L’utopia del figlio progettato

Quella cocciuta e ricorrente idea di modificare artificialmente l’umanità, e le ideologie che se ne sono occupate fino ai giorni nostri. Eugenetica, perfezionamento della razza: un tempo – quello del nazismo e del comunismo – erano questioni di Stato. Oggi invece accade che due lesbiche sorde ottengano di farsi concepire un figlio sordo in nome dell’“identità culturale”. Vien bene per riflettere su che cosa siano, oggi, i diritti soggettivi. E dove si situi la “normalità”

di Emilio Mordini

Il Domenicale 6-05-2006

Il secolo appena trascorso è stato, tra le molte altre cose, anche il secolo dell’“eugenetica”. Ben prima della follia nazionalsocialista, gran parte dell’Europa e diversi Stati dell’Unione nordamericana furono attraversati dalla mostruosa illusione di poter modificare positivamente la salute dei propri cittadini con misure di selezione genetica. Prima delle leggi razziali volute dal nazismo, e accettate da vari regimi fascisti europei, già la California, la Svezia, la Norvegia, la Danimarca avevano votato e applicato leggi in cui si prevedeva la sterilizzazione obbligatoria di malati mentali e di altre persone “geneticamente tarate” (alcolisti, criminali abituali, ecc). Queste leggi rimasero in vigore, in alcuni casi, sino agli anni Settanta del secolo scorso.
Tuttavia è indubbio che il termine “eugenetica” evoca soprattutto il fantasma nazista. Il nazismo fu, infatti, un’ideologia fondata sull’illusione biologica. L’eugenetica non fu un epifenomeno, ma, al contrario, la logica conseguenza delle premesse filosofiche della politica nazista.

Tutto questo è risaputo. Ciò che forse si conosce di meno è che non fu la politica nazista a generare simili mostri, ma che furono le mostruosità della medicina a partorire, in qualche modo, anche il nazismo. In realtà l’idea che un intervento di ingegneria sociale potesse risolvere la piaga di malattie di interesse pubblico è precedente al nazismo ed è propria della scuola di sanità pubblica tedesca che inizia con Rudolf Wirchow (1821-1902). Dagli inizi del Novecento, e sino agli anni Trenta, sono numerosissimi i cattedratici delle università tedesche che propugnarono interventi di selezione genetica in grado di migliorare la “razza”, eliminando degenerazioni e malattie. L’idea del programma di uccisione sistematica di malati di mente, ritardati, pazienti inguaribili e disabili (il cosiddetto programma di “eutanasia”) è precedente al regime nazista. Il nazismo avrà solamente il “vanto” di applicarla e di estenderla a categorie razziali come ebrei e zingari. Adolf Eichmann, nel corso del suo celebre processo, si riferirà sempre al programma di sterminio come a «una faccenda medica» e, in effetti, i responsabili delle camere a gas furono, inizialmente, tutti medici.
La rivoluzione genetica che ha attraversato le nostre società nel corso dell’ultimo decennio ha sollevato la paura di un ripresentarsi di questi antichi fantasmi. Si tratta di una paura immotivata, se presa in un senso letterale; tuttavia, in un senso più ampio, rappresenta bene alcune reali fonti di preoccupazione.

Dallo Stato ai privati.

Indubbiamente l’attenzione posta dalla società contemporanea alle cause genetiche della biologia umana può ricordare l’ubriacatura genetica dell’inizio del secolo scorso.
Il Novecento è stato attraversato da due feroci ideologie deterministiche, basate cioè sulla convinzione che la conoscenza di alcune leggi biologiche e sociali potesse permettere di modificare l’essere umano e le società umane a proprio piacimento. Il comunismo era convinto che le leggi dell’economia fossero in grado di spiegare ogni comportamento umano e che, intervenendo a livello economico, si potessero cambiare radicalmente le società. Il nazismo fu invece sicuro che la biologia fosse alla base delle società umane e che cambiando il pool genico di una società, attraverso interventi di selezione non diversi da quelli di un allevatore di animali, si potesse rapidamente cambiare una cultura umana.

In entrambi i casi la fantasia perversa fu quella di ottenere una rapida modificazione dell’umanità, come se, conoscendo alcune chiavi scientifiche, fosse semplice indirizzare la storia e lo sviluppo del genere umano. Ovviamente, come sempre accade in questi casi, l’unico risultato fu un moltiplicarsi di atrocità e insensatezze. Il sogno paranoico di pochi divenne la scusa per l’opportunismo e la sete di potere di molti. Il programma nazista di “purificazione razziale” divenne anche lo strumento con cui professori universitari si impossessarono di cattedre immeritate, banchieri fecero fortune e oscuri funzionari di partito guadagnarono benemerenze.
Sia il nazismo sia il comunismo avevano come teatro l’intera società e ritenevano che l’attore in grado di intervenire su di essa fosse lo Stato. In modo più attenuato, le derive eugenetiche delle società democratiche percorsero lo stesso itinerario. Furono soprattutto le correnti socialdemocratiche a propugnare politiche eugenetiche. A ciò concorsero vari fattori: la fiducia nella scienza, intesa come fattore di sviluppo da contrapporre alla religione; la fiducia nello Stato, contrapposto all’iniziativa privata e al libero mercato; la fiducia nel progresso dell’umanità, considerato un portato inevitabile dell’iniziativa umana e del libero pensiero.

Nulla di simile si può presumere che stia accadendo ora. Anzi, proprio la perdita di fiducia nello Stato, nella scienza e nel progresso sono i marchi contraddistintivi dell’epoca cosiddetta “postmoderna”.
La civiltà contemporanea è caratterizzata da una diffusa diffidenza verso tutte le forme di potere centralizzato. Il cittadino postmoderno è un cittadino cosmopolita dalle multiple appartenenze. Sensibile alle spinte localistiche e tuttavia inserito in numerosi network globali, la decentralizzazione è il suo carattere distintivo. Anche la fiducia nella scienza e nel progresso non sono più una sua caratteristica. L’incontro con culture diverse e diverse identità etniche e sociali lo ha portato a un pragmatismo, se non teorico, almeno dei fatti. Il relativismo culturale – quando non apertamente teorizzato – è comunque divenuto la cifra che permette di spiegare tanti fenomeni del nostro mondo. L’idea di tolleranza, propria dell’Occidente, aveva già in sé il germe del relativismo, che riusciva a contrastare, però, distinguendo tra sfera pubblica e sfera privata, tra legge e moralità. La fine di questa distinzione, che era stato un caposaldo della cultura liberale (fine che è un’altra delle caratteristiche precipue della postmodernità) ha segnato anche la fine della tolleranza: la nostra società è nel contempo una società relativistica – in cui ogni valore è considerato espressione di una particolare costellazione sociale senza che sia mai possibile stabilire una gerarchia – e intollerante al massimo grado, basti pensare alle nuove forme di fondamentalismo etnico e religioso. Del resto la tolleranza non può che fondarsi su un’assiologia: l’impossibilità di un metro che permetta di distinguere tra diversi valori in gioco porta inevitabilmente alla violenza, alla forza, come unico strumento per risolvere i conflitti che fatalmente si creano.

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Frutto non della tolleranza ma del relativismo culturale è anche la nuova eugenetica. Non eugenetica di Stato, con ambiziosi obiettivi sociali, ma eugenetica privata, con scopi limitati, ristretti al desiderio di una coppia, o di un single, di poter aver il bambino che egli o ella vuole: un’eugenetica, insomma, figlia più del “pensiero debole”, della cultura minimalista ed ecologista, del politically correct, che delle feroci ideologie del passato. Così come il cittadino cosmopolita delle società postmoderne sceglie il proprio cibo o lo stile del proprio arredamento nell’ambito di un’offerta multietnica e multiculturale, ugualmente egli è già, e sarà sempre di più, in grado di progettare a proprio piacimento il proprio figlio.
Un bell’esempio di cosa s’intenda per “designer baby” viene dagli Stati Uniti, dove due anni fa una coppia di donne omosessuali e affette da una forma genetica di sordità ha appositamente “procreato” – attraverso la selezione del seme di un donatore affetto dalla stessa patologia – un figlio sordo. La coppia ha difeso questa scelta in nome dell’“identità culturale” dei sordi. Le due donne hanno dichiarato che non cercheranno in alcun modo di trattare la sordità del figlio con protesi acustiche, e che lasceranno a lui, raggiunta la maggiore età, la decisione se curarsi o meno. Come si vede, lo schema una volta applicato solo alle scelte religiose – i genitori che non battezzano il bimbo lasciando a lui la decisione al raggiungimento della maggiore età – è ora applicato in ogni circostanza. Il paradosso di questa finta libertà è che essa, come è evidente, coincide col massimo della coercizione. Infatti coercizione non è solo obbligare qualcuno, ma anche porlo in condizioni tali per cui le sue scelte saranno obbligate, senza far fronte alle responsabilità che il proprio ruolo imporrebbe.

Il caso della coppia omosessuale appena citato è esemplificativo proprio nel suo essere eccessivo. Casi molto più banali – perché il male è quasi sempre banale – sono sotto gli occhi di tutti. Quando in tutti, o quasi, i Paesi occidentali la legge consente l’interruzione volontaria di gravidanza in caso di sindrome di Down, un’aberrazione cromosomica non solo compatibile con la vita ma compatibile con una vita felice – a patto che vi sia una capacità di accoglienza – è evidente che il principio accettato socialmente è quello che una coppia di genitori ha il diritto di scegliere il figlio che più gli aggrada e di sopprimere quello che non corrisponde alle sue aspettative. Certo, il dolore e il tormento della coppia che decide di abortire il figlio “mongoloide” si presume sia superiore a quello di chi sceglie di sopprimere un feto perché di sesso non voluto (la selezione sessuale a scapito delle femmine è praticata tuttora in Cina e in altri paesi asiatici), o perché portatore di caratteri non graditi.
Ma il principio è sempre lo stesso. Accettato questo principio, non c’è più possibilità di fermare il piano inclinato. Infatti, una volta che la scienza ce ne dia la possibilità, per quale ragione non sarebbe lecito selezionare quelle caratteristiche che si ritengono positive in un figlio, piuttosto che solamente sopprimere le negative? Se la coppia omosessuale americana appena citata ha fatto scandalo è soltanto perché la caratteristica selezionata è ritenuta positiva dalla coppia ma è ritenuta negativa dalla maggioranza del pubblico. Sarebbe stato uguale scandalo se il feto fosse stato selezionato in base all’intelligenza? Da anni esiste in California una banca dello sperma selezionata per l’intelligenza dei donatori, e quanto a indignazione nessuno è mai andato oltre qualche sorriso scettico.

Gli argomenti proposti nel dibattito bioetico, proprio a partire dal caso della coppia di donne sorde e dalla loro scelta procreativa, sono stati vari. Fondamentalmente si sono confrontate due posizioni. L’una sostiene che, una volta accettato il diritto dei genitori a “plasmare” i propri figli – diritto accettato nel momento in cui si accetta l’idea stessa di genitorialità – non vi sia possibilità di negare il diritto anche a scegliere caratteristiche che i genitori ritengono positive. In altre parole, se si accetta che un padre e una madre abbiano il diritto di far studiare il pianoforte al proprio figlio – se essi ritengono che sia per il bene del figlio –, allora bisogna accettare che essi procreino appositamente un figlio sordo, se ritengono che la sordità sia un carattere positivo.
La seconda posizione distingue tra caratteri patologici e caratteri normali. Mentre sarebbe un diritto dei genitori cercare di influenzare i caratteri normali, essi non avrebbero il diritto di imporre sul figlio il peso di un carattere patologico. Questa posizione, che sembra di buon senso e che probabilmente ognuno di noi di primo acchito sosterrebbe, è però di una debolezza logica assoluta. Infatti il problema è proprio quello della definizione di cosa sia patologico e cosa normale: è evidente che il concetto di “normalità” di una coppia di lesbiche sorde newyorkesi non coincide con quello di mia zia di novant’anni che vive in un’isoletta del Mediterraneo.

Quello di cui non ci si rende conto è che il problema non sono la sordità o gli occhi azzurri, l’intelligenza o il ritardo mentale, l’altezza o la bellezza, ma il concetto che vi è alla base: cioè l’idea che i genitori possano scegliere il figlio a proprio piacimento. È un falso ragionamento equiparare la scelta del figlio all’educazione: è vero che i genitori cercano di plasmare il figlio tramite l’educazione, ma questo è un processo di una tale imperfezione e aleatorietà da lasciare ampi spazi di libertà alla “vittima”.
La distinzione, cioè, non dev’essere tra patologico e normale ma tra gradi di libertà: esistono alcuni interventi sul figlio che, pur cercando di influenzarlo, gli permettono di reagire e di rifiutare l’influenza; altri interventi, invece, hanno una tale forza da impedire ogni reazione. Così come la legge proibisce i maltrattamenti – anche praticati a fin di bene da legittimi genitori – sarebbe logico che la legge impedisse ogni intervento – a qualsiasi fine praticato – sul genoma del nascituro quando non fosse in gioco la vita stessa. È evidente, infatti, che soltanto il rischio di perdere il bene che fonda tutti gli altri, cioè l’essere vivo, giustifica una modificazione di un altro essere vivente così radicale a cui egli non può in alcun modo opporsi.

Playing God.

Il sogno del “designer baby”, del bambino progettato, è quindi molto lontano dalle fantasie eugenetiche di stampo nazista, e anzi sembra essere il frutto di ideologie opposte. In un senso, però, può essere avvicinato alla mostruosità del nazismo: in entrambi i casi la fantasia che vi sottostà è quella di mettersi in grado d’esercitare un potere assoluto su altri esseri umani. In inglese c’è un’espressione che ricorre spesso quando si parla di questi temi: “playing God”. Si tratta di un’espressione particolarmente felice perché significa sia recitare il ruolo di Dio, sia fingere di essere Dio. Proprio in quest’ambiguità si cela il senso della questione.
La società occidentale – nelle sue due radici, greco-romana ed ebraico-cristiana – si è fondata sul mito del confronto tra uomo e Dio. L’uomo è la più alta delle creature, la più divina, ma non è Dio. Nella Genesi si vede bene questa tensione. Da un lato Dio crea l’uomo a sua immagine e somiglianza, dall’altra il tentatore fa cadere l’uomo proprio promettendogli di diventare “simile a Dio”. È chiaro che queste due promesse sono radicalmente diverse.
Anche la cultura greca, una cultura superba della propria “umanità” – basti pensare alle splendide statue di kouroi arcaici, nudi di fronte al dio – si è interrogata sull’idea di limite; e la hubris, la perdita di consapevolezza della propria finitudine umana, è la principale bestemmia di cui si può macchiare l’uomo greco.


Agostino chiamerà il demonio simia Dei, colui che scimmiotta Dio, la caricatura di Dio. In questo senso ogni tentativo di modificare violentemente il mondo – in base a un principio di potenza assoluto – è di per sé diabolico, proprio perché diventa solamente una parodia, una scimmiottatura della potenza creatrice. Difficile tracciare il confine tra scienza e magia, perché se la magia è sempre un tentativo di esercitare un potere simil-divino, la scienza sembra a volte prendere lo stesso indirizzo. Quello che dovrebbe contraddistinguere sempre la scienza è il comprendere, cioè non solo il saper fare ma anche il saper vedere. La vera scienza non cancella la consapevolezza del mistero, del fatto che sono infinitamente più le cose che ignoriamo, più le cose che sfuggono al nostro controllo, che quelle che la nostra povera capacità ci permette di afferrare e di modificare.
L’accecamento diabolico è quello che fa perdere questa consapevolezza. Pensare di poter plasmare un altro essere umano a proprio piacimento – sia il delirio di un sistema di potere, come i totalitarismi del secolo passato, o sia il privato delirio di un genitore o di una coppia – è sempre una forma di accecamento che non può che condurre a disastri, pubblici e privati. I totalitarismi hanno prodotto i gulag e i lager; ancora non sappiamo cosa produrranno i “designer baby” ma non c’è certo da ben sperare.