29 Maggio 1993: Guido, Sergio e Fabio
Racconto di gente comune,
di Agostino Zanotti
La sera del 31 maggio 1993 i telegiornali italiani annunciarono l’uccisione di tre volontari italiani lungo una strada dell’inferno della Bosnia. Inferno della Bosnia, come se si trattasse di un luogo fuori dal contesto umano, dal quale tenersi prudentemente alla larga. Trasalimmo ascoltando quella notizia di cui coglievamo soprattutto l'aspetto tragico: come si possono uccidere persone disarmate che portano aiuti umanitari?
Il servizio televisivo fornì poche notizie e la loro morte in quei giorni passò quasi sotto silenzio. Come sempre del resto quando a morire sono pacifisti o volontari, persone che per scelta non indossano divise. Nelle successive e scarne ricostruzioni giornalistiche veniva citato quale responsabile un paramilitare che si faceva chiamare Paraga. Un nome croato per un soldato che aveva adesivi verdi con scritte arabe sul calcio del fucile? Forse era musulmano? Ma che interesse poteva avere a uccidere dei volontari che portavano aiuti in una zona sotto il controllo dei governativi di Sarajevo? No, i conti proprio non tornavano, soprattutto per la gran parte della stampa che aveva sempre spiegato la guerra di Bosnia come la conseguenza dell’odio tra etnie ben distinguibili tra loro e compatte al loro interno. Una visione miope e pigra che quasi nessuno aveva intenzione di approfondire, per capire quale fosse realmente la posta in gioco: il controllo degli aiuti umanitari, il racket, i furti, dai più piccoli come quello di un'auto fino al controllo dei colossi industriali. Una guerra di potere voluta dai potenti, o aspiranti tali, combattuta con il sangue delle persone comuni e la strumentalizzazione delle differenze etniche.
Abbiamo incontrato uno dei due superstiti di quel viaggio, Agostino Zanotti. Questo è il suo racconto.
"La guerra in Bosnia ha occupato, con le sue atrocità e sofferenze, in modo violento e doloroso a partire dal 1992 le coscienze di molte persone che, scontrandosi con quelle tremende immagini, non hanno potuto e voluto voltarsi dall'altra parte e continuare la propria esistenza come se nulla stesse accadendo.
Un gran senso d'impotenza e d'annientamento occupava gli animi di coloro che per la prima volta nella vita conoscevano, così da vicino, i drammi della guerra. Che fare, come rivolgere il proprio aiuto a quella gente sulla quale stava operando il bisturi della pulizia etnica, nelle sanguinose mani di criminali legittimati ad essere leader politici da un popolo fomentato ad arte, nella disgregazione generale di un est balcanico alla deriva?
L'Europa colpevolmente inadeguata a fermare le atrocità e paurosamente coinvolta nel non averle impedite, non offriva di sé che l'immagine dell'eterna inadeguatezza. Impegnata a coprire le proprie connivenze era entrata, insieme a molti intellettuali, pacifisti, politici nel dilemma, che rappresenterà il filo conduttore di tutto il conflitto, dell'intervento armato oppure della mediazione diplomatica.
Come poteva il mondo pacifista rispondere, con gli strumenti della non violenza, al disperato appello d'aiuto da parte degli sfortunati cittadini bosniaci?
Come potevo risponde agli amici che mi accusavano d'idealismo e contemporaneamente mettevano in discussione i loro stessi principi di pacifisti che avevano da poco lasciato la contestazione " in piazza" contro la guerra del golfo?
Allora in 500 partecipammo ad un'indimenticabile marcia organizzata dai Beati Costruttori di Pace a Sarajevo. Non fermammo la guerra, non salvammo nessuna persona, ma mandammo un segnale molto forte a tutta l'Europa: i pacifisti, sfidando la guerra, possono essere soggetti di diplomazia popolare. Con la tecnica dell'ingerenza umanitaria il popolo della pace, molto variegato e anche improvvisato, aveva lanciato una sfida e un nuovo modello di protesta: dalle Piazze alle Città assediate, per mantenere attivi o costruire corridoi umanitari sostenuti dallo scambio tra Comunità.
Da quel fiume nacquero mille rivoli che si distesero lungo la Bosnia, fin verso i villaggi più lontani, nel buco nero della guerra.
Uno di questi partiva da Brescia, coinvolgeva i pacifisti bresciani che avevano materialmente o idealmente condiviso l'azione dei 500 e, mantenendo legami di amicizia iniziati prima del conflitto, decidemmo di rivolgere i nostri sforzi verso la cittadina bosniaca di ZavidoviÊi, cantone di Zenica-Doboj: primo obiettivo trasferire in Italia 67 tra donne vedove e i loro bambini.
A questa impresa sono legate le vite di Guido Puletti, Sergio Lana e Fabio Moreni, trucidati il 29 Maggio 1993 sulla strada dei Diamanti nei pressi di Gornji Vakuf.
Oggi sono tre lapidi in tre cimiteri diversi, allora insieme con me e Christian Penocchio rappresentavano la speranza di salvezza per quelle donne e i loro bambini e il più significativo intervento di ingerenza umanitaria che si stava realizzando nel cuore della Bosnia. Nessuno di noi sarebbe partito pensando di perdere la propria vita, nessuno di noi si sarebbe fermato senza un valido motivo, ognuno si sarebbe tirato indietro nel momento in cui era in pericolo l'incolumità dell'altro.
Guido, Sergio e Fabio: mi accorgo che l'umanità per me a volte possiede solo questi nomi, oltre a quelli della mia famiglia, forse perché, nella loro diversità, rappresentavano davvero un pezzo di società.
Sergio Lana, 21 anni, corporatura robusta, viso dolce e gentile, lineamenti delicati illuminati dalla luce della giovinezza e dalla serenità di un animo sostenuto dalla fede. Era alla sua prima missione in Bosnia, fino allora aveva portato aiuti ai campi profughi della Croazia, conosceva Fabio, aveva tanta voglia di vivere per sé e per gli altri, aveva appena finito gli studi ed era figlio unico. Ai primi colpi di kalashnikov scappammo insieme, velocemente, disperatamente, poi un dolore alla gamba, sangue e poi una raffica, forse una luce, una pace immensa in un luogo che non concepisco, ma che lui invocava nelle preghiere prima della morte.
Fabio Moreni 40 anni, stessa corporatura di Sergio, fisico atletico, mille sport, mille passioni, mille donne e poi Dio, la sua fede trovata da poco, il suo unico scopo servire Dio e gli altri. Aveva attraversato la Bosnia in lungo e in largo portando aiuti, soffrendo per le sofferenze di quella gente, portando le sue preghiere e le sue contraddizioni di imprenditore affermato. Aveva accettato di partecipare al progetto su ZavidoviÊi ed era la terza volta che andava da loro, portando il proprio sorriso e aiuto materiale. In Bosnia aveva portato tonnellate di alimenti con il suo camion, lo aveva portato, quel 29 Maggio, in cima ad una collina percorrendo un'impervia strada, buona solo per trattori, pecore e banditi criminali. L'avrebbe portato sul Monte Bianco se fosse servito per la salvezza dei suoi compagni. Prima di morire chiese "perché" ed è l'ultima cosa che ricordo di lui prima di rivedere il suo corpo sventrato dalla follia di un pazzo.
Guido Puletti 40 anni, fisico minuto e atletico, una sete di sapere e di capire incolmabile, una voglia di giustizia per gli ultimi, per gli oppressi, per gli sfruttati che gli costò la tortura in Argentina dalla quale scappò portando sul corpo i segni di quell'atroce esperienza. Se fosse possibile scegliersi l'angelo custode, accettando il fatto che esista, sceglierei lui, lo sceglieremmo in molti, lo vorremmo in molti. Aveva una cultura, che a me sembrava infinita, eppure non la ostentava mai; per sapere il suo sapere bisognava interrogarlo, amava la dialettica, si confrontava con le idee degli altri rispettandole, voleva capire gli avvenimenti del mondo e quindi era nella storia ancor prima che diventasse storia. Era un compagno, un rivoluzionario moderno, quando accettò di partecipare al progetto fu per tutti noi un gran successo. Molti sono gli interrogativi che mi attanagliano dopo quella tragedia, uno di questi è quello di aver contribuito alla sua morte e piango e soffro per questo consolandomi con i ricordi dei viaggi in Bosnia con lui e con la sua voglia di giocare a calcio.
Non scappò nemmeno di un passo, ritrovammo il suo corpo esattamente dove era, con tre fori, senza scarpe ma con tanta voglia ancora di correre, di vivere, di amare, giocare a calcio. Sotto la terra che ricopre la sua bara ci sono le scarpe che portavo durante la fuga, quel giorno, perché uno spirito libero non lo ferma nessuno.
Dopo oltre cinque anni di impegno quotidiano in progetti di cooperazione non so ancora perché faccio tutto questo, molte volte penso di farlo per sopravvivere alle miserie di un mondo che soffoca se stesso con ingordigia e avidità, che strangola gli ultimi senza offrire loro nemmeno un po' di cibo per cani o gatti. Correvo velocemente, allucinato dalla paura, correvo per sopravvivere, correvo per me, pensando a mia moglie a mia figlia, correvo sfiorato dalle pallottole, correvo come un felino per sfuggire alla morte. Mi gettai nell'acqua di un torrente, nascondendomi in un anfratto, inondato di acqua gelida che non assomigliava per nulla al liquido tiepido che ci circonda prima di nascere, anche se la posizione era la stessa. Vennero a cercarmi, li sentivo vicini, chiusi gli occhi più volte per non vedere la pallottola che avrebbe messo fine alle mie speranze di sopravvivenza. Perché l'ho fatto, perché far soffrire mia moglie, i miei cari, perché compromettere il futuro di mia figlia con questo prematuro lutto, perché la morte così vicina? Forse avevamo osato troppo.
Potevano fermarci a Gornji Vakuf quei soldati dell'UNPROFOR, perché non l'hanno fatto?
Potevano fermarci a Spalato le autorità di ZavidoviÊi, perché non l'hanno fatto?
Potevano derubarci di tutto quei miserabili banditi, capitanati da un berretto verde che si faceva chiamare " Paraga", senza ucciderci, perché non l'hanno fatto?
Da oltre cinque anni, dopo l'elaborazione individuale e collettiva del lutto, stiamo cercando di dare risposta ai vari perché che circondano tutta la tragedia. Di Paraga conosciamo tutto, conosciamo il suo vero nome: Hanefija Prijic. Sappiamo che pur essendo un musulmano che combatteva i croati si faceva chiamare "Paraga" per uno strano meccanismo di ammirazione-rispetto nei confronti del suo "nemico" Dobroslav Paraga.
Sappiamo che esercita la professione di consigliere comunale a Gornji Vakuf, abbiamo cercato giustizia, non vendetta, in ogni sede italiana, internazionale, bosniaca, ma ancora non abbiamo ottenuto nulla, nessuna speranza per una conclusione rapida, per capire, nei luoghi adatti, che cosa sia effettivamente accaduto.
Dopo l'eccidio in Bosnia abbiamo ricevuto molta solidarietà che ci ha permesso di realizzare importanti progetti che sono ancora in corso, come quello dell'Ambasciata della Democrazia Locale a ZavidoviÊi. Abbiamo accolto a Brescia e in altre Regioni quelle donne vedove dopo un mio viaggio-ritorno nel Febbraio del 1994, insieme con una delegazione di Parlamentari con l'aiuto dell'unità di crisi della Farnesina e la cooperazione italiana a Spalato, che ci ha permesso di riallacciare i rapporti con quella cittadina isolata da violenti bombardamenti. In quel viaggio eravamo di nuovo soli sulla strada dei Diamanti ed io riconobbi un membro della banda di Paraga, di nuovo paura, volevo però continuare quella missione per loro Guido, Sergio e Fabio, volevo portarli a ZavidoviÊi da quelle donne e dai loro bambini.
In sede di Consiglio d'Europa abbiamo dedicato l'approvazione del progetto Ambasciata a loro, a ZavidoviÊi tre vie portano il loro nome, a Brescia in un parco i loro nomi sono scritti su una stele.
Oggi io ho due figli e quando ritorno in Bosnia mi porto dentro il fremito di quell'esperienza, il laboratorio di diplomazia popolare continua con gli amici di allora e con nuovi, sono stati scritti anche dei libri che narrano di quest'esperienza, entrambi molto belli e ragionati, di tutto si è fatto per non rendere vane quelle assurde morti, di tutto si farà per rendere loro giustizia."
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