Nella storia esiste un modello di sviluppo etico e sociale della comunità che, in relazione ad una valutazione del rapporto fra l’uomo e la terra e soprattutto se incardinato in una prospettiva di formazione della coscienza identitaria europea, occupa uno spazio cruciale.

La Spagna che si costituisce dopo circa otto secoli di dinamiche conflittuali contro la presenza islamica nella penisola iberica è il modello che ci siamo proposti di analizzare.



Bisogna preliminarmente fare un po’ di chiarezza nei concetti da taluni vengono incongruamente impiegati. Ho avuto spesso modo di sentire che la nazione spagnola sarebbe il frutto di una felice oltre che feconda contaminazione di elementi islamici e componenti cristiano-visigote, che dunque essa sarebbe espressione di multistrutturalità etnica e culturale, così caratteristica di terre di confine. Ebbene, non è proprio così. Anzi, probabilmente, è precisamente il contrario. La presenza islamica su suolo iberico esprime una vocazione tutta peculiare al mondo arabo primitivo; essa storicamente si configura come un progetto di inserimento dell’Impero, il Califfato, più universale che nazionale, in un contesto geografico il più esteso possibile. Gli arabi di Spagna proveranno a costituirsi come entità statuale autonoma soltanto molto tardi, quando i contatti con Bagdad risulteranno ormai quasi estinti, e soltanto con l’introduzione in essa dei residui della dinastia detronizzata degli Omayadi. Al contrario, essi concepiranno sé stessi e le propri istituzioni come settore organicamente funzionale ad un Impero multirazziale, esteso dall’Indo ai Pirenei. Non è nelle loro intenzioni fondarsi come Nazione, come, appunto, Spagna. E questo è invece quanto prende corpo, progressivamente, negli otto secoli di avanzamento cristiano, che in genere la storiografia indica con il termine di “Riconquista”. La Riconquista è il prodotto di uno sforzo bellico e diplomatico progettato ed eseguito dalle popolazioni latine e germaniche del nord e dell’est della Penisola. A nord, nella fascia cantabrica-asturiana e navarrina, è condotto da gruppi di origine germanica, di ascendenza gotica, organizzati intorno ai resti dell’antico Regno Goto, ossia il Regno di Leon e quello di Navarra. In questa sezione regionale fioriscono le più nobili e prische elaborazioni mitiche della crociata antiislmica: lo testimonia il culto di Santi ascetico-militari come San Giacomo e una lunghissima tradizione di insurrezionalismo cattolico-nazionalista (autodeterminismo basco, “volundad de Imperio” altocastigliano, carlismo navarro). L’elemento germanico è determinante in questo contesti, basti pensare alla diffusione di nome comuni come “Rodrigo” derivanti dal tedesco arcaico “Rurik”. Nell’est, invece, il fronte di resistenza all’invasione araba è iniziativa di una popolazione infeudata all’Impero carolingio, la cosiddetta Marca Hispanica, in cui il gruppo dirigente è di origine franca, ma che si avvale di una dinamica popolazione ampiamente romanizzata, quelli che saranno poi i catalani. Infatti, qui sorge il primo nucleo del futuro Regno d’Aragona. In tempi lunghi e spesso perigliosi le due sezioni della cristianità spagnola riescono a convergere in un disegno d’azione condiviso. Una data emblematica è il 1216, anno della celebre battaglia di Tolosa: lo sforzo congiunto di casigliani e aragonesi è premiato da una splendida vittoria sulle armate more e da questo momento, possiamo ben dirlo, emerge nitidamente la considerazione di appartenere ad un come Destino, ispanico e cattolico, nazionale e religioso. Prende forma il principio della Hispanidad. L’unione dinastica del 1468 fra le due Corone non è affatto meramente congiunturale e neppure inedito: Ferdinando ed Isabella sono esponenti di una medesima famiglia barcellonese, i Trastamara, e soprattutto esprimono l’ennesimo tentativo, andato stavolta a buon fine, di realizzare l’unità ispanica e antiislamica più volte intrapresa.



Il quadro così delineato è significativo. La Nazione spagnola è pensata e realizzata in opposizione e inversamente al modello di insediamento moresco nella penisola. L’osservazione risponde al vero, poi, soprattutto se impiegata come criterio di lettura della politica di esclusione sistematica degli elementi mori all’indomani dell’Unione. E’ noto a tutti, infatti, la linea seguita dai governi absburgici spagnoli nel Cinque-seicento: espulsione delle comunità islamiche dal territorio spagnolo a più riprese, anche a costo della provocazione di gravi dissesti finanziari e anche a costo di generare lacerazioni incresciose del tessuto sociale (nelle Alpujarras, avamposto Andaluso ad intensa componente islamica, la guerra civile è praticamente un fatto endemico per tutto il Cinquecento). Meno nota, forse, è la vera e propria politica razziale che la Monarchia Absburgo ha tenacemente condotto nei propri stati ispanici per ben due secoli. Mi riferisco all’istituzionalizzazione ufficiale di un sentimento già capillarmente diffuso nella Hispanidad preunitaria: il principio dell’appartenenza genealogica alla civiltà indo-europea. Questo metro di valutazione degli individui, nel Medioevo rivendicato orgogliosamente dagli spagnoli, otterrà nell’età moderna sanzione giuridica, inquadrandosi in relative leggi note con la definizione di “limpieza de sangre”. Il cuore della normativa riposa nel divieto di accesso a cariche pubbliche e religiose ad individui non in grado di dimostrare un’appartenenza alla fede cattolica da almeno sette generazioni. In una società tradizionale, che non conosce ancora i vasti processi di secolarizzazione che conducono l’essere umano a interpretare il fatto religioso come procedura strettamente privata e causata da motivazioni assolutamente personali, è chiaro che la definizione dell’appartenenza di Fede dei propri avi corrisponde quasi perfettamente ad una dichiarazione d’appartenenza etnica. Del resto, che si trattasse di politica eminentemente razziale è evidente fin dal nome degli statuti che la regolamentavano, in cui il “sangre” rappresenta il criterio della fede religiosa. La volontà della Monarchia di rendere omogenea la Nazione nasce, in fin dei conti, proprio dalla problematicità offerta dalla condizione geopolitica di confinaria. L’essere situati al confine diventa dunque non già un laboratorio di ibridazioni, ma un occasione propizia da cui ripartire per misurare e delimitare. Il principio della “limpieza”, comunque, si rivolse anche al fine di neutralizzare la cospicua presenza del mondo finanziario ebraico nelle elite spagnole: questi intrattenendo proficui rapporti di scambio con i ribelli olandesi, si pongono spesso fuori dai disegni di ri-cattolicizzazione d’Europa di cui la Corona si è accollata la responsabilità. L’intenso zelo ispanico per una probità etnica e religiosa condurrà la Castiglia ad imprese epiche ed infine al dramma del suicidio davanti all’immensità del compito assuntosi, e tuttavia esercita quel fascino stoico così caratteristico delle imprese disperate: il Re Filippo II che decreta gli arresti per il figlio ed erede, reo di intelligenza con i protestanti e gli ebrei olandesi, sembra una riedizione di alcuni episodi della romanità repubblicana…