Manipolazione, lavaggio del cervello? Appare sempre più semplicistico ritenere che le tecniche l'indottrinamento applicate dai gruppi islamici radicali siano sufficienti a sollevare e motivare intere masse alla solidarietà con il popolo iracheno e alla resistenza...

CARO direttore, ho conosciuto Shadi e la sua famiglia nel 2001 nella cittadina di Dara'a in Siria, dove mi trovavo per una ricerca sul campo. Fin dalla prima volta in cui incontrai la madre di Shadi, si stabilì tra noi un intenso scambio intellettuale: donna intelligente e colta, membro del Partito dei socialisti arabi, direttrice d'una scuola superiore. Si parlava per ore dell'occupazione israeliana, delle differenze tra baathismo e socialismo, di fondamentalismo islamico, di femminismo, dei danni del nazionalismo. Ci siamo riviste anche l'estate successiva e siamo rimaste in contatto telefonico. Poi, è scoppiata la guerra all'Iraq.
Un dato su tutti s'impone prepotentemente in questa guerra: il nostro etnocentrismo, l'incapacità di comprendere l'Altro. È a causa di questa incapacità strutturale, caratteristica della cultura occidentale di quest'inizio secolo, che i cosiddetti esperti non sono stati in grado di prevedere la resistenza irachena all'invasione angloamericana. Sarebbe ingenuo pensare che il neo-panarabismo sia sorto all'improvviso, negli ultimi quindici giorni: un'opinione pubblica araba s'è andata formando negli ultimi quindici anni grazie a raffinati dibattiti svoltisi nelle tv, sui giornali, nelle strade, nelle case, sulle questioni tradizione/modernità, Islam/Occidente. Si scopre ora, con i soldati sul campo, che l'Altro è rimasto tale. E la rivendicazione di questa irrinunciabile alterità è la cifra della resistenza lanciata dalle brigate internazionali. I volontari che accorrono in difesa dei loro "fratelli iracheni" si comportano secondo codici ormai indecifrabili per molti opinionisti occidentali. Con l'affermazione degli Stati nazionali nel mondo arabo, s'era decretata la scomparsa delle strutture e dei valori tribali. Ma ecco riemergere il codice dell'onore, il valore della solidarietà, la logica del sacrificio di sé: valori eminentemente sociali, incomprensibili in una società individualistica.
Anche Shadi, il maggiore dei figli maschi della mia cara amica, e' partito da Damasco per Bagdad, a quattro giorni dallo scoppio del conflitto. Lasciando una lettera d'addio: "Meglio un martire (shahid) morto che un vivo impotente". È la sorella di Shadi a informarmi tramite e-mail; ci scriviamo quotidianamente da quando è iniziata la guerra. Per loro, che si sentono in pericolo e indifesi, è anche un modo d'esorcizzare la paura: il rapporto con un'occidentale amico è rassicurante e può rappresentare, nell'eventualità d'un attacco diretto contro la Siria, un canale di pressione sull'opinione pubblica internazionale o una via di fuga.
L'intera tribù di Shadi è in lutto: dalle missioni suicide i ragazzi non tornano. Il padre s'è recato fino ai confini con l'Iraq per convincere il ragazzo a tornare, o semplicemente per rivederlo un'ultima volta, ma alla frontiera gli hanno negato l'accesso. La madre - mi riferiscono - pazza di dolore, chiama per nome il figlio, cercandolo in ogni stanza della casa. Era in procinto di partire anche lei per Bagdad alla ricerca del figlio, diceva: "O torno con lui o muoio con lui accanto ai fratelli iracheni". Per fermarla, amici di famiglia le hanno raccontato d'avere notizie di Shadi: qualcuno lo avrebbe visto vivo in un campo militare a Bagdad. Parlo con lei due giorni dopo: ha scoperto l'inganno, è nuovamente abbattuta. Quando le dico che molti qui in Italia non capiscono il loro sostegno a Saddam, mi corregge: "Noi non siamo con Saddam, noi siamo con l'Iraq!".
Shadi: 20 anni, studente brillante, secondo anno di fisica all'università di Damasco. Il padre aveva acquistato una casa nella capitale per permettere ai figli di studiare fuori sede in condizioni agiate. Shadi non era uno che non aveva nulla da perdere. Shadi era un ragazzo "normale". Tra i più bravi del corso, come i compagni di studi che sono partiti con lui. Shadi era ateo. Shadi non aveva squilibri psicologici. Shadi non era povero, frustrato, disperato. È questo ciò che non si vuole capire. Che in altre culture il corpo sia sociale, che della vita si faccia un uso collettivo. Che alla morte e alla vita si diano altri valori: questo non è ammesso dalla nostra cultura, che la morte paventa, sul corpo terapeuticamente s'accanisce e la vita ottimizza in qualità e lunghezza. Che la morte sia un bene sociale, un investimento sul futuro del gruppo risulta incomprensibile, deplorabile. La bella morte degli eroi d'Euripide è applaudita finché confinata nell'ambito della rappresentazione teatrale, ma gli eroi viventi di questi giorni, che s'immolano per opporsi a un potere iniquo e a una cultura materialistica percepita come aggressiva, sono bollati come fanatici, megalomani, squilibrati.
La teoria delle "frange estremistiche" e delle "schegge impazzite" vacilla di fronte al numero crescente di giovani arabi che s'iscrivono nelle liste di volontari suicidi per la liberazione dell'Iraq. Manipolazione, lavaggio del cervello? Appare sempre più semplicistico ritenere che le tecniche l'indottrinamento applicate dai gruppi islamici radicali siano sufficienti a sollevare e motivare intere masse alla solidarietà con il popolo iracheno e alla resistenza. Piuttosto, non sarebbe più utile recuperare, per capire, la forza delle idee, il potere della dimensione comunitaria, la sacralità dei valori di gruppo capace di mobilitare i corpi dei suoi membri?
Shadi ama la vita e ha paura di morire. Ma è nato in una cultura tribale in cui il sangue è condiviso e l'individuo non esiste: qui la vita del singolo è al servizio della comunità. Nelle culture tribali di Siria, Libano, Marocco, ecc., morire per gli altri significa continuare a vivere in loro, attraverso di loro. Qui il pubblico sconfina nel privato: il superiore fine politico della giustizia mette in gioco il corpo dei singoli.
Non metteremo fine a questo "scontro di civiltà" se ci accontenteremo di spiegazioni riduttive: psicologiche (la "martiriomania"), economiche (la povertà), neo-orientalistiche (aspiranti martiri affascinati dalla prospettiva d'"entrare automaticamente in paradiso", "giacere con le vergini"). Lo "scontro di civiltà" in atto non è dato, ma costruito: anche dal libro di Huntington e dalle sue vulgate. Anche dallo stuolo d'opinionisti che irresponsabilmente (per ignoranza, o pigrizia, o servilismo, o conformismo) rinforzano stereotipi: accentuando differenze minime e negando quelle che agli stereotipi non si conformano. Vi sono parole e immagini, che non descrivono la realtà, ma la creano.
Finora i miei amici arabi distinguono tra governanti e governati dei Paesi occidentali. Samir, il cugino di Shadi, anche lui adolescente sul piede di guerra, al telefono mi chiama ancora khalati Alessandra, zia Alessandra. Ma domani, dopo lo scontro?
È definito terroristico il suicidio d'un martire che si fa saltare in aria tra i marines in quanto atto di "privatizzazione della violenza" da parte di un civile o di un gruppo estremista. Non è terroristico, invece, un attacco missilistico aereo su un mercato brulicante di civili, solo perché condotto da uno Stato che ha il monopolio legittimo della violenza? Le condanne dell'immoralità degli attentati suicidi contro i reparti militari alleati non celano, piuttosto, ipocritamente, la questione dell'asimmetria dei mezzi e dei poteri? Shadi, mingherlino com'è, avrebbe preferito affrontare il nemico con un aereo altrettanto potente, piuttosto che con le sue quattro ossa e la lacerazione dolorosa delle sue carni, "armi non convenzionali". Anche i kamikaze giapponesi avrebbero preferito bombardare il nemico piuttosto che immolarsi schiantandocisi contro. Ma i mezzi erano, e sono, impari.
Dopo questa guerra tutto sarà diverso nella mia vita, nelle mie relazioni con gli amici arabi e nel mondo. Stiamo attaccando e trasformando una civiltà dell'ospitalità. Stiamo imponendo loro di rinunciare a questo supremo valore la cui perdita, già consumata presso di noi, ci rende tanto infelici. Stiamo insegnando loro come difendersi da noi. Forse, invece, di "esportare libertà e democrazia", dovremmo re-imparare ospitalità, sacralità, passione politica.

L'autrice insegna Etnografla all'Università degli studi di Firenze

Da "La Repubblica" dell'8 aprile 2003

http://www.aljazira.it/index.php?opt...id=785&Itemid=