Non mi sono mai posto il problema dell’innocenza di Cesare Previti, perché il suo non era e non è, come il mio e come molti altri, un mestiere innocente.
I miei dubbi li ho esposti per tempo e con lealtà su un giornale, questo, che è politicamente amico di Previti e del suo storico committente, Silvio Berlusconi. Avevo scritto che stavolta il processo ci stava, bisognava affrontarlo e vincerlo, se possibile, che non bastava dire un “no” politico.
Ne è passato del tempo da allora. E se il processo fosse stato giusto, mi terrei i miei dubbi generici e a Previti che va in carcere esprimerei la solidarietà di un uomo a un altro uomo, e pazienza per i famosi miti giacobini. E’ andata altrimenti: il processo è stato lungo, cavilloso, tortuoso ma ingiusto. Bisogna protestare.
Giuseppe D’Avanzo, su Repubblica, dunque su un giornale il cui editore ha un
diretto interesse processuale in questa vicenda per via del lodo Mondadori, un interesse sistematicamente occultato ai lettori, moraleggia su una sentenza
finale che secondo lui ripristina l’eguaglianza di fronte alla legge dei potenti e
dei senza potere.
Metterla così ti fa sentire onesto.
Ma la mia personale onestà, sulla quale non sono io a decidere bensì l’opinione di chi legge, di fronte a questo modo di mettere le cose muore di freddo.
Il trattamento riservato a Previti non va paragonato con quello tragico riservato a chi abbia rubato un melone.
Va confrontato con il trattamento riservato ad altri potenti, che tutti conosciamo e che anche D’Avanzo conosce.
Potenti che se la sono cavata egregiamente di fronte ad accuse simili, anzi spesso identiche, perché non si sono esposti, non ne avevano bisogno, avevano chi sui giornali, nelle conventicole, nell’establishment dei poteri cosiddetti neutri o forti si esponeva per loro, e troncava e sopiva e copriva per loro quel che c’era da troncare, sopire e coprire.
E’ un elenco sterminato, e dovesse proseguire il linciaggio del mostro, sono pronto a riscriverlo, questo elenco pubblico di coloro che hanno evitato gogna e carcere solo perché sono veri potenti o potenti veri.
Non è una promessa, è una minaccia.
Siamo stati appena assolti in un processo per diffamazione intentatoci dalla teste d’accusa del processo Previti, che avevamo criticato per la sua inattendibilità con il garbo e la fermezza di chi non voleva fare ostruzione alla giustizia, ma all’ingiustizia.
Eppure da lì si riparte.
L’accusa fu costruita in modo sospetto, in termini di procedura giudiziaria.
Il fumus c’era, ma presto il fumo della persecuzione militante, della
devastazione a cannonate di un bersaglio politico, che era insieme Previti e Berlusconi e la magistratura moderata del porto delle nebbie, ha coperto ogni altro fumo di reato, e ha soprattutto diradato come per incanto le nebbie giallognole che sostavano sul capo dei pm d’assalto milanesi, capaci di trasformare la giustizia in arma politica e la politica in mero episodio secondario
del giustizialismo al potere.
Pessimi anche la gestione del lungo dibattimento e il dispositivo finale della sentenza in Cassazione.
Con la scusa che Previti si difendeva dal processo, ciò che è legittimo e legale quando un imputato non creda nell’imparzialità di chi giudica e nella lealtà di chi investiga, il sistema della giustizia ingiusta si è anch’esso difeso
dal giusto processo e dai diritti della difesa, e ha sistematicamente negato le garanzie giuridiche fondamentali fino alla fine, fino al diniego di un rinvio per consentire un decisivo verdetto della Corte costituzionale, atteso tra venti giorni, su un conflitto tra poteri dello stato.
Il fatto che l’imputato sia un parlamentare e si avvalga delle prerogative di
parlamentare per tutelarsi non influisce sul nostro giudizio. Anzi, in questi casi bisogna avere l’occhio ancora più fino, perché un parlamentare è un tizio presunto potente eletto dai tizi senza potere per rappresentarli, e altri potenti meno presunti hanno interesse a scardinarlo dalla posizione che
occupa, se lui o il suo capo siano considerati ingombranti.
E non facciamo le timorate, non ci iscriviamo al club degli onesti che ragionano
come Repubblica, perché il colpo a Cesare Previti è stato inferto sulla scia di
altri e numerosi colpi di giustizia politicizzata che hanno avuto di mira tutti i passaggi fondamentali della battaglia politico- elettorale in Italia.
L’inchiesta cominciò simbolicamente prima della prima vittoria dell’Ulivo, che favorì sfacciatamente nel 1996, e il percorso termina altrettanto simbolicamente subito dopo la seconda vittoria dell’Ulivo, dieci anni dopo. La traiettoria della mostrificazione giudiziaria di Cesare Previti è stata impregnata di odio culturale e di demagogia incivile, e quando odio e demagogia entrano
nei tribunali sotto la luce delle telecamere e delle cronache compiacenti non
c’è più giustizia, c’è cattiva politica e insulto alla libertà.

Ferrara sul suo il Foglio del 6 maggio

saluti