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Discussione: Sud Africa

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    Palermo. Non rinnegare. Non restaurare. AL FIANCO DEGLI STATI UNITI E DELLO STATO DI ISRAELE DIFENDIAMO L'OCCIDENTE LIBERO E CRISTIANO DALLE BARBARIE DEL TERRORISMO ISLAMICO. NO EURABIA, MAI ISLAM !
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    Sud Africa. Più liberi di noi La lezione delle identità

    Lorenzo Busi, da il Federalismo 3/4/2006

    In effetti la semplificazione della realtà sudafricana in bianchi e neri è un’interpretazione occidentale che non coincide col fatto che nella storia di questo Paese si siano da sempre sviluppate sintonie trasversali. Il boero, (misto di olandese arcaico, francese, boscimano e termini bantu), è parlato orgogliosamente anche da persone di colore...
    Errico Malatesta, nell’illustrare a Lev Tolstoj le motivazioni che avevano portato Gaetano Bresci all’atto dimostrativo di Monza, paragonava l’indignazione per la morte di un re all’indifferenza per i numerosi genocidi della storia, citando come esempi la repressione di Washington contro i filippini, del Sultano verso gli armeni, e della Corona britannica nei confronti dei boeri.
    Sud-est asiatico, Caucaso e Sud-Africa: tre realtà che sono entrate tristemente nella cronaca degli ultimi decenni; in particolar modo quest’ultimo, sia per le tragedie legate alla segregazione razziale, sia per le scosse di assestamento del dopo-apartheid. Gli afrikaneers, (che in queste righe chiamerò “boeri”, termine per le nostre orecchie innocuo, ma dispregiativamente coniato dagli inglesi), sono un cocktail di diversi gruppi etno-religiosi; la loro componente principale è senza dubbio quella degli olandesi fuggiti in seguito a scontri interni al movimento della riforma, ma ad essi si è aggiunto un intenso flusso di ugonotti francesi, tedeschi, scozzesi, e altre minoranze fra cui valdesi. I boeri dell’interno si son in parte anche mescolati con i simpatici boscimani, anche se fino a qualche anno fa la cosa veniva tenuta nascosta; i boscimani sono il popolo più antico del Paese, come i pellerossa per gli Usa, sono gli unici che possano dirsi sudafricani al 100%. Attualmente sono ridotti ad abitare il deserto del Kalahari, ma fino a qualche secolo fa, prima dell’arrivo degli olandesi da sud, poi delle diverse popolazioni bantu dall’Africa centrale, insieme a gruppi etnici affini eran gli unici abitanti della parte meridionale del continente. Il Sudafrica è il “paese arcobaleno”, come lo ha definito il suo stesso “padre nobile”, l’insorgente Nelson Rolihlahla Mandela, figura romantica di prigioniero politico che ha saputo raccogliere le simpatie di persone di provenienza differente. Tale aspetto si può constatare dalla bandiera post-apartheid della Repubblica, che sulla foggia di quella del movimento anti-colonialista mozambicano, unisce non casualmente i colori della tradizione europea (blu, bianco, rosso) a quelli pan-africani (oro, nero, verde) in quello che è uno dei più affascinanti vessilli ideati degli ultimi decenni. Allo stesso modo è curioso notare l’estrema somiglianza fra la foggia di questa bandiera e quella della boera Repubblica del Transvaal, soppressa nel sangue dall’esercito di Sua Maestà nel 1902, e la prima ad adottare come nome quello di Zuid-Afrikaansche Republiek.
    Possiamo dire che l’indipendentismo - sia all’espansionismo portoghese, che britannico - siano il leit motiv di un vessillo dai potenti contenuti identitari e sociali. È commovente per chiunque abbia sviluppato una sensibilità pluralista e autonomista, incontrare di continuo, sui monumenti commemorativi come nei luoghi pubblici più umili, motti e spiegazioni nelle ben 11 lingue ufficiali del Paese. A queste si devono aggiungere un numero di oltre 40 altri idiomi meno diffusi, cui il civile Sudafrica riconosce particolari condizioni di tutela. Anche sul piano territoriale il Paese varia enormemente da un capo all’altro; se nel centro storico di Johannesburg prevalgono edifici spartani ed eleganti che ricordano da vicino la vecchia Amsterdam - con un patrimonio storico peraltro messo in discussione da discutibili piani regolatori che coinvolgono da vicino le città più belle del Paese - a Kaapstad pare di essere capitati nella New Orleans di Louis Armstrong, con case di legno a un piano, musicisti di strada che uniscono il folk boero delle campagne ai ritmi blacks, e una cucina afro-franco-olandese che ricorda quella cajun della Louisiana. Fra una città e l’altra si ammirano spazi immensi, dove sopravvivono stili di vita tanto antichi quanto saggi. Il dolce inno nazionale è un altro simbolo di questa coesione: parla di libertà, non di schiavitù, come altri. È composto da strofe nei cinque più diffusi idiomi nazionali (inglese, afrikaans, sesotho, xhosa, zulu), alcune tratte dal canto metodista Nkosi Sekelel’ iAfrika, altre dal marziale Die Stem van Suid-Afrika - simbolo del passato regime - in segno di riconciliazione. Un po’ ovunque prevale il blu, colore di rappresentanza che rende eleganti le divise da lavoro dei responsabili dei centri convegno, come delle scuole medie, indossate da ragazzini di tutti i gruppi etnici che giocano assieme a pallone nei parchi, al termine di quelle lezioni così (comprensibilmente) poco amate in tutte le parti del globo. I primi profughi olandesi giunti nel XVI secolo, di fronte all’avanzata inglese, furono costretti a partire dal 1835 a effettuare i “trek”, migrazioni in massa verso l’interno, vivendo a lungo in condizioni di nomadismo, in seguito a cui nacquero gli Stati del Natal dell’Orange e del Transvaal, che videro riconosciuta la loro indipendenza da Londra. Dopo il 1884 si giunge a un nuovo scontro fra le due repubbliche e la Gran Bretagna, a causa della scoperta dei giacimenti auriferi del Transvaal e di quelli diamantiferi del Griqualand.
    La guerra anglo-boera, scoppiata nel 1899 in seguito alla politica espansionistica del cinico Primo ministro della Colonia del Capo Cecil Rhodes, si conclude dopo tre anni di epica resistenza con l’annessione all’Impero dell’Orange e del Transvaal; in questo contesto i boeri subiranno l’internamento in massa nei famigerati campi di concentramento dell’esercito, in cui gran parte di loro troverà un’orrenda morte per fame, malattie e sevizie della soldataglia (sorte analoga a quella subita poco dopo dagli armeni). Nel 1909, con un voto del Parlamento inglese, la colonia si trasforma nell’Unione Sudafricana, federazione autonoma nell’ambito del Commonwealth, in cui rimarrà fino al 1961. Da un lato le responsabilità boere nell’apartheid sono indubbie, tuttavia si tende a trascurare il ruolo britannico - a partire dall’ideologia razzista e classista del Rhodes - nel conservarsi di questa concezione.
    Il Sud-Africa vive una sfida contro gli estremismi, di tutti i colori e le appartenenze etno-linguistiche. Se infatti sono ormai estinti i già corpuscolari gruppi bianchi che negli ultimi anni Novanta si erano resi famosi con l’esposizione di simboli nazisteggianti, fino al compimento di attentati contro strutture governative, sembra prendere corpo una sorta di razzismo di colore, con slogan impressionanti come «una pallottola per ogni boero», gridati proprio dalla militanza di formazioni politiche verso cui talvolta sembra esserci una sorta di tolleranza ideologica.
    In realtà la società civile sudafricana nel suo complesso è stanca di conflitti, vuole metter nell’angolo i fanatici di tutte le risme, e cerca una normalità che concilii appartenenza alla “tribù di nascita” (inglese, zulu, ndebele, xhosa, boera) e alla comune famiglia arcobaleno. Le persone di colore non amano che gli si rivolgano domande sul passato, e mostrano un senso di fastidio nel vedere che il loro Paese all’estero è ancora identificato con la stagione dei bus divisi per “razza” e non con le notevoli potenzialità che può e sta sviluppando. La comunità boera ad esempio, isolati i duri del gruppo paramilitare Awb del bizzarro Terre’Blanche, si è affidata in gran parte al pragmatico Vryheidsfront (Afrikaans Freedom Front) di Pieter Mulder, che nel 1994 ha siglato il celebre accordo con Mandela «sull’autodeterminazione afrikaner».
    Identificare i boeri come «geneticamente di estrema destra» è sciocco, oserei dire razzista, non meno cialtrone di chi ritenga i germanofoni come una moltitudine di cripto-nazisti. Ne è un esempio il moderato Front, come il progressista “Gruppo dei 63”, associazione nata in ambito universitario per promuovere la lingua e la cultura popolare boera. L’afrikaner medio anzi, non ama essere ridotto alla categoria di “bianco”, e quasi si offende a sentirsi chiamare “europeo”: ti fanno pacatamente notare che il popolamento olandese del continente è precedente a quello inglese delle Americhe. Non a caso se rivendichino di chiamarsi afrikaneers, così come americans gli abitanti del New England. In effetti la semplificazione della realtà sudafricana in bianchi e neri è un’interpretazione occidentale che non coincide col fatto che nella storia di questo Paese si siano da sempre sviluppate sintonie trasversali, ad esempio fra inglesi e xhosa o tensioni e violenze “interrazziali”, fra boeri e inglesi, e swazi e xhosa.
    In questa guerra fra estremismi anche la religione è stata coinvolta, con da una parte coloro che continuano a sostenere la vecchia teoria portata avanti fino a non molti anni fa dalla Chiesa Riformata d’Olanda, sulla predestinazione dei bianchi alla gestione delle cose terrene, dall’altro teorie non meno bislacche che vorrebbero nelle persone di colore una sorta di razza eletta dal Signore. La stragrande maggioranza dei sudafricani grazie a Dio (è il caso di dirlo) non si lascia sedurre da queste sirene, e per le strade del Paese si possono visitare i luoghi di culto delle più svariate confessioni, giunti in periodi diversi. Oggi nelle chiese olandesi si può assistere a toccanti incontri di preghiera cui partecipano fedeli con i tratti somatici più disparati, vicino a chiese dei più curiosi stili architettonici e riti, a piccole e graziose moschee ottocentesche, o a sinagoghe della numerosa comunità ebraica. Un po’ ovunque, soprattutto allontanandosi dalle aree metropolitane, si respira una spiritualità animista di sapore caraibico, più o meno ibridata a elementi di Cristianesimo. I boeri hanno un forte legame con la comunità di agricoltori tedeschi della confinante Namibia (fino al 1990 protettorato sudafricano col nome di Africa del Sud-Ovest), che compongono assieme ai locali afrikaneers oltre il 10% della popolazione, e hanno costruito un discreto rapporto con i concittadini di colore, al contrario di quanto fatto dai latifondisti inglesi nell’ex-Rhodesia di Ian Smith (oggi Zimbabwe).
    Bisogna poi segnalare lo svilupparsi, parallelamente al movimento cultural-identitario “Black Consciousness”, che mira a sviluppare nuovi rapporti fra le popolazioni di colore del Sudafrica e quelle del resto del continente, si va diffondendo il “Pan-nederlandismo”, che propone la tessitura di una rete di amicizia fra boeri, olandesi, fiamminghi di Belgio e Francia. Inutile sottolineare come entrambi questi fenomeni siano ben usati in ambito accademico e democratico per valorizzare le differenze interne al Paese e favorirne i contatti col resto del pianeta, ma allo stesso modo possano subire una strumentalizzazione a sfondo razzista in ambienti estremisti di diverse tendenze. L’identitarismo è in sè una delle più alte manifestazioni di democrazia, ma sull’onda dell’emotività può degenerare con facilità verso forme estreme di etno-esclusivismo, dove la legittima difesa dell’identità di un popolo viene soppiantata da progetti di supremazia infondati sul piano storico e pseudo-identitari.
    A danneggiare non poco la causa autonomista boera è stato negli ultimi anni il tentativo da parte di vasti settori dell’estrema destra americana ed europea, di farne una propria bandiera, cosa già tentata negli anni passati con le cause indipendentiste dell’Ulster e del Libano. In questo senso possiamo dire che l’identitarismo boero sia sempre più simile a quello basco di Batasuna o bavarese dei cristiano-sociali, che al malinteso afrikaansismo segregazionista di un tempo. Per le strade di Tshwane (nome popolare fra i boeri per indicare la città di Pretoria), Bloemfontein, e Kaapstad (le tre capitali del pluralista Sud-Africa), si discute molto e appassionatamente di politica, ma senza mai trascendere in manifestazioni di intolleranza. Ogni forza movimentista dispone di un certo numero di spazi per la propaganda elettorale, e nessuno si permette di strappare i manifesti di altri gruppi, o impestare i muri con fogliacci abusivi. I partiti traducono gli stessi slogan a seconda del quartiere o della realtà in cui sono esposti; e così l’Anc o Da espongono i loro obbiettivi in boero nelle strade vecchie delle città, in francese nei quartieri più poveri, abitati in gran parte da migranti dall’Africa centrale, e in inglese un po’ ovunque.
    I sudafricani sono gente mite, riflessiva, disponibile a dar passaggi a uno straniero e farsi in quattro per fornire un’indicazione. Ne è un esempio la Commissione per la verità e la riconciliazione, con cui si è cercato di far luce sui segreti incoffessabili dell’apartheid, per non dimenticarne le vittime, ma senza rinfocolare vecchi odi e far esplodere nuovi rancori. Il Sudafrica dal 1948 al 1994 ha come noto vissuto la politica dell’apartheid, resa più dura nel 1951 con la costituzione dei Bantustan, chiamati anche homelands (patrie), territori destinati ai diversi gruppi bantu, che così erano separati sia dalle comunità bianche al potere, sia tra loro, a seconda delle lingue. Persino chi - come il sottoscritto - non è un gran patito delle uniformi, apprezza i modi disponibili e rispettosi dei poliziotti sudafricani, sia dei reparti cittadini (prevalentemente di colore), che si rivolgono all’utente con l’appellativo di Sir, sia della gendarmeria (in gran parte boera), che coi suoi cani anti-droga è meno complimentosa, non per questo scortese. I boeri sono africani a tutti gli effetti, e il loro colore “tribale”, l’arancione dell’Olanda seicentesca e delle Repubbliche nate dalle lotte di liberazione contro la genocida colonizzazione britannica, è lo stesso dei tramonti dell’altopiano e predominante nella fiorente pittura nera. Lo stesso nome del Paese è una loro “invenzione”, e l’African National Congress ha sempre avuto e ha fra i suoi militanti numerosi afrikaneers. Prende forma il fenomeno curioso di “Orania”, esperimento collettivista, ispirata all’utopia egalitaria, anti-militarista e densa di poesia del kibbutzismo dei primi del 1900. In un primo momento questo insieme di fattorie raccolte in un fazzoletto semi-desertico nel nord-ovest del Paese, (nell’alto Karoo, provincia del Capo Settentrionale) è stato inteso dai media stranieri come una sorta di auto-segregazione. In realtà anche da parte della nuova élite politica di colore, si inizia a pensare che esperimenti come quello di “Orania”, che dovrebbe portare alla espansione territoriale di una realtà che alla sua nascita contava solo 200 ettari (2 chilometri quadrati) verso la nascita di un Afrikaneerstan come componente autonoma dello stato. Altre comunità iniziano a pensare a iniziative simili, come nel caso degli Zulu raccolti attorno all’Inkatha Freedom Party, che sognano la nascita di un’entità simile; tale convergenza di vedute ha portato alla collaborazione fra il Vryheidsfront e l’Ifp, tanto che alcuni parlano di ”asse boero-zulu” in vista di una federalizzazione radicale del Paese. Pare che questa affinità fra i primi, tutti Bibbia-fucile-aratro, e i secondi, considerati i “prussiani” fra i popoli di colore, sia elettiva e non solo tattica. Proprio negli ultimi tempi si è indicato nella ex-Jugoslavia, (che pur essendo una realtà notevolmente autoritaria si dimostrava estremamente attenta a garantire forme di autogoverno locale e riconoscimento culturale, dai tedeschi della Voivodjna ai rom del Kosovo), un possibile modello per un Sudafrica, che nonostante lo smembramento nel 1994 delle sue quattro province in realtà più intime, non sembra ancora aver soddisfatto la necessità di istituzionalizzazione delle sue splendide differenze. Nella gente è palpabile, soprattutto fra le persone di colore che a Mandela devono molto, una certa diffidenza per l’Anc, accusato da molti di essersi imborghesito con la conquista del potere, e aver perso le sue originarie caratteristiche di movimento anti-sistema (in sostanza l’accusa che altrove è stata rivolta a storiche formazioni con un passato di gloriose lotte sociali, come l’indiano Congress Party, Solidarnosc, o i nostri Psi e Pri). Per le strade del Paese i manifesti della Democratic Alliance gridano nelle varie lingue contro quello che definiscono «il razzismo dell’Anc», cioè l’accusa di privilegiare propri simpatizzanti nell’assegnazione dei posti pubblici. Indubbiamente lo stesso Mandela pare essersi negli ultimi tempi distanziato dalla vita di partito e ritirato nella sua tenuta di Johannesburg, secondo alcuni proprio per dissensi con la linea politica dell’Anc, secondo altri per motivi di salute. Anche l’altro grande schieramento sudafricano, il Partito nazionale, passato dall’essere propugantore della più rigida segregazione a politiche riformiste che hanno portato col governo De Klerk all’abolizione di queste leggi, attraversa una crisi profonda.
    Parallelamente si fanno strada formazioni giovani come il Green Party, gli Indipendent Democrats, o il Minority Front, rappresentativo della popolazione originaria dell’India. È ormai consolidata l’idea, anche fra coloro che hanno combattuto con forza contro l’apartheid e per questo pagato, che la cultura afrikaner, ovviamente epurata da quelle connotazioni suprematiste che ormai sono parte del passato, sia una risorsa per l’intero Paese, e che un Sudafrica dove l’inglese divenga unica lingua di comunicazione - come vorrebbero i sostenitori più massimalisti di un’Africa americanizzata e priva di legami sentimentali con l’Europa, sarebbe molto meno arcobaleno. Il boero, (misto di olandese arcaico, francese, boscimano e termini bantu), è parlato orgogliosamente anche da persone di colore, che talvolta fingono di non conoscere nemmeno una parola dell’idioma di Wilde e Keruac, lasciando spiazzato chi come me si barcameni con un inglese da seconda elementare. Ebbene sì, verso Londra è vivo un sottile risentimento molto “irish”, forse perché un po’ tutti i popoli sudafricani hanno visto colpite, in tempi relativamente recenti, le proprie famiglie dall’imperialismo dell’Union Jack. Ma anche perché è ancora vivo il ricordo di Margaret Thatcher, nota oltre che per essere simpatizzante dei governi golpisti mezza Latinoamerica, nonché responsabile morale della morte di Bobby Sands, anche per aver liquidato Nelson Mandela come “terrorista”, ai tempi della sua detenzione, in linea con la linea atlantista dell’epoca che voleva nel militarismo bianco un baluardo anti-comunista. E proprio il figlio della Lady di Ferro, il baronetto Mark, è stato recentemente ammesso davanti all’Alta Corte di Kaapstad con l’accusa di aver addestrato un giro di mercenari per l’organizzazione di un colpo di Stato nella Guinea Equatoriale. Un’altra etnia che viene guardata con un’ingiusta circospezione dagli africani “doc” (boeri o xhosa che siano) sono gli indiani, che assieme agli inglesi vengono percepiti come “lascito” della presenza britannica; nei centri commerciali brillano i costosissimi e raffinati atelier gestiti da questa comunità, apprezzata anche per attività artigianali economicamente più alla portata di noi comuni mortali. Londra aveva eletto gli indiani a formare una sorta di “borghesia imperiale”, un po’ quanto fatto dai francesi con i maroniti, tanto che nella fascia che si estende da Kaapstad a Nairobi vivono tutt’ora svariati milioni di loro, spesso perseguitati da forme di razzismo a opera di dittatori di colore, che in quanto a metodi han poco da invidiare a quelli dell’apartheid.
    La presenza indiana è di grande importanza per il Paese, sul piano culturale, commerciale, storico; il più famoso esponente di questo tassello del mosaico arcobaleno è stato Mohandas Karamchand Gandhi, che ha iniziato la sua carriera di rivoluzionario pacifico proprio con le prime proteste anti-segregazione, subito dopo gli studi di giurisprudenza in Inghilterra. Non sono mancati, negli anni del razzismo di Stato, attentati da parte delle frange impazzite del movimento di liberazione contro civili bianchi, asiatici, o appartenenti a gruppi etnici di colore accusati di connivenza col governo. Seguendo l’esempio della razionale battaglia anti-apartheid condotta da intellettuali-militanti di grande moralità come l’arcivescovo Desmond Tutu o un altro Nobel per la Pace del calibro di Albert Luthuli, non può che essere condannato qualsiasi atto di violenza indiscriminata contro inermi ed innocenti, così come gli amici delle lotte indipendentiste e chi creda nella comune civiltà dell’uomo ha sempre preso le distanze senza se da rappresaglie come quella di Omagh e Beslan, o dalle bombe abbandonate nei bistrot della Algeri degli anni Cinquanta e nella Tel Aviv di oggi.
    Quello che si percepisce per il “South Africa on the road” è invece una forte solidarietà di tutti con tutti, e una composizione sempre più multi-etnica delle classi: ai semafori puoi vedere un venditore ambulante boero guadagnarsi la giornata vendendo accendini con un collega zulu, nei cantieri gli operai boeri si spaccano la schiena con altri di etnia xhosa, negli uffici adiacenti alle baraccopoli i disoccupati boeri ritirano il sussidio in fila con i compagni di sventura di lingua pedi. E tutti fanno finta di non parlare l’inglese, percepita come l’idioma dei tecnocrati e dei finanzieri dei quartieri più lussuosi che conservano il passaporto sudafricano ma chiedono quello britannico, si proclamano iperprogressisti ma nell’intimo disprezzano boeri e bantu di varia origine.
    Sull’altro fronte si nota come nelle aree business class dei voli interni si nota ormai una netta prevalenza di persone di colore, come peraltro è statisticamente giusto che sia. Questo senso di spaesamento davanti al rischio di una proletarizzazione del Paese sul modello brasiliano, è presente nella cinematografia sudafricana, nota per la sua pacata e fine ironia, diffusa in lingua italiana dalla Tsi. Un certo successo a livello internazionale ha avuto il recente Max and Mona, film sulla falsariga dei Blues Brothers ambientato nella Soweto dei giorni nostri, in cui un accattivante gruppo di picari bianchi, meticci, e neri si coalizza per sopravvivere a un mondo che anche dopo il ’94 continua a essere difficile, e che tende a calpestare le specificità individuali e comunitarie. Un altro elemento che colpisce del Sudafrica è un modo molto nord-europeo e sportivo di concepire la formalità: è normale vedere ministri vestiti di semplici ma al tempo stesso elegantissime camice colorate nello stile africano, curioso per chi è abituato a un perbenismo fatto di abiti pomposamente scuri e scarpe superlucidate. Un altro elemento che ti fa sentire un incivile, è la grande serietà con cui i sudafricani concepiscono la viabilità; l’uso del clacson è molto raro, e le macchine son solite rallentare molti metri prima di una zebratura. Le comunicazioni sono poi rese possibili a prezzi politici e su vasta scala spaziale anche grazie ad un diffuso servizio di furgoncini-taxi collettivi.
    Il Sudafrica, nonostante sia innegabile l’esistenza di tensioni a sfondo etnico, rappresenta un modello di “Africa dei popoli”, che può insegnare molto a chi creda ad un’Europa delle valli ribelli, delle lingue minoritarie e delle identità negate, come a quegli Stati centralisti che in fatto di rispetto delle differenze e liberalità hanno molto da imparare dal Paese arcobaleno. In un’ottica di difesa delle minoranze si colloca la Federazione Zabalaza coordinata da Lucien van der Walt, erede dell’anarchismo sudafricano dei primi decenni del Novecento: fa un certo effetto incontrare conoscitori dell’opera di Fabrizio De André in pieno Transvaal. I cittadini di questa nazione, qualsiasi origine abbiano, hanno capito che la vera minaccia proviene da quell’integralismo globalista che ci vorrebbe tutti omologati a un’unico modello, senza quelle specificità di cui la madrepatria di Mandela e della lingua afrikaner è simbolo. È preoccupante il diffondersi in modo uniforme sul territorio dello Stato di bande malavitose, che negli ultimi decenni avevano limitato la propria influenza ai settori più interni dei Bantustan, così come l’esplosione di fenomeni epidemici di Aids.
    Lo stesso Nelson Mandela ha recentemente confessato di aver perso il figlio Makgatho per questa malattia, e ha emanato nel 1997 il Medical Act, una legge che permetteva al Governo del Sud Africa di importare e produrre medicinali per la cura dell’Aids a prezzi sostenibili, subendo un mobbing diplomatico durato un paio di anni su pressione delle multinazionali del farmaco. Sarebbe quindi sbagliato pensare a un Paese privo di problemi, contrasti, conflitti profondi, come si potrebbe esser portati a pensare dall’allegria contagiosa di questa gente. Tuttavia quel che si può constatare nella fatalistica gentilezza dei sudafricani, è la convinzione di vivere una realtà profondamente identitaria e al tempo stesso aperta al mondo, dove l’artigianato tradizionale dei mercatini convive a poche decine di metri da palazzi modernissimi, o i raggi del sole tropicale si fondono con i venti freddi dell’Antartide, e stili di un’Europa rurale ormai estinti nel nostro continente convivono con l’Africa profonda. Una Terra di Mezzo, per parafrasare Tolkien, natio del Libero Stato dell’Orange.

  2. #2
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  3. #3
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    La verità è che quando ci stava l'aparteid si stava meglio, c'era l'ordine, lo sviluppo, come hanno preso il potere gli zulu' è andato tutto a pu*



    Sempre con il popolo boero

  4. #4
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    Giacché si parla di Sudafrica, riporto up il thread di uno dei migliori forumisti della storia di Pol, sperando che il leggendario DiDestra torni tra di noi per allietarci con le sue riflessioni.

 

 

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