Pena di morte: riflessioni cattoliche
Marco Massignan
07/05/2006
Molti cattolici affrontano certe tematiche con la tipica superficialità laica ed illuministica,e nel recepire così i quadri interpretativi da altre culture, dimenticano di «leggere» i tempi in cui vivono assumendo come postulati essenziali la fede e la tradizione.
Prendiamo il caso della pena di morte: non pochi credenti la giudicano contraria allo spirito cristiano e in disaccordo con il Vangelo, non accorgendosi così di sconfessare non solo la Scrittura stessa, ma anche il magistero bimillenario della Chiesa.
Pio XII, in un'allocuzione del 14 settembre 1952, ribadendo una dottrina e una prassi plurisecolare, ebbe a dire: «è riservato al pubblico potere privare il condannato del bene della vita, in espiazione del suo fallo, dopo che col suo crimine, si è spogliato del diritto alla vita».
Sarà bene chiarire fin da subito il senso di tali affermazioni, approfondendo la questione - sempre da una prospettiva squisitamente religiosa - prima che qualche benpensante cominci a stracciarsi le vesti.
A tal proposito, vorrei citare il filosofo luganese Romano Amerio che in «Iota unum» scrive: «l'opposizione alla pena capitale deriva oggi spesso dal concetto dell'inviolabilità della persona in quanto soggetto protagonista della vita mondana, prendendosi l'esistenza morale come un fine in sé che non può essere tolto senza violare il destino dell'uomo. Ma questo modo di rigettare la pena di morte, benché si guardi da molti come religioso, è in realtà irreligioso. Dimentica, infatti, che per la religione la vita non ha ragione di fine ma di mezzo al fine morale della vitache trapassa tutto l'ordine dei subordinati valori mondani. (...) Perciò togliere la vita non equivale punto togliere all'uomo il fine trascendente per cui è nato e che ne costituisce la dignità. Nel rifiuto della pena di morte vi è un sofisma implicito: che cioè l'uomo, e in concreto lo Stato, abbia il potere, uccidendo il delinquente, di troncargli il destino, di sottrargli il fine ultimo, di toglierli
la possibilità di adempiere il suo officio d'uomo. È vero il contrario. (...) Al condannato a morte si può troncare l'esistenza terrena, non però togliergli il suo fine. Sono le società che negano la vita futura e pongono come meta il diritto alla felicità nel mondo di qua che devono rifuggire dalla pena di morte come da un'ingiustizia che spegne nell'uomo la facoltà di felicitarsi».
Riflessioni, come si può ben vedere, alquanto «politicamente scorrette», certo scomodissime e lontane dal sentire di oggi.
Ma, nella prospettiva cattolica, proprio la pena di morte può essere un modo per il reo, accettandola, di redimersi e guadagnare la vita eterna.
Difatti, la morte comminata da uomini a uomini non può pregiudicare né il destino morale né la dignità umana: essa, anzi, ha un valore espiatorio.
Scrive san Tommaso d'Aquino: «la morte inflitta come pena dovuta per i delitti, leva tutta la pena dovuta per i delitti nell'altra vita. La morte naturale, invece, non la leva».
Come il celebre proverbio ricordava: di cento impiccati, uno dannato.
La pena capitale - nonostante la propaganda abolizionista, nonostante la grancassa sfondata dell'orchestrina pietista - è stata parte integrante della civiltà giuridica europea (lo stesso Cesare Beccaria non ne ha mai chiesto l'abolizione: si veda il capitolo XXVII di «Dei delitti e delle pene»), e l'anima profonda del nostro popolo sa bene che essa può,
in alcuni casi «deve», essere la punizione adeguata per certi reati, o particolarmente odiosi e brutali, o tali da mettere in pericolo l'ordine sociale.
Riprendendo così l'idea biblica (e paolina) della società non come aggregato di individui ma come corpo, come organismo vivente che ha dunque il diritto di troncare da sé le membra che giudica infette, si riafferma il supremo valore della convivenza umana negato dall'atto criminale, e si ristabilisce l'ordine naturale violato.
Come ricorda Gianfranco Miglio: «un Paese in cui vige la vera civiltà del diritto deve ammettere la possibilità di togliere la vita a chi commette reati oltre una certa gravità».
Resta in sospeso una domanda: è da respingere con indignazione anche solo la prospettiva di dibattere una questione che mass-media ed intellettuali giudicano talmente incivile e anacronistica da non meritare alcuna attenzione?
Marco Massignan