Giace il vecchio dipinto di Cristo crocifisso:
il sangue cola a fiotti lungo le costole spezzate,
gli occhi esanimi, le labbra esangui,
l'immagine stessa della morte…

Dono di nobili e di popolani pii,
una collana d'oro gli scintillava al collo;
e di puro argento l'artigiano di Debar
aveva cesellato intorno la cornice.

Così giace Cristo nel tempio deserto,
mentre la notte cade silenziosa
e uno stormo d'uccelli insegue la preda.

Abbandonato e solo tra i predatori svolazzanti,
desolato e orrido, il Cristo apre le sue braccia,
in attesa eterna del gregge che non c'è.

Milan Rakic (libera versione)

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Non dimentichiamo il martirio che la cristianità sta subendo in questa culla della civiltà ortodossa!

Raffaele

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Da: “30 GIORNI” - Febbraio 2003

Intervista con il vescovo Artemije, capo della comunità serbo-ortodossa del Kosovo

Vittime dell'umanitarismo

Intervista con il vescovo Artemije, capo della comunità serbo-ortodossa del Kosovo

di Gianni Valente


Anche Artemije, il vescovo di Raska e Prizren che guida la comunità serbo-ortodossa del Kosovo, condivide la vita sotto assedio della sua gente. Non può lasciare la sua abituale sede di Gracanica per celebrare in altri luoghi le sante liturgie senza la scorta dei blindati della Kfor.

I suoi interventi, e anche le risposte dell'intervista che segue, non sono immuni dal tono drastico di chi non fa le opportune distinzioni all'interno della controparte albanese ed è poco incline a tentare più equilibrate suddivisioni dei torti e delle ragioni che si mischiano nell'aggrovigliato dopoguerra kosovaro. Ma testimoniano comunque le sofferenze reali di un intero popolo su cui il sistema mediatico internazionale e uno sdegno umanitario à la carte sembrano aver steso il velo dell'oblio.

1) A tre anni e mezzo dal suo inizio, qualcuno dice che quella dell'intervento internazionale in Kosovo è una missione riuscita. Lei cosa ne pensa?

ARTEMIJE:

Chi sostiene questo dice solo una mezza verità. Fino ad ora, questa affermazione è corretta solo se si riferisce alla situazione degli albanesi del Kosovo, visto che con l'inizio della missione Onu loro hanno ottenuto tutto: il ritorno alle proprie case (dopo un mese, erano già tornati 700mila profughi), la totale sicurezza e libertà di movimento, l'opportunità di assunzione e di impiego, il sostegno economico per la ricostruzione e il restauro delle case e delle moschee distrutte o danneggiate durante la guerra, la costruzione ex novo di migliaia di case, moschee, complessi industriali e uffici. Inoltre, gli albanesi hanno ottenuto organismi di governo che affrontano e risolvono solo le urgenze che interessano loro. Ma non basta. Dopo che le operazioni di guerra erano finite, ossia una volta che era stata stabilita la 'pace' dalla missione Onu, è stato loro consentito di espellere dal Kosovo Metohija più di 250mila serbi, ossia due terzi di quanti ce ne erano prima della guerra, e 30mila altri kosovari di nazionalità non albanese. Hanno potuto anche saccheggiare, occupare o distruggere circa 80mila case di proprietà dei cittadini serbi, e distruggere completamente centinaia di villaggi serbi. Hanno abbattuto o danneggiato gravemente più di 110 chiese e monasteri serbo-ortodossi, di cui molti costruiti tra il XIII e il XV secolo. Hanno dissacrato molti cimiteri serbi e distrutto monumenti di importanza storica. Tutto ciò è accaduto sotto gli occhi della comunità internazionale, in una terra sottoposta al governo dell'Onu e senza che alcuno dei responsabili di questi atti terribili fosse mai identificato e arrestato. In aggiunta, bisogna tener presente che i 130mila serbi rimasti continuano a vivere chiusi in piccole e grandi enclave, privati di tutti i diritti umani, come la libertà di movimento, il diritto a lavorare e a godere i frutti del proprio lavoro, il diritto a disporre di condizioni normali di educazione e di assistenza sanitaria. Anche i programmi per consentire il ritorno dei serbi espulsi non sono mai andati oltre la fase preliminare, e finora dei 250mila profughi ne sono tornati solo un paio di centinaia.




2) Perché la violenza prende di mira con particolare accanimento le chiese?

ARTEMIJE:


Non ci può essere nessuna ragione che giustifichi la distruzione degli edifici religiosi, a qualsiasi nazione o gruppo religioso appartengano. Eppure sta accadendo proprio questo nel cuore dell'Europa all'inizio del terzo millennio della cristianità. Se c'è una ragione, essa va cercata nelle menti di chi commette questi atti criminosi.

Ossia nelle menti di certi leader del popolo albanese, che da più di 130 anni inseguono il sogno della grande Albania che oggi si intreccia con la richiesta del Kosovo 'indipendente'. Seguendo questo mito, terroristi e criminali albanesi, quando pure era già in vigore il protettorato Onu, sono disgraziatamente riusciti a ripulire etnicamente dai serbi quasi tutte le città del Kosovo Metohija (dalla parola greca metoh, che significa 'proprietà della Chiesa'). E oltre alla pulizia etnica hanno pianificato di cancellare ogni traccia dei monumenti che per secoli hanno testimoniato la presenza del popolo serbo in questi territori. Sanno bene che le chiese e i monasteri sono il segno di una testimonianza perenne che non può essere cancellata dal Kosovo serbo. Ecco perché c'è tanto furore contro essi. Ecco perché non appena vengono rimossi i check-point e i presidi di sicurezza intorno ai nostri monasteri e alle chiese, essi vengono subito distrutti. Gli ultimi attacchi ai luoghi santi serbi sono stati perpetrati nel novembre e nel dicembre 2002.

3) Recentemente hanno creato allarme le voci di una smobilitazione dei presidi militari posti a protezione delle chiese.

ARTEMIJE:

Gli alti rappresentanti dell'Unmik e della Kfor hanno finora espresso la loro ferma determinazione a non lasciare questi territori finché non saranno ristabilite le condizioni per una vita normale e sicura per tutti i cittadini del Kosovo, senza discriminazioni di nazionalità o di religione. Un simile proposito viene espresso da tre anni e mezzo, ma purtroppo finora è rimasto una promessa. A giudicare dalle sofferenze a cui siamo stati esposti anche in presenza del personale della Kfor e dell'Umnik, meglio non pensare a cosa succederebbe se loro se ne andassero prima che sia stata raggiunta una soluzione che configuri un Kosovo multietnico e democratico, secondo quanto è disposto nella risoluzione 1244 del Consiglio di sicurezza dell'Onu.

4) Come giudica l'atteggiamento del Vaticano riguardo alla situazione in Kosovo?

ARTEMIJE:

Posso dire che nella grande maggioranza del nostro popolo è diffusa l'opinione che il Vaticano sia stato largamente implicato negli eventi accaduti nel territorio dell'ex Repubblica Federale Socialista Iugoslava, e non solo in Kosovo, durante gli ultimi 10-12 anni.

5) Di recente sono apparse sui giornali voci su un possibile viaggio a Belgrado del Papa, che potrebbe allungare in questo modo la sua prossima visita in Croazia. Cosa pensa di questa ipotesi?

ARTEMIJE:

Non abbiamo finora ricevuto alcuna notizia ufficiale o ufficiosa su questa eventualità. Quindi, non vorrei addentrarmi in speculazioni riguardo a questo. Inoltre, se tale possibilità divenisse reale, una posizione a nome della Chiesa ortodossa serba sarebbe espressa non dal solo Pavle, il nostro patriarca, ma dall'intero concilio degli arcivescovi. Allo stesso tempo crediamo che gli arcivescovi terranno in considerazione l'intima convinzione della Chiesa, ossia del popolo credente, su questo argomento. In merito ai benefici che la Chiesa ortodossa serba potrebbe ricevere da una tale ipotetica visita, non mi trovo nella posizione di vedere quali potrebbero essere. Al contrario, temiamo che potremmo riceverne ulteriore danno riguardo alla fede e alle cose spirituali, perché una tale visita provocherebbe nuove divisioni e spaccature nella stessa Chiesa ortodossa serba. Comunque, sono convinto che una tale visita non avrà luogo, a dispetto delle chiacchiere.




6) Dopo l'11 settembre tanti opinion makers occidentali si sono lanciati nella propaganda per riscoprire le radici cristiane della civiltà occidentale, davanti al 'nemico' islamico. Ma nessuno di costoro dice nulla sulla distruzione delle chiese in Kosovo. Lei come spiega questo singolare silenzio?

ARTEMIJE:

Non abbiamo gli strumenti per seguire la sfera dell'alta politica internazionale e analizzare in essa gli avvenimenti che si succedono, soprattutto dopo l'11 settembre.

Abbiamo già troppi problemi di cui occuparci nella realtà che ci circonda da vicino. D'altro canto, è inspiegabile il silenzio dell'Europa 'cristiana e democratica' quando crimini di tale gravità vengono commessi contro un popolo cristiano ed europeo come quello serbo.

7) Anche di recente lei ha ribadito che lo status definitivo del Kosovo dovrà essere definito all'interno del più largo contesto balcanico ed europeo, lasciando da parte le mappe e i confini tracciati su base etnica e superando nell'integrazione gli anacronismi ancora operanti. A cosa si riferiva?

ARTEMIJE:

Abbiamo sempre operato per favorire soluzioni pacifiche e democratiche per tutti i problemi e i conflitti internazionali. Sia prima sia durante il conflitto armato, che fece vittime innocenti da entrambe le parti, e anche dopo la fine del conflitto, nell'attuale 'pace internazionale'. Tutte le nostre considerazioni di allora sono valide anche oggi. La soluzione non può trovarsi nel fomentare il conflitto e la volontà di reciproco annientamento. Ma nella tolleranza, nel rispettare il principio 'vivi e lascia vivere'. Se non riusciamo a diventare fratelli con tutti, perché questo dipende anche da chi è dall'altra parte, noi dobbiamo e possiamo essere buoni vicini, e vivere uno accanto all'altro, «ciascuno nella propria vigna e sotto il proprio fico». Sfortunatamente, da parte albanese non riusciamo a vedere la stessa disponibilità o qualche segno di superamento delle tensioni e degli anacronismi.