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    Predefinito Iran: test missili a medio raggio

    Testate potrebbero colpire Israele o basi Usa nel Golfo


    (ANSA) - WASHINGTON, 24 MAG - L'Iran ha eseguito martedi' sera un test con un missile a medio raggio, del tipo Shahab-3, con portata massima di 2.000 chilometri. Lo hanno reso noto fonti del Pentagono, confermando informazioni circolate in Israele subito dopo il test. Secondo gli esperti militari lo Shahab-3, se attrezzato con testate nucleari, potrebbe raggiungere Israele e le basi Usa nel Golfo. Il test, stando a indiscrezioni israeliane, non rappresenterebbe un segnale di particolare innovazione tecnologica.

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    L’Iran si prepara alla guerra. Asimmetrica.


    Maurizio Blondet
    25/05/2006

    In attesa dell’aggressione americana, l’Iran sta riorganizzando le proprie forze armate e sottoponendole a tutta una serie di esercitazioni molto significative.
    A dicembre, 15 mila uomini dell’esercito regolare hanno condotto ampie manovre nelle due province abitate dalla minoranza azera (turcofona), Est Azerbaijan e Ovest Azerbaijan: la simulazione comportava l’uso di unità molto mobili e rapide in azioni di guerra irregolare, evidentemente contro infiltrazioni dal vicino Azerbajan.
    Una seconda esercitazione molto più imponente (100 mila uomini) ha avuto luogo nella provincia del Khuzestan: nel presupposto che l’'invasore debba come prima cosa attaccare questa regione, la più ricca di petrolio e abitata da arabi sunniti, in modo da tagliare i rifornimenti petroliferi dell’Iran e mettere in sicurezza lo stretto di Ormuz per il passaggio delle navi americane sottocosta. I comandi persiani paiono ritenere la minoranza araba del Khuzestan pronta a sollevazioni sotto influenza straniera.
    Per questo la celebre «Basij», un corpo paramilitare che ha condotto tutte le offensive iraniane contro l’Irak di Saddam, è stato rafforzato con i cosiddetti battaglioni Ashura, che hanno addestramento anti-sommossa.



    La riorganizzazione maggiore consiste nel riconvertire la Guardia Rivoluzionaria (RG), la milizia islamica del regime, da forza territoriale dedita alla difesa dei confini - difesa impossibile vista la superiorità tecnica e di potenza USA - in un corpo agile che dovrebbe trascinare il nemico all’interno del territorio, e poi impegnarlo con tattiche asimmetriche.
    A questo scopo, le province ai confini sono rese militarmente autonome in caso di conflitto, e la RG non dipende più dallo stesso comando dell’esercito regolare (1).
    La strategia evidente è di replicare i successi della guerriglia irachena, che quattro anni dopo la «fulminante vittoria» americana, sta usurando le truppe occupanti sul terreno.
    Allo stesso modo, i comandi iraniani stanno preparando una forza di resistenza diffusa, mobile e pluri-centrica.
    Esercitazioni sono avvenute nelle zone costiere, da Bandar Abbas allo stretto di Ormuz a gennaio, al Golfo Persico in aprile, e attorno alla base navale di Khorramabad e nella zona nord-occidentale del Golfo nei giorni scorsi.
    Nello stesso tempo, l’armata si prepara a contrastare una possibile offensiva sull’asse Mandali-Ilam, ossia dall’Iraq centrale al centro dell’Iran.
    La catena naturale del monte Zagros viene adattata a linea di resistenza, con varie basi appositamente costruite negli ultimi tempi per assicurare la logistica per 250 mila uomini, e per l’assistenza a mezzo milione di profughi dal confine dell’Iraq.



    Fino a che punto serve questa preparazione?
    L’ipotesi più probabile è che l’attacco militare USA avvenga esclusivamente dal cielo, senza contemplare un’invasione, e nemmeno teste di ponte sul terreno.
    A quanto ha detto un comandante della RG ad Asia Times, i militari di Teheran credono però possibile - e forse per il nemico necessario - un qualche tipo di sbarco per «illuminare»le installazioni nucleari da colpire, che sono sparse e sotterranee, e per constatarne la distruzione.
    Le ipotesi che prevedono sono tre: l’uso di sottomarini lanciamissili dal Golfo, l’arrivo di commandos dal mare, o le azioni del gruppo anti-ayatollah Mujaheddin-e-Khalk, addestrati in Israele e in Azerbaijan per penetrare nel territorio.
    La forza aerea è ridotta, i missili a disposizione dell’Iran sono vecchi modelli russi e cinesi, che però possono essere lanciati da batterie costiere e anche da battelli veloci.
    E’ dubbio se il Paese già disponga dei missili anti-nave russi 3M-82 Moskit, i temuti «Sunburn» che filano al doppio della velocità del suono a pochi centimetri dall’acqua.
    Quest’arma potrebbe infliggere gravi danni alla marina USA nel ridotto teatro del Golfo.
    «Certo è che l’Iran è ben dotato come missilistica terra-aria e la sta migliorando», dice un analista saudita, Abdurrahman Shayyal.
    «Inoltre, l’Iran è comprovatamente difficile da infiltrare, e le sue installazioni e basi militari sono molto ben protette».



    Anche per questo gli USA stanno cercando di radunare un’alleanza dei vicini ostili all’Iran.
    Ed hanno offerto loro un sistema di difesa anti-missile regionale, uno scudo stellare integrato con informazioni in tempo reale e con l’uso di missili navali Aegis, sofisticatissimi ma mai provati in situazioni belliche.
    Ciò, allo scopo dichiarato e propagandistico di proteggere i Paesi filo-americani del Golfo da un’improbabile pioggia di missili persiani.
    Ora, benchè i regimi degli emirati e la monarchia saudita non abbiano alcuna simpatia per Teheran, la prospettiva di una «protezione» che di fatto equivale ad una chiamata alle armi non li entusiasma.
    «Un’offerta americana da rifiutare», titolava Gulf News, il giornale in lingua inglese, martedì scorso; «come se la regione non fosse ancora abbastanza volatile, ora gli USA vogliono installare un sistema missilistico avanzato negli Stati del Gulf Cooperation Council.
    [Ma] i Paesi del Golfo hanno già i loro problemi, camminano sul filo del rasoio fra le varie posizioni… perciò non c’è bisogno alcuno di esacerbare le cose inserendo nella regione misure così discutibili».
    Il Council comprende sei Stati arabi affacciati sul Golfo, di cui il più grosso è l’Arabia Saudita.
    In un «vertice consultivo» tenuto a Ryad il 6 maggio, hanno espresso contrarietà per un Iran con armi nucleari, ma hanno anche espresso la contrarietà all’uso della forza.



    «Qualunque sistema di sicurezza del Golfo che non comprenda l’Iran non può funzionare», dice Muhammd Reza Saedabadi, dell’istituto di Studi americani ed europei all’università di Teheran, «perchè spacca la regione».
    Anche Shayyal, l’analista strategico saudita, è dello stesso parere: «gli USA sono ridicoli. Pretendono di fare i poliziotti della regione. Ma hanno a che fare con un Paese che è molto più forte dell’Iraq, dell’Afghanista, del Sudan. E anche del Vietnam».
    Ciò concorda fin troppo con l’opinione di Andrew Bacevich, un conservatore e militarista americano, opinionista fisso del settimanale neocon Weekly Standard, docente al dipartimento di relazioni internazionali della Boston University.
    Oggi, è assai preoccupato, anzi angosciato: «la guerra (in Iraq) ha messo allo scoperto la limitata profondità della potenza militare americana. Dalla fine della guerra fredda noi americani ci siamo vantati, tambureggiandoci il petto [come gorilla] di essere la più grande potenza militare mai vista al mondo, da far impallidire il Terzo Reich, da fa impallidire l’impero romano…»
    «Ora, siamo un Paese di 290 milioni di abitanti che ha una forza di circa 130 mila soldati impegnata in Iraq contro diciamo 10-20 mila ribelli, e a) non possiamo vincere, b) siamo già nel quarto anno di un conflitto che probabilmente non potremo sostenere molto più a lungo.
    Tutti coloro che credono nel progetto imperiale americano, e che vedono la potenza militare come fondamento dell’impero, dovrebbero preoccuparsi molto… è risultato che la nostra vantata supremazia militare non è ciò che pretendeva… è imperativo ripensare il nostro ruolo nel mondo sì da ritrarci dall’insostenibile nozione di egemonia globale».



    Sulla imminente aggressione all’Iran, Bacevich dice: «una campagna della marina e della forza aerea può cominciarla, ma non può finirla. Se i generali sono sicuri di conoscere esattamente dove è il programma nucleare iraniano, e se abbiamo i dati e le munizioni
    per distruggerlo, è un discorso; ma non abbiamo questa certezza. Dal punto di vista dell’esercito di terra e del corpo dei Marines, un attacco aereo può essere l’inizio di una guerra contro l’Iran, ma la cosa non finisce lì. Com’è stato il caso sia in Afghanistan sia in Iraq, seguirà qualche orribile ‘dopo’, e la marina e l’aviazione non saranno lì ad aiutare, almeno non in modo decisivo».
    «Dunque ripeto: se siamo entusiasti della supremazia militare americana, dobbiamo riflettere seriamente sulla qualità dei nostri generali. Scegliamo le persone giuste alla carica di comandanti a due, tre, quattro stelle? Li addestriamo e il prepariamo in modo adeguato alle responsabilità che devono affrontare? La guerra in Iraq ha rivelato gravi manchevolezze su questo punto». (2)

    Maurizio Blondet




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    Note
    1) Iason Athanasiadis, «Iran deploys its war machine», Asia Times, 24 maggio 2006.
    2) Tom Engelhardt, «Bacevich on the limits of imperial power», TomDispatch, 23 maggio 2006.

 

 

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