Visto che fatico a spiegarmi quando parlo di mercato, vi riporto un altro stralcio del mio ultimo libro "Il dittatore libertario". La prossima volta potrò mettere anche il paragrafo sul comunismo di mercato.
Fabio Massimo Nicosia.
ps Le note non vengono riprodotte dal copia e incolla, e non sto a metterle.



Chiarito che quello del mercato non è un modello oggi effettivamente vigente, occorre ora vedere più da vicino in che cosa tale modello consista.
Anzitutto una premessa. Tra molti anarchici classici, come in molte persone “di sinistra” , la parola “mercato” evoca sensazioni sgradevoli, in quanto strettamente legata alle nozioni di merce e consumo, se non di consumismo, oggetto come è noto di una critica radicale da parte di quelle posizioni. Tuttavia occorre anche a tale proposito fugare un equivoco: il concetto di mercato, al di là della semantica, non ha nessuna parentela esclusiva con il mondo delle merci, e non ne subisce la critica, perché riguarda invece l’universo delle azioni umane in quanto tali . Se il mercato si chiama “mercato”, la ragione è una sola, e cioè che quel particolare meccanismo regolatore delle azioni umane è stato primariamente studiato dagli economisti con riferimento al mondo della produzione e del consumo delle merci, ma è noto ormai da tempo che quello stesso meccanismo regola anche tutte le altre interazioni, che con produzione e consumo di merci non hanno nulla a che vedere (si pensi all’economia del matrimonio di Gary Becker, o allo scambio di pretese di Bruno Leoni). Tant’è che l’economista contemporaneo si limita a rilevare che l’individuo agisce sulla base di incentivi, ma non pretende affatto che debba trattarsi di incentivi “egoistici”, e men che meno malevoli, sicché saranno altrettanti incentivi “economici” quelli altruistici ed etici, e questi come gli altri confluiscono nel “mercato” e concorrono a conformarlo.
Si può perciò acconsentire a che il termine “mercato” non sia il più felice, quando se ne tratti al di fuori del mercato delle merci, ma purtroppo non disponiamo di un termine altrettanto efficace, essendo le alternative (ordinamento, sistema, o simili) troppo generiche, e non in grado di rendere l’idea di come in concreto quel meccanismo funzioni in quanto anzitutto ordine politico e giuridico.
Il mercato è infatti un sistema di gioco “totalitario” e includente, in cui qualunque interazione tra individui influenza le condizioni, alle quali avvengono tutte le altre interazioni tra tutti gli altri individui; l’unico sistema democratico di formazione indiretta di decisioni collettive (di prezzi, quindi di norme, in quanto il prezzo, come la norma, fissi il costo da sopportare per compiere una determinata azione), coerente con l’individualismo metodologico. Un sistema di pesi e contrappesi a sovranità concorrente.
L’idea può essere resa da un’interazione a quattro giocatori, dei quali due siano venditori (A e B) e due siano compratori (C e D). A ha interesse a ottenere il massimo profitto, ma la presenza e l’azione di B lo inducono, per ottenere l’obiettivo della conclusione del contratto, a tenere basso il prezzo sino alla soglia in cui il profitto eguaglia la chance di vendita (dato, normalmente, il recupero dei costi). Similmente, C ha interesse a conseguire il bene al prezzo più basso, ma la compresenza concorrente di D lo induce ad alzare la propria offerta. Si determina così in capo a ciascuno un’antinomia , una sorta di conflitto di interessi, che impedisce qualunque massimizzazione unilaterale e che, sulla base dell’incontro tra pressione interna e pressione esterna, determina una convergenza verso un equilibrio generale. Frutto questo, però, non tanto di una mano invisibile, come si dice, ma del composto di infinite mani visibili, che interagiscono ed esercitano forza l’una verso l’altra. Ne deriva che, nel mercato, tutti i beni prodotti possiedono a ben vedere caratteristiche proprie dei “beni pubblici”, dato che tutti presuppongono il convergere nello scambio di una pluralità di volontà, in assenza di una delle quali, esattamente come accade in quelli che sono normalmente considerati beni pubblici, il bene non verrebbe nemmeno prodotto (se il compratore pretende di massimizzare la propria utilità, richiedendo un prezzo troppo basso, o se qualunque attore del ciclo produttivo pretende un prezzo troppo alto), o comunque venduto (se il venditore pretende a sua volta un prezzo troppo alto). Sono le reciproche e convergenti pressioni delle parti, interne ed esterne allo scambio, a consentire, in regime di concorrenza pienamente libera (in cui cioè i cartelli siano destinati alla frustrazione dalla costante presenza, o potenziale presenza, di nuovi entranti), il successo dell’operazione.
Occorre perciò correggere la visione di Gauthier, secondo il quale il mercato sarebbe un ambiente libero da moralità, in cui ognuno massimizza direttamente il proprio interesse, che, per essere reso cooperativo, richiederebbe inoculazioni di “etica”, sicché la massimizzazione sia resa “vincolata” .
Vero è invece che il mercato è, anche a prescindere da quella che sarebbe la prima volontà delle parti, intrinsecamente cooperativo, in virtù del suo proprio meccanismo di formazione e di funzionamento, dato che, indipendentemente dalle propensioni etiche degli attori, si dà, inevitabile, la pressione di ciascun altro soggetto, che vale a limitare le velleità espansionistiche di ognuno, imponendo il self-restraint, sicché tutti, nel considerare i propri interessi, sono contemporaneamente costretti a considerare gli altrui (sia pure non necessariamente per altruismo, ma per rendere verosimile la realizzazione del proprio interesse). Nel mercato, le massimizzazioni unilaterali hanno gambe corte, sicché l’esito delle pressioni esterne non è dissimile da quello che si avrebbe se pure ognuno autolimitasse spontaneamente, per motivi etici, la propria espansione.
E’ un luogo comune, sostenuto da molti avversari del mercato, che, invece, questo premierebbe i più forti a discapito dei più deboli, ma si tratta di un ribaltamento della verità.
Immaginiamo una comunità di 100 persone, delle quali 51 siano di un ceppo etnico, e 49 di un altro; poniamo, ancora, che i 51 siano tutti razzisti nei confronti dei 49. Confrontiamo ora due ipotesi: nella prima, in quella comunità vige un sistema istituzionale a decisione collettiva maggioritaria; nella seconda, la comunità è retta esclusivamente da relazioni volontarie e di mercato. In quale si crede che l’opzione razzista risulti amplificata e moltiplicata ? Certamente nella prima, dato che in essa il 51% potrà adottare tutte le leggi razziste che ritiene, concentrando tutto il potere come se disponesse del 100%, imponendole coattivamente al 49%; non certo nella seconda, in cui non vi sono decisioni collettive da adottare, e in cui perciò il razzismo si esprimerà esclusivamente attraverso comportamenti individuali e comunque diffusi, ma senza divenire “regola” vincolante per tutti. E’ la decisione collettiva, non il mercato, a munire il più forte di iper-protezione, a fornirgli (schmittianamente) un superpremio, quel plusvalore di potenza, che gli consente di dominare il più debole, più di quanto lo stesso naturale rapporto di forza non renderebbe in sé possibile.
Nel mercato, invece, la parte più debole della società (il 49%) non perde la propria autonomia e soggettività, non è istituzionalmente “minoranza” destinata a soccombere, ma minoranza solo numerica, senza dirette conseguenze normative: come si è già detto, nel mercato, chi si trova in vetta a una classifica discografica non impedisce ai concorrenti di vendere i loro dischi, nessuno è autorizzato a imporre i propri gusti (religiosi, politici, sullo stile di vita) con “decisioni” deliberate, che alterino il carattere schiettamente e spontaneamente proporzionale del sistema. Vero è che in un sistema liberal-democratico le opposizioni possono “criticare” l’operato della maggioranza, nell’aspettativa di sostituirvisi; esse non possono però prendere a loro volta decisioni su quanto riguarda loro e i loro sostenitori, come un sistema di mercato invece consentirebbe.
Da quanto si è detto, emerge che il mercato è un procedimento collettivo e comunitario, nel quale operano simultaneamente due forze di segno opposto, l’una centripeta, l’altra centrifuga. Sotto il primo profilo, l’influenza reciproca degli attori, dei giocatori, concorre a costituire degli standards di comportamento, che si esprimono nel sistema dei prezzi (da intendersi in senso lato come norme dell’azione); sotto il secondo profilo, restando impregiudicata la libertà di ciascuno di autocollocarsi come crede all’interno del sistema dei condizionamenti reciproci, il sistema è policentrico, e dà vita a nicchie del mercato, alle quali corrisponde la possibilità di perseguire legittimamente una varietà di stili di vita (vi è cioè una pluralità di standards). E’ noto del resto che nel mercato concorrenziale convivono le opposte pulsioni all’identità (carattere della concorrenza perfetta) e della distinzione (carattere della concorrenza monopolistica), per cui un prodotto, per competere con un altro, deve, per contendergli gli acquirenti, risultare al contempo sufficientemente simile a esso e sufficientemente differenziato, possedere cioè autonomi caratteri di attrattiva. Ne deriva una gamma infinita di “prodotti”, anche in senso metaforico, una progressione senza limiti che copre tutte le sfumature possibili e immaginabili, tutte “legittime” e tutte compatibili (tutte possono coesistere).