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Discussione: Autonomia e sovranità

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    Autonomie , nazioni e federalismo europeo




    Riflessioni e commenti






    Come abbiamo già più volte scritto approfondiremo in questa sede il tema delle autonomie: locali, regionali, federali.

    E’ un tema di fondamentale importanza perché rappresenta oggi il solo vero mezzo di rivolta contro un potere globale sempre più pervasivo.

    E’ un tema politicamente difficile perché sembra racchiudere in sé due elementi opposti: il desiderio di sovranità, che dovrebbe avere il suo esito finale in una nazione compatta e sufficientemente forte da opporsi a prevaricazioni esterne, e il suo apparire disgregante rispetto alla nazione stessa, autonomia essendo il contrario teorico di centralismo nazionale.

    Tuttavia ogni teoria politica va adattata ai tempi. Oggi le nazioni intese come governi nazionali in Europa non sono più entità indipendenti. Sono dominate da oligarchie al servizio , totale o parziale, di interessi e poteri contrari a quelli dei popoli ormai solo più nominalmente sovrani. Vi sono sovranisti da operetta come Chirac, maggiordomi dichiarati come Berlusconi e la Merkel, scherani del Nuovo Ordine come Blair . Lo svizzero Blocher è stato a lungo emarginato e poi si è parzialmente adattato, mentre l’austriaco Haider che tentò, invero senza troppa convinzione, una politica sovranista, venne demonizzato e poi neutralizzato. Gli fu comunque impedito di diventare ministro pena sanzioni contro l’Austria, cioè un gravissimo atto pre bellico. Il serbo Milosevic fu invece massacrato. Non c’entrava nulla , anche i tonti possono capirlo e lo sa certo anche Carla Del Ponte, il tipo di regime autoritario di Milosevic. Quella era solo una scusa, come le armi segrete inesistenti di Saddam. Il Nuovo Ordine mondialista tollera e sovvenziona canaglie ben peggiori di Milosevic. Ma i serbi avevano il difetto di voler rimanere uno stato sovrano. Intollerabile. Dopo che Belgrado è stata spianata dalle bombe umanitarie hanno capito chi comanda.

    La struttura dell’Unione Europea, che è in realtà l’anti Europa, nasce e cresce per soffocare i popoli, le loro caratteristiche, la loro storia, le loro stesse etnie. La struttura dell’UE si basa su due principi: l’unico valore reale è il Mercato, e il razzismo è reato. Per razzismo si intende ovviamente il riconoscersi in un gruppo etnico, il non volere la società multirazziale, il voler restare cittadini e non sudditi consumatori, credere nelle responsabilità dei popoli e credere nella diversità degli uomini e delle nazioni. Per questo, non certo solo per il cosiddetto revisionismo storico, a tutta l’Europa è stata imposta quasi contemporamente , il che sta ad indicare chiaramente come le oligarchie partitocratiche ormai in tutti i paesi europei obbediscano sull’istante agli ordini, la norma che vieta il razzismo, ovvero impedisce qualsiasi reale forma di resistenza alle grandi migrazioni incoraggiate e pilotate per cancellare l’identità stessa dei popoli europei.

    Oggi le oligarchie partitocratiche organizzano sceneggiate di democrazia formale dove i rosa e i grigi si scannano per dominare i loro rispettivi popoli e succhiare prebende e sottopotere, non certo per guidarli con un progetto strategico: non possono averlo perché è loro preclusa una vera politica estera. La solo politica estera possibile è…assoggettarsi meglio all’UE, alla NATO, all’ONU e non dispiacere all’asse israelo-americano, garante e signore del Nuovo Ordine.

    La Svizzera ne è stata la prova più lampante.




    Sul tema generale pubblichiamo per cominciare un interessante saggio di Risè, cui seguiranno altri testi e interviste.

    Risè nota come le battaglie autonomiste siano etichettate di “populiste” , termine peraltro non negativo come si vuol far credere



    In quanto fenomeno inaspettato dal potere ufficiale, e del tutto deviante rispetto alla maggioranza delle previsioni delle scienze sociali, la tendenza è quella di apparentarlo alle nevrosi, ai sintomi e manifestazioni d’angoscia individuali, e di gruppo, di cui sarebbe l’espressione politica. Nel parlarne, comunque, gli osservatori insistono volentieri sui tratti patologici, dei suoi militanti o dirigenti. La denigrazione è comunque un vecchio trucco delle oligarchie, a corto di argomenti più seri ( ndr)

    Populismo e politica: un’antica inimicizia

    La diffidenza, sconfinante volentieri nel disprezzo, verso i movimenti che si richiamano al popolo non è, d’altra parte, affatto nuova. Il popolo, ed i suoi specifici modi di esprimersi, hanno sempre ben rappresentato, presso storici e studiosi della politica, ciò che Freud più tardi chiamerà il“perturbante” (Unheimlicht)[i], ciò che non ci è familiare, e che quindi turba la nostra coscienza coi tratti ambigui ed inquietanti delle immagini che abbiamo respinto nell’inconscio. Il popolo, e il populismo, non si esprime con misura, e non si appassiona ai calcoli e misure della politica ufficiale. “Nihil in vulgus modicum” osservava già Tacito,( Anna*li, I, 29). E Cicerone lo chiamava: “immanius belua”, l'animale più mostruoso”. Con la modernità, e il socialismo, la reputazione del popolo presso gli intellettuali e i professionisti della politica e di chi vi si richiama non migliora. Marx ammette: “quando si parla di popolo, mi domando che brutto colpo si stia giocando al proletariato” (Adesso che i rappresentanti del proletariato, nelle loro varianti riformista, e autoritaria hanno governato a lungo, sarebbe il caso - osserva Michel Maffesoli- di andare a vedere quanti e quali brutti tiri hanno giocato ai popoli) . Anche il sapere popolare non è apprezzato da politici, e sociologi della politica. Il buon senso popolare è definito da Engels “la peggior metafisica”, Durkheim ha il massimo sospetto di ogni “socio*logia spontanea”, e Pierre Bourdieu chiama il sapere popolare un “bric-à-brac di nozioni”.

    Populismo come Ombra del potere convenzionale

    Il popolo ed i suoi modi di esprimersi nella storia politica sono dunque, praticamente da sempre, l’Ombra rifiutata della politica ufficiale occidentale, dei suoi dignitari e dei suoi tecnici. Per essi il popolo, ed i suoi eventuali saperi, è qualcosa che viene costantemente rimosso dalla coscienza, e ricacciato nell’inconscio. Non c’è allora da stupirsi se coscienza e cultura politica dominanti siano sempre colte di sorpresa, e piuttosto spaventate, quando questo popolo, “rimosso” nell’inconscio, periodicamente riappare sulla scena della storia, con i suoi movimenti dalle forme inquietanti. Tra i quali, appunto, i “populismi”, come quelli che, con aspetti e stili diversi, vanno riscuotendo oggi interesse ed adesione in Europa. Dai paesi del Nord, che secondo gli stereotipi dovevano esservi alieni (e invece se ne lasciano entusiasmare), ai già più compromessi (secondo quest’ottica diffusa), paesi mediterranei.
    Ma perché la coscienza politica ufficiale rimuove sistematicamente il popolo e le sue forme espressive? La notazione di Tacito (nihil modicum in vulgo), ci mette sulla strada. La politica abbisogna di misure e ponderazioni, di calcoli, e il popolo vi sembra tendenzialmente avverso. L’osservazione è utile soprattutto perché quest’avversione al calcolo, alla misura astratta, ci porta alla sostanza del discorso sul popolo e il populismo. Che è il suo legame con la materia, con la materialità dell’esistenza nella sua forma più elementare, non calcolata e mediata dalle convenienze intellettuali (bene espresso nella rivendicazione dei vandeani di avere la propria terra “sotto i piedi”, mentre i parigini rivoluzionari ce l’avevano “nella testa”).

    Legami con la materia e antiintellettualismo

    Il popolo si richiama senza nessun imbarazzo agli aspetti materiali della vita, e ai suoi interessi. I contadini francesi ne sono un buon esempio: le loro rivendicazioni contro ogni tipo di contingentamento e regolamentazione, che ne danneggiasse interessi e tradizioni, sono sempre state un rompicapo prima per i pianificatori di quarta e quinta repubblica, e poi per gli euroburocrati. E’ in questa attenzione alla materialità, caratteristica da sempre di ogni populismo, che si sigla la sua collocazione a pieno titolo nella postmodernità, una delle cui cifre è proprio l’opposizione dell’elemento organico, corporeo, al privilegio per l’ideologia che aveva caratterizzato la modernità. E’ questa attenzione all’organico, alla materia, al corpo che fa della postmodernità il tempo dei movimenti di identità: il movimento delle donne, quello delle razze e delle etnie (il Revival etnico di cui parla Anthony Smith), i movimenti omosessuali, il movimento degli uomini fortissimo negli USA dalla metà degli anni 80 (Farrakhan fra i musulmani neri, Promise keepers in campo cristiano, i diversi men groups di Robert Bly ed altri).
    Nel mondo, il movimento antropologico-politico che si fa portavoce di questa “conversione” alla materia, che è anche conversione alla propria storia e passato, rispetto alla fuga nel futuro delle ideologie moderne è quello del primordialismo. Sincronicamente all'affermazione delle tendenze globalizzanti, si é andato infatti affermando un altro fenomeno, sinergico ad esse, appunto il primordialismo.

    La base epistemologica dei populismi: il primordialismo

    Esso raccoglie e ispira tutti quei diversi orientamenti e attività (dalla ricerca alla politica) che si interessano alle esperienze umane riferite al legame con la nascita, la discendenza, e il luogo di nascita o di provenienza ancestrale. I movimenti identitari sopra nominati rientrano in questo grande bacino per il loro riferimento al corpo, la terra, la discendenza.
    Quest'atteggiamento, supportato dal punto di vista epistemologico da filosofi della scienza come Paul Feyerabend, ha indebolito la credibilità , anche dal punto di vista scientifico, di proposte "universali", e rafforzato il movimento delle diverse culture verso il recupero della propria storia, reale o immaginata, verso la propria “primordialità". Il movimento ha rapidamente assunto una forza, anche sul piano storico-politico, molto notevole, che ha colto di sorpresa chi era rimasto legato alle concezioni del sapere, e della politica, tipiche della modernità. E costituisce, consciamente o inconsapevolmente, una della basi epistemologiche che concorrono a spiegare gli attuali populismi, a ben vedere espressione essi stessi di esigenze e sensibilità “primordiali” che si sovrappongono alle visioni intellettuali di poteri e tecniche politiche tradizionali.
    E' del resto ancora questo, per certi versi, anche l'orizzonte di natura primordiale (das Primordiale) cui si riferisce Husserl parlando dell'orizzonte della propria particolarità (Eigenheitshorizont), che definirebbe l'area e gli oggetti "familiari". Naturalmente quest'ambito é in continuo mutamento, ma "il fatto che i limiti dell'orizzonte del possesso di sé varino attraverso il tempo e le civiltà non invalida né il fatto che gli esseri umani percepiscono oggetti come primordiali, né l'efficacia significativa della categoria del primordiale"
    I contenuti dei legami primordiali sono stati fortemente svalutati da gran parte della sociologia contemporanea, omogenea e conseguente alla posizione illuministica, e sono stati riassunti, dopo Talcott Parsons, nel termine, “particolarismi". Più di recente, per sottolinearne la ristrettezza d'ambito, la loro qualità é stata identificata con la categoria dell' "emozionale". Eller e Coughlan ad esempio ritengono che il "primordialismo é essenzialmente questione di emozione o sentimento prodotto dall'interazione sociale." Ritroviamo qui l'atteggiamento del vecchio razionalismo moderno che, incurante di ogni smentita dai fatti, continua ad opporre l'esperienza emozionale a quella cognitiva (anche se, da Weber allo stesso Parsons si è poi lavorato sulla distinzione tra emozioni cognitive ed emozioni affettive). In realtà, come ha osservato opportunamente Crosby, questa posizione dimentica che “le emozioni sono suscitate dalla cognizione di un oggetto".
    Il primordialismo, che sottende oggi gran parte dei populismi, appare invece come criterio cognitivo, di orientamento a valenza identitaria, in base al quale: a) gli individui classificano sé e gli altri, e b) su queste classificazioni formano poi gruppi, appartenenze che influenzano il comportamento dei membri. Nell'identificazione di questi legami primordiali hanno notevole importanza le tradizioni, e i simboli originari attorno alle quali questi si organizzano: "Gruppi e nazionalità etniche esistono perché ci sono tradizioni di convinzioni e comportamenti che si riferiscono a oggetti primordiali, come i dati biologici e soprattutto le localizzazioni territoriali." (Crosby).
    Il primordialismo, riferimento cognitivo forte, proprio perché supportato da emozioni, e insieme riferimenti simbolici, consente ai populismi di opporre dei “modi di essere”, delle identità, dei gusti e necessità di vita (si pensi ai contenuti ecologisti in essi variamente presenti), ai diversi “dover essere” proposti dalle ideologie moderne e tardo moderne.
    In questo modo i “popoli”, o meglio gli attori del populismo mettono tra sé e l’ordinamento giuridico dello Stato (o dei sovra Stati), il filtro dei legami di nascita, delle identità, dei corpi, della terra, e della loro storia. Il corpo, che ama il lardo di Colonnata che ha nutrito i suoi avi, ne fa un elemento di identità, di appartenenza comunitaria, di guadagno economico (col suo commercio), e si unisce ad un popolo (quello della zona di produzione), nell’opposizione ad una burocrazia transnazionale che vorrebbe metterlo al bando in nome di un dover essere di tipo igienico. Che, in effetti, potrebbe coprire qualsiasi altra motivazione, compreso interessi di gruppi industriali, portatori di identità meramente economiche, e non organicamente e simbolicamente condivise, e quindi significative. Il populismo, rafforzato dalla base epistemologica primordialista, nega che l’individuo sia riconducibile esclusivamente all’ordine dello Stato e della sua legge, mettendo tra sé e l’ordinamento giuridico categorie di ordine contemporaneamente materiale e trascendente: i corpi e la loro sopravvivenza, le tradizioni di cultura materiale, le identità, la comunità di appartenenza, la sua storia, le credenze condivise.
    Questo atteggiamento disturba il legislatore o il politico tradizionale che lo qualifica volentieri di “nevrotico”, opponendogli la “sana” e razionale asetticità di un regolamento comunitario. Ma in realtà non ha nulla di patologico (come, da un punto di vista di sociologia politica, rilevano anche Meny e Surel in Populismo e democrazia. Il Mulino, 2001). Dalla rivendicazione di identità al delirio ce ne corre. Gli Ebrei hanno ridato vita a uno stato, e a una lingua, dopo duemila anni. In Cornovaglia è rinato il cornico; in Occitania, l’occitanico. “Varesotto”, che quando ero ragazzino io era un insulto dei milanesi agli abitanti di quella provincia, oggi è un distintivo per i ragazzi dell’Insubria, che riscoprono radici linguistiche e simboliche insieme a una difesa identitaria, territoriale e di interessi.
    Insomma, il “popolo”, è roba testarda (heady stuff), che sembra sparita ma dura nei secoli. Come si rileva da una serie di documenti delle Nazioni Unite, che hanno riconosciuto, per ora, l’impossibilità di costruire una partizione del mondo sulla base di categorie e confini puramente amministrativi, razionalmente stabiliti.


    Populismo mostruoso

    Certo, il populismo ha anche un aspetto mostruoso, come già notava Cicerone, e come spiega oggi Maffesoli. E’ mostruoso perché è contradditorio, e quindi doppiamente inquietante, come un monstrum che possiede nature opposte. E’ avido e generoso, materialista e metafisico, tradizionalista e trasgressivo. Ma questa contradditorietà è caratteristica del vivente, solo lo schema razionale, astratto, è impeccabilmente coerente. Anche la storia, quella di lunga durata, che interessava Braudel, ed in effetti è l’unica interessante, è contradditoria, come appunto tutto il vivente.

    Per esempio molti si stupiscono (e, più o meno apertamente invocano la patologia), perché Pim Fortuyn, il leader populista olandese ucciso prima delle elezioni, ipertradizionalista ed omosessuale, fosse per la libertà sessuale e contro la riproduzione nelle coppie omosessuali. Ma questo atteggiamento è, appunto, molto tradizionale. In Europa l’omosessualità è sempre stata praticata liberamente, come un aspetto della sessualità popolare; tanto che non c’era neppure la parola per definirla. Come hanno mostrato Foucault, ed altri, l’ “invenzione” dell’omosessualità è un frutto della modernità, nasce nell’800, come la stessa parola. Naturalmente però, rapporti col proprio sesso, ed eventualmente coppia “omosessuale” non avevano niente a che vedere con la famiglia, eterosessuale, e con la riproduzione. Tanto è vero che quando la loro diffusione metteva a rischio la riproduzione del gruppo, scattavano periodi, limitati, di repressione (a Firenze, Venezia, ed altrove), fino a quando il tasso di natalità si normalizzava.

    “Imprendibilità” del popolo

    Inoltre il populismo, come ogni aspetto del vivente, più o meno mostruoso e sorprendente, è inafferrabile da ogni igienismo politologico. Perché il popolo ha, tra le proprie caratteristiche, una sorta di imprendibilità, uno stare per sé, che lo mette al riparo da ogni condizionamento duraturo da parte del potere. Come dimostrano gli eroi popolari (tra i quali eccelle Till Eulenspiegel, il mito fiammingo di cui Gérard Philipe diede un’indimenticabile interpretazione cinematografica alla fine degli anni 50). Il popolo finge adesione al potere, ma se la riprende abbastanza rapidamente quando percepisce che il potere si è fatto gioco di lui in quanto popolo, dei suoi interessi materiali e dei suoi riferimenti trascendenti (si vedano i grossi spostamenti di voti da un turno elettorale ad un altro, fonte di tante patologie ansiose nei rappresentanti politici). Dalla Rivoluzione Francese al secondo dopoguerra mondiale è sembrato – a dire il vero- che la forza degli universalismi e delle ideologie moderne avesse sottomesso il popolo, una volta per tutte. Ma poi, in particolare dagli anni 90 in poi, si è capito che non era così.
    Il popolo, che junghianamente potremmo vedere come una sorta di Sé della Comunità, in gran parte inconscia della sua esistenza, ma attivo dal profondo, era sempre lì. Beffardo come Till; irriducibile a ogni logica normalizzatrice, come un “complesso autonomo”; avido come un bottegaio; religioso come un contadino; disincantato come una bella donna circuita da tutti; appassionato come un amante. Il popolo è ancora lì, per conto suo, pronto a cambiare bandiera e cavallo, e disarcionare chi in nome suo lancia proclami. Alla fine, contrariamente a quanto accade nell’immaginario del politico paranoico, è lui che decide, e non le supertecnocrazie, o i comitati ristretti.
    Per questo, i populismi fioriscono





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    Massimo Fini




    L’Europa sarà localista






    Massimo Fini è un giornalista anomalo, tra le cinque o sei firme ricosciute fuori dal coro. Non è della Lega Nord né nemico della Lega: come sempre il suo è un parere interessante. Da un quotidiano lombardo abbiamo ripreso alcuni suoi commenti alla “devolution” bossiana e alla personale vittoria di Bossi, ma soprattutto sul futuro dell'Europa delle macro regioni e delle identità


    «Il voto ( sulla devolution , ndr) è stato il coronamento di trent’anni della sua battaglia politica, mi pare che anche gli avversari politici l’abbiano riconosciuto. Bossi aveva un’idea - cosa rarissima nella politica di oggi - e l’ha portata avanti non solo con coerenza, ma spendendo tutto se stesso. In fondo, s’è ammalato per questo: sono gli uomini di passione quelli che pagano di più sul piano fisico». Eravamo alla fine degli anni Ottanta, la Lega Nord l’ho subito percepita come elemento di rottura del consociativismo imperante. Nasceva finalmente un’opposizione e quindi il Carroccio aveva il mio appoggio a prescindere, a occhi chiusi, perché una democrazia senza opposizione non può dirsi tale». Non andavo alle urne da dieci anni: quella volta votai Lega su tutte le schede. Anche perché, oltre a quanto ho già detto, altri aspetti mi avvicinavano al Carroccio.
    come il discorso identitario, che si lega a quello contro la globalizzazione, fenomeno allora già in atto e che anzi stava maturando proprio in quegli anni. Poi l’anti-americanismo, là dove per America intendo un potere imperiale unico: nel 1990 era già cosa fatta, dopo il crollo dell’Unione Sovietica».
    In Bossi mi attirava ciò che gli altri criticavano chiamandola “rozzezza” e che invece per me era ed è schiettezza. Bossi è un popolano, uno di noi. Sappiamo come il potere trasformi le persone; ecco, almeno fino a quando l’ho frequentato, Bossi non è cambiato. Non ha mai sentito la necessità di mettersi sul piedistallo, perché è un leader naturale. Poi, non mi risulta esistano megaville a lui intestate... Insomma, è un uomo di passioni, che insegue i sogni. A me sono sempre piaciuti tipi così, Annibale che arriva a 14 chilometri da Roma... Non si può ignorare il principio di realtà, ma detesto gli eccessi di realismo, il vivere solo di pragmatismo e cinismo. Poi, Bossi ha un’altra qualità: è un uomo affettivo, il contrario di Gianfranco Fini, un pesce bollito. Bossi c’è, non è plastica, non è Berlusconi. Né Marco Follini.
    Peraltro non considero Bossi uomo di destra perché il localismo non è etichettabile in questo modo. Ciò detto, a sinistra ci sono sempre stati uomini di passione, la storia del Pci è costellata di errori, orrori, ma anche sentimenti. Oggi non rimane più nulla, dominano i cerebrali e freddi alla D’Alema».
    Per quanto le passioni nella sinistra fossero molto di più nei militanti di base che nei dirigenti: ma tutti, questo sì, erano al servizio di grandi idee. Quelle che mancano alla sinistra di oggi».
    Bossi è rimasto integro. La Lega però meno, per due ragioni. Un po’ perché quando un movimento si istituzionalizza attira anche gli opportunisti. Poi, perché il maggioritario ha costretto il Carroccio ad allearsi con Berlusconi e quindi a mettere da parte quei discorsi fondanti che, peraltro, rimarranno al di là di tutto, perché il tema identitario si rafforzerà sempre più in un mondo di mondializzazione avanzante. I movimenti localisti hanno un futuro. Io spero sia il futuro.
    Ora io non conosco più a fondo il Carroccio. È certamente rimasta un’anima ruspante che, purtroppo, oggi viene indirizzata verso le parti meno positive del discorso identitario.
    Serve invece l’affermazione della propria identità, ma questo passa anche attraverso il rispetto di quella altrui. La mitica Padania, in fondo, era di chi ci viveva e lavorava. Oggi nella Lega vedo un connotato che all’inizio non si avvertiva. È una conseguenza anche dell’alleanza con il resto della Cdl: il Carroccio ha dovuto accantonare certi temi facendone emergere altri, troppo acriticamente sciovinisti. Non vengono analizzate le cause profonde della immigrazione. Quanto alla “devolution”, da un punto di vista generale, il fatto è assolutamente positivo. Si va a modificare una Costituzione rigida che ha più di mezzo secolo di vita; nel frattempo le condizioni storiche sono mutate e in queste condizioni qualsiasi Carta fondamentale, anche quella italiana, diventa obsoleta almeno in alcune sue parti. La devolution è da promuovere, in termini astratti, come segnale di cambiamento.
    Come sempre avviene però in Italia, a causa delle mille resistenze e dell’insopprimibile tendenza al compromesso, idee anche molto buone vengono realizzate male o fuori tempo massimo. Prendiamo la riforma elettorale in senso maggioritario, un metodo pensato nell’88-89 per spazzare la palude consociativa ed entrato in vigore nel ’92-94, quando il sistema era ormai già in fibrillazione.
    Della devolution non mi piace soprattutto una cosa. L’idea intelligente, praticabile e coerente era quella delle tre macroregioni, mentre una devolution spalmata su venti regioni rischia di essere il contrario di ciò che si vorrebbe, duplicando le burocrazie. Non se ne sente davvero il bisogno, la Lega si è sempre battuta contro queste cose. Il federalismo deve poter agire su aree coerenti, come è la Padania. Il fatto che si spezzino queste aree coerenti indebolisce la “forza” del sistema e favorisce, come dicevo, la moltiplicazione burocratica. Questo almeno è il mio timore. Ci vorrebbe un accorpamento in modo da arrivare di fatto all’Italia delle tre macroregioni. Mi pare che la Lega l’abbia anche detto, realizzare grandi riforme richiede tempo.
    Qualcuno lo nsidererebbe subito u pericolo per l’unità del Paese, ma sarebbe un timore del tutto infondato, le macroregioni non metterebbero affatto in discussione l’unità d’Italia, per quanto io lo farei molto volentieri.
    Altri direbbero: che senso hanno le macroregioni mentre l’Europa va ad unirsi (ammesso che stia ancora unendosi)?
    Ebbene, le macroregioni si inserirebbero perfettamente nella prospettiva di un continente finalmente unito anche dal punto di vista politico. Sarebbe l’Europa delle macroregioni costituite anche attraverso l’accorpamento di regioni che oggi si trovano in Stati diversi: una prospettiva perfetta.
    Il sistema che io auspico prevede, insieme, un macroregionalismo e un “microregionalismo”, chiamiamolo così, che consenta un contatto il più stretto possibile tra cittadino, politico, burocrazia».
    Sembra una rivoluzione copernicana, almeno così appare in Italia, ma in Svizzera una cosa del genere già esiste: la burocrazia è a disposizione del cittadino, se tre cittadini si lamentano di un burocrate, questo perde il lavoro. ( non è proprio così purtroppo ma è meglio che in Italia, questo sì… ndr) Siamo lontanissimi dalla mentalità imperante da noi».
    La devolution è dunque un segnale di tendenza molto positivo. Io sono arciconvinto che più il mondo si globalizza, più diventa indispensabile spezzare lo Stato nazionale e trovare una dimensione comunitaria vera».
    «Quest’ultimo aspetto è strettamente correlato al federalismo. È un discorso che noi avevamo cercato di fare già sul Borghese: volevamo far capire a Lega Nord e Alleanza Nazionale che i loro interessi non erano in contrasto. Il rafforzamento dei poteri del premier garantisce l’unità, il federalismo tutela gli interessi identitari e localistici. Che dire: alla fine, con ritardo, lo hanno capito, dopo tante liti che hanno nel frattempo favorito il signor Berlusconi, al quale nulla importa né di premierato, né di federalismo. Come è stato detto: «Iddu pensa solo a iddu».
    Perché è così difficile realizzare le riforme nel nostro Paese?
    «L’Italia è strana. Da una parte è un Paese immobilista, d’altra parte è anche un laboratorio: il fascismo, per dire, è nato qui. Lo stesso berlusconismo, che detesto, è l’espressione di una politica senza più legami con la storia e le ideologie, è insomma ipermoderno. Non è affatto vero che Berlusconi imiti Bush: il Cavaliere è la punta avanzata del bushismo. È difficilissimo mettere insieme una coalizione come quella di centrodestra, le spinte di fondo sono opposte: la Lega va verso l’“antimoderno”, ossia contro le contraddizioni, gli eccessi, la disumanizzazione della modernità; Berlusconi cavalca l’ipermodernità, la globalizzazione, le grandi opere; An sta in mezzo, è ancora legata al concetto di nazionalità che oggi, tra queste due esigenze, non ha più alcun senso. La storia sarà o nelle piccole comunità o nella globalizzazione».
    Si tratta però di riforme difficili da realizzare. Da una parte per il conservatorismo della sinistra. Dall’altra per il fatto che il progressismo di matrice berlusconiana è così inquietante da generare reazioni di segno opposto. Occorre trovare un equilibrio e soprattutto capire dove si vuole andare. La direzione di Berlusconi è quella della modernità “dura e pura”
    Oggi la sinistra è estremamente più conservatrice della destra, a causa di mutamenti storici che hanno stravolto tali categorie. Un tempo la sinistra era progressista, la destra conservatrice, oggi è vero il contrario, ossia sono entrambe vecchie e da cambiare. Un tempo Giuseppe Prezzolini ne Il manifesto dei conservatori proponeva una specie di “lento-rock” ante litteram, dicendo che la destra era la morale e la sinistra l’economia, oppure che la destra era il libro e la sinistra la televisione; Piero Gobetti a sua volta spiegava come una funzione della destra era quella di educare i cittadini alla legalità. Ecco: è curioso notare come tutti i termini ormai si siano quasi invertiti.


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    Tratto dal forum della destra radicale:

    Cossiga:
    ''Ti invio il disegno di legge costituzionale per il riconoscimento del diritto di autodeterminazione al Land Sudtyrol-Provincia Autonoma di Bolzano da me presentato in Senato, con la certezza, che secondo la vostra antica tradizione di fedelta' alla Nazione germanica, nella specificita' tedesca o austriaca, a vostra scelta, lo facciate proprio ed operiate perche' il governo e il Parlamento italiano riconoscano al popolo sud-tirolese quel diritto di autodeterminazione che voi e i vostri fratelli, anche sfidando la morte e il carcere avete sempre rivendicato, conservando nel vostro cuore l'antica fedelta' alla cultura, alla lingua e alle tradizioni della Nazione germanica''.

    Lo scrive il presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga in una lettera a Elmar Pichler Rolle, Obmann della Svp ed a Luis Durnwalder, presidente del Landesregiernug-Giunta Provinciale del Land-Sudtirol Provincia di Bolzano.



    ''Le dichiarazioni del presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga sull'autodeterminazione per l'Alto Adige rappresentano un atto di grave irresponsabilita' politica e istituzionale. Amareggia apprendere che la posizione sia stata assunta da chi e' stato garante dell'unita' nazionale''. Lo ha dichiarato in un comunicato il consigliere regionale Alessandro Urzi', Commissario provinciale per l'Alto Adige di Alleanza Nazionale, a proposito della recente dichiarazione del presidente emerito della Repubblica, Francesco Cossiga, che ha fatto sapere che sta preparando un provvedimento per consentire all'Alto Adige l'autodeterminazione per decidere se restare con l'Italia o aderire all'Austria o alla Germania.

    ''L'affermazione del presidente Cossiga mortifica la minoranza italiana dell'Alto Adige e d'un tratto cancella tutta l'esperienza autonomistica e il faticoso equilibrio costruito dalle comunita' altoatesine - prosegue Urzi' - Non e' ancora possibile immaginare quali conseguenze possa produrre la riproposizione, questa volta su un piano istituzionale, nell'ambito del Parlamento italiano, di proposte che fanno leva sul principio della disgregazione nazionale''.

    Il documento dell'esponente di An si conclude ''richiamando lo stesso governo alla necessita' di prendere immediatamente le distanze dalle ipotesi ventilate che minano la convivenza in Alto Adige e radicalizzano i termini del confronto politico''.

    ho utilizzato questo thread perchè il titolo si confaceva

 

 

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