Questa è la storia di un inganno liberista. È la favola della globalizzazione accettata senza spirito critico. Fatta cadere sulle teste dei popoli, dai governi e dagli euroburocrati. È la favola economica della Cina, che una volta era vicina solo ai gruppuscoli maoisti, oggi a tutti noi: con i suoi prodotti a prezzi stracciati, frutto di un incontrollato e incontrollabile dumping economico, sociale e ambientale. Una storia che inizia a prendere corpo nell’anno 2000, con Romano Prodi alla Presidenza della Commissione europea.
Il colosso cinese, alla fine di trattative avviate anni prima, entra a far parte del sistema di scambi commerciali del Wto. È indubbiamente un passaggio epocale. Sentite cosa dichiara il Professore all’Ansa, il 19 maggio: «L’accordo offrirà alle industrie europee che vendono o comprano in Cina nuove opportunità di mercato, e creerà molti posti di lavoro europei». Mai profezia si rivelò più inesatta, per non dire infausta. Forse Prodi avrebbe dovuto consultare gli spiriti prima di avventurarsi a cuor leggero in un’avventura che anni dopo, cioè oggi, sta costando molto cara all’economia italiana ed europea. Troppo preso com’era, dagli accenti trionfalistici - «è una pietra miliare sulla strada della creazione di un mercato economico aperto» - il Professore dimenticò di prestare attenzione alle preoccupazioni che da più parti, prima durante e dopo, si erano levate riguardo al modello di sviluppo cinese e alla sua problematica integrazione negli standard occidentali.
Pechino concede finanziamenti statali alle sue imprese, soprattutto nelle province meno ricche, le aziende producono a costi stracciati di manodopera, fanno lavorare i dipendenti, spesso minori, quattordici ore al giorno; non rispettano le normative sulle emissioni inquinanti, sulla contraffazione dei marchi, praticamente non conoscono i sindacati.
Grazie a tutte queste ragioni, le aziende cinesi sono libere di invadere i mercati europei e statunitensi a prezzi spesso inferiori a quelli praticati nel paese d’origine. Prezzi con i quali è impossibile competere. Giulio Tremonti ha usato una metafora efficace: «Ci stanno mangiando vivi», e non si riferiva alla simpatica abitudine del comunismo cinese di bollire i bambini in tempo di carestia. I numeri di questo disastro sono sotto gli occhi di tutti: 100mila posti di lavoro persi nel settore tessile dal 2001 al 2005 (Istat), 28mila aziende in crisi, aumenti abnormi dell’export cinese (pantaloni fino al 1960%, pullover 1250%, magliette 537%); situazione drammatica nel calzaturiero (importazioni aumentate fino al 700 per cento nel 2005), con 40mila posti di lavoro a rischio su un totale di 101 mila addetti. L’ortofrutta non fa eccezione: nel 2004 l'export cinese sulle mele, è aumentato del 400 per cento; e se da una parte la qualità media non è ancora all'altezza delle nostre pregiate varietà, i numeri fanno paura: il colosso asiatico produce 88 miliardi di mele l'anno, che equivalgono a circa 176 milioni di quintali. La produzione italiana, tanto per fare un paragone, sfiora appena i 20 milioni di quintali l'anno.
È evidente che il pericolo c'è, che bisogna fare qualcosa. Che bisognava farlo prima. Da qualche tempo sono entrati in vigore i dazi antidumping, peraltro previsti dal regolamento del Wto, grazie a una gestione più illuminata della Commissione, con la presidenza Barroso e con l’interessamento del commissario al commercio Mandelson. Ma anche e soprattutto, grazie all’instancabile pressione del governo italiano. Le misure protettive per le calzature, ad esempio, entrate in vigore il 7 aprile scorso, colpiranno le scarpe provenienti da Cina e Vietnam, ad esclusione di quelle per bambini e sportive (un’esclusione che ha creato forti polemiche all’interno del comitato antidumping dei 25 a Bruxelles). Sono dazi progressivi, che dal 4 per cento saliranno, a settembre, al 19,4 per cento per i prodotti di Pechino e al 16,8 per cento per quelli di Hanoi. Dopodichè bisognerà decidere se estenderli per cinque anni, oppure no: e lì si ripeterà l’annosa divisione dell’Unione tra i Paesi mediterranei, produttori, e quelli nordici, attenti agli interessi degli importatori e della grande distribuzione.
Ad ogni modo, molte voci tra gli addetti ai lavori, hanno già definito tali misure insufficienti, ad esempio Rossano Soldini, industriale del settore e presidente dell’Associazione calzaturieri italiani: «È una prima vittoria, ma di fatto le due categorie escluse rappresentano il 42 per cento delle calzature provenienti da Pechino». I cinesi non ci stanno facendo, letteralmente, solo le scarpe: la lista dei prodotti orientali (coreani, indiani, tailandesi, indonesiani), sotto osservazione da parte dell’Unione europea, è lunghissima. I dazi agiscono al momento su sessantadue prodotti: oltre al tessile e al calzaturiero, lampadine, accendini, bilance, lenzuola, tv color, trote, mandarini, a breve anche i frigoriferi. «Solo nel 2005» spiega uno dei protagonisti di questa battaglia, il viceministro alle attività produttive Adolfo Urso «le misure antidumping hanno contribuito a mantenere direttamente centomila posti di lavoro».
Il 21 per cento delle imprese europee le cui produzioni sono salvaguardate dai dazi, è italiano. Altri dossier molto importanti sono aperti a Bruxelles: quello - vitale per il mercato nostrano - delle calzature di sicurezza e in pelle, il cui giro d’affari è stimato in 6 miliardi di euro. E quello più di nicchia, ma altamente simbolico, delle fragole. Sono in pre-allarme anche le associazioni di categoria del settore del mobile, che stanno raccogliendo dati sulla concorrenza sleale asiatica. Ecco, questa è la conclusione amara della favola che vi hanno raccontato. E che nessuno sa dove ci condurrà. Tornando a Prodi, dopo aver salutato Fidel Castro - da presidente del Consiglio - con un «lungo e affettuoso abbraccio» (Ansa, 19 maggio 1998) in occasione dei cinquant’anni del Gatt-Wto; dopo essersi vantato nel 2000 - da presidente della Commissione Ue - di aver gettato “la pietra miliare” dell’accordo con la Cina, beh alla fine ha aperto gli occhi. Quattro anni dopo, il 15 aprile 2004, quattro anni durante i quali si è distinto per l’assoluta inconsistenza del suo mandato a Bruxelles, utilizzato principalmente per riaccreditarsi nella politica italiana, il Professore dichiarava bel bello da Shangai: “Abbiamo preoccupazioni continue sul mancato rispetto, da parte della Cina, della lettera e dello spirito degli obblighi del Wto”. Il grande Longanesi avrebbe detto: «Sa descrivere l’ovvio con estrema esattezza».