sol fuoco di tutti i Palazzi (specie quelli romani ;-) ).
    --------------------------------------
    Appunto! Politici imbalsamati = dirigenti statali "protagonisti".
    I sessantanni passati con due forze politiche egemoni, Democrazia cristiana e Partito comunista italiano, hanno "imbalsamato" i cervelli e i caratteri dei nostri politici: fuori da quei due "esistevi" solo con il loro permesso, parlavi solo se a favore dell'uno e contro l'altro, a secondo della Regione nella quale vivevi e di come fossero le relazioni fra USA e URSS.
    Con la garanzia che solo i dc potevano governare la nazione mentre gli altri si "arricchivano" pappandosi Comuni e Regioni, fino a spezzare in due la penisola.
    Il tentativo di poter combattere e ridimensionare i poteri "forti e invisibili, nati per mancanza di presenza politica decisa a governare direttamente e non delegando altri poteri che poi soffocano chiunque tenti di rivelare il "mostro della burocrazia", incontra grandi ostacoli proprio dai partiti che di quel mostro sono diventati e servitori.
    Ecco che Prodi, Casini, Fini, gli ex dc che stanno da entrambe le parti e i comunisti che si trovano solo dall'altra parte, hanno preferito bruciare D'Alema perchè evidentemente hanno ben annusato la sua pericolosità e eletto il tipico burocrate di partito.
    Ed ecco perchè Berlusconi e molti dei suoi, tra i quali parecchi socialisti, tifavano D'Alema.
    Ed ecco perchè il burocrate di stato Prodi si è rifiutato di presentare una lista di personaggi "votabili" anche dall'opposizione.
    In quella lista sarebbe entrato di forza anche D'Alema. Come avrebbe potuto dimenticare il presidente del più forte partito dell'Unione?
    E Berlusconi lo avrebbe votato.

    saluti

 

 
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    Di Gi.bu nel forum Il Termometro Politico
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