Affermare che il fenomeno dell’emigrazione extraeuropea, in crescita esponenziale e ormai riguardante tutti gli Stati-nazione europei, sia un effetto di svariate cause è una banalità sconcertante tante volte ripetuta. È ovvio che lo è. Il punto sarà piuttosto capire quali siano le cause che spingono masse d’individui a lasciare i loro paesi per stabilirsi in via definitiva in Europa, dando vita alla classica ‘emigrazione da popolamento’. Inoltre, l’emigrante nel momento in cui ottiene la possibilità di entrare in un paese europeo cambia il suo status, in quanto si trasforma in immigrato. E in tal modo, nella sua nuova veste d’immigrato diventa causa di nuovi modelli sociali, la cui ‘impronta’ evidente è quella della multirazzialità. In altre parole, solo la presenza sempre più incontrollata di immigrati (compresi quelli di seconda o terza generazione o i ‘naturalizzati’, ecc.) è causa del nascere e dell’imporsi del modello sociale multirazziale. Va notato, en passant, che questa duplice dinamica di emigrante/immigrato, si perde completamente nel momento in cui si ricorre all’univoco termine di ‘migrante’, tanto in voga nelle sinistre pretesamente ‘alternative’. Pertanto, per riagganciarci a quanto già detto, a seconda del ruolo di emigrante o di immigrato, cambia anche la relazione causa/effetto. L’emigrazione è un ‘effetto’, l’immigrazione una ‘causa’.

A parte poi la necessità d’interrogarsi sulle cause che spingono l’emigrante ad abbandonare il suo paese d’origine, è altrettanto necessario interrogarsi sui motivi che spingono i paesi europei ad accogliere l’emigrante, trasformandolo in immigrato. E sarà ancor più necessario domandarsi se ciò che spinge all’emigrazione coincida o comunque si concili con ciò che spinge ad accogliere l’emigrante.
Passiamo ora ad esaminare schematicamente questi punti.
Solitamente si riconduce l’emigrazione alla ‘povertà’ ingenerata dal neoliberismo globale. Si tratta di un riduzionismo economicista troppo semplificante. In realtà un fenomeno complesso come l’emigrazione dipende da più cause: la più importante è, probabilmente, la sovrappopolazione del terzo mondo. Altra causa rilevante è la crescente contrazione della popolazione delle campagne col collegato meccanismo della crescita selvaggia delle megalopoli terzomondiali (si ripete, ma su scala infinitamente più imponente, il medesimo processo avutosi in Europa) e la creazione di sacche enormi di diseredati che finiscono per trovare sfogo nell’emigrazione. Altro fattore di cui tener conto è l’instabilità politica (specie in Africa). Importante è poi il ruolo giocato dalle accattivanti ‘sirene’ dell’Occidente, con la conseguente assimilazione di una certa mentalità ‘all’occidentale’ che dà vita al fenomeno noto in sociologia come socializzazione anticipatoria e che costituisce un incentivo fortissimo ad emigrare, al fine di ‘partecipare al banchetto’. Infine, lo stesso neoliberismo globale non agisce ovunque nell’identico modo, ma s’interseca con condizioni e contesti diversi, generando quindi effetti diversi. Ad esempio, l’Africa versa nelle condizioni in assoluto peggiori anche per sue gravissime carenze strutturali, indubbiamente amplificate ma non direttamente causate dalla globalizzazione economica. Se Giovanni Carbone può scrivere che già “all’alba dell’ultimo decennio del XX secolo la gran parte dei paesi subsahariani era più povera di quanto non fosse negli anni sessanta”1, è evidente che le responsabilità vadano equamente ripartite.

Ricapitolando: le cause sono molteplici. Ed anche il neoliberismo globale non esercita un’azione omogenea a tutte le latitudini ma dissemina i suoi effetti in modo asimmetrico. Tanto per fare un esempio, il commercio globale sta favorendo il take off dell’economia cinese. La conclusione è che per analizzare fenomeni complessi, e l’emigrazione lo è, non bisogna far ricorso a spiegazioni generiche e superficiali.
Anche per quel che riguarda i motivi che spingono ad accogliere masse di emigranti in Europa, è il caso di rifuggire da spiegazioni semplicistiche. Innanzitutto c’è il lascito coloniale (ma ciò vale per Francia e Inghilterra, non certo per Germania, Italia, paesi scandinavi, ecc.; quindi è una spiegazione molto parziale). Esiste, poi, chiaramente un tornaconto economico: sfruttare il lavoro nero, tenere basso il costo del lavoro, avere una manodopera di riserva a cui attingere alla bisogna, poter contare su lavoratori scarsamente o per nulla sindacalizzati o facilmente ricattabili2.
Ma, al di là del fatto che puntare non sulle innovazioni di processo ma sulla dequalificata manodopera immigrata per rimanere competitivi può rivelarsi, nel medio periodo, un boomerang soprattutto per il sistema delle piccole e medie imprese, e al di là del peso micidiale che, a causa dell’immigrazione, grava sul welfare europeo (già di suo in crisi da anni) e del non trascurabile fenomeno della disoccupazione autoctona, bisogna tener presente che esistono motivazioni molto più importanti che, esulando dal campo economico, giocano un ruolo di primo piano nel favorire l’‘accoglienza’. Si tratta di motivi essenzialmente ideologici. Chiunque sogni una società di sradicati, di puri ‘cosmopoliti’ guarda con favore all’immigrazione. Chiunque desideri una società in cui le differenze etnoculturali scompaiano è un apologeta dell’immigrazione. Questo in linea generale. Poi esistono le varianti, esse stesse ideologiche, come la ‘virtù repubblicana’ dell’assimilazionismo francese, poggiante comunque sui medesimi valori di fondo3 o il multiculturalismo inglese ed olandese, col suo tentativo di far convivere insieme comunità etnoculturali tra loro estranee.

Ma il punto di gran lunga più importante è il terzo. Sempre meno si conciliano i sogni ideologici con la realtà. Il fallimento delle politiche ‘integrazioniste’, in tutte le loro varianti, è infatti palese. I recenti violentissimi scontri nelle banlieu francesi, opera di immigrati di seconda o terza generazione (francesi solo sulla carta), gli scontri interrazziali in Inghilterra, l’assassinio di Theo Van Gogh in Olanda, ne sono inoppugnabile testimonianza (e in paesi d’immigrazione di lunga durata, il che è emblematico). Che si tratti di problemi sociali è ovvio. Precisamente, si tratta di problemi peculiari del modello4 sociale multirazziale che pretende forzatamente (col solo collante dell’ideologia e dell’interesse economico) di far convivere insieme degli estranei. Insomma, ci si trova di fronte a conflitti totalmente interni e direttamente prodotti dal modello sociale multirazziale. Speranze frustrate in chi voleva ‘partecipare al banchetto’, irriducibili differenze etnoculturali, perdita d’identità tipica degli sradicati e sfociante in nuovi tribalismi metropolitani: questo e altro ancora è l’esito scontato del modello sociale multirazziale.
La risposta filo-immigrazionista alla crisi la conosciamo già: puntare su un diverso modello d’integrazione. Come se fosse possibile esorcizzare magicamente gli effetti negativi della multirazzialità riverniciando concetti e parole. A quando una integrazione ‘sostenibile’, ‘locale’, ‘durevole’, ‘umana’, ‘alternativa’, ecc.? La nostra risposta è invece un’altra: parafrasando Serge Latouche, è necessario decolonizzare l’immaginario multirazziale. Il che vuol dire sottoporre a critica la mentalità favorevole alla multirazzialità dovunque si presenti, tanto nel quotidiano quanto nel discorso politico-culturale.

Diciamo qualcosa al riguardo: nel quotidiano, ed è solo un esempio fra tanti, si possono boicottare tutti i prodotti pubblicizzati con messaggi promozionali di stampo multirazziale. In campo culturale, si devono confutare tutti i luoghi comuni sui ‘benefici’ della società multirazziale. Sul versante politico, alcune proposte possono essere le seguenti: 1) rimpatrio immediato e coatto di tutti i clandestini; 2) moratoria di almeno cinque anni sugli ingressi regolari; 3) restringimento del diritto di asilo; 4) abolizione dei ricongiungimenti familiari; 5) accordi bilaterali con i paesi di partenza dei clandestini con annessa cooperazione delle forze militari e di polizia; 6) espulsione degli immigrati regolari in caso di reati (dopo aver scontato l’eventuale pena, chiaramente); 7) abolizione delle sanatorie degl’immigrati irregolari: il principio che deve valere dev’essere uno solo: entra o rimane soltanto chi sin dall’inizio è in possesso di un regolare permesso di soggiorno; 8) avvio di programmi di solidarietà mirati (e gestiti nella massima trasparenza, in pratica senza arricchire le voraci e corrottissime élites dei paesi terzomondiali)