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    Predefinito L’impero Goldman Sachs fa male alla salute

    L’impero Goldman Sachs fa male alla salute
    Maurizio Blondet
    01/06/2006



    Hank Paulson tiene il suo discorso alla Casa Bianca, dopo la nomina da parte di Geroge W. BushWASHINGTON -




    E così, anche la Casa Bianca è sotto il controllo diretto di Goldman Sachs, la più grossa banca d’affari dell’universo, quella stessa che ci ha assegnato, a noi italiani, i suoi dipendenti Mario Draghi e Monti.
    Alcuni lettori vogliono da me un commento, e non so bene cosa rispondere.
    Con la nomina di Hank Paulson - presidente e direttore esecutivo di Goldman Sachs - al Tesoro USA, è evidentemente il controllato che ha occupato il posto del controllore.
    Nel momento in cui il collasso provocato dalla finanza senza scrupoli che la super-banca rappresenta, potrebbe indurre l’apparato pubblico ad alcune misure di freno alla deregulation, qualche provvedimento sgradito agli speculatori finanziari.
    Come ovvio, ora nessuna riforma del sistema impazzito sarà più possibile.
    Gli interessi della finanza iper-speculativa sono garantiti dal ministro del Tesoro.
    Dopo tante urla sui conflitti d’interesse di Berlusconi anche sui giornali dell’alta finanza anglo-americana (dall’Economist al Financial Times) è molto istruttivo che non un sospiro si levi nel mondo a far notare il conflitto d’interesse di mister Paulson.
    Questo «cristiano scientista» (la sua setta si chiama così) che l’anno scorso ha ricevuto in emolumenti Goldman 38,8 milioni di dollari, oggi va a contentarsi di 171.900 dollari annui come «statale»: a guadagnare cioè un quinto di uno a scelta dei nostri statali di lusso, come Mario Draghi.



    Ma Paulson non è un eroe dell’interesse pubblico: non è solo il massimo dirigente della super-banca d’affari; ne è anche il maggior azionista individuale (1).
    Stranamente, nessuno in USA chiede che, almeno, venda le sue azioni.
    Perchè nessuno fiata?
    Per lo stesso motivo per cui si può attaccare e deridere Berlusconi e perfino Bush, ma non un membro della Goldman Sachs che va e viene da posti di governo in cui non dovrebbe stare: per paura.
    Come scrive Machiavelli (e mi ha ricordato un amico greco, Dimitri Michalopoulos) (2) la risposta è in un passo del Principe che cerco di rendere in italiano moderno: «Gli uomini hanno meno ritegno ad offendere un [governante] che voglia farsi amare, che uno che si faccia temere. Perché l’amore è tenuto a un vincolo di obbligo il quale, essendo gli uomini malvagi, viene rotto ad ogni occasione di utilità propria; ma il timore è tenuto da una paura di pena che non abbandona mai».
    Immortale Machiavelli: il potere è ancora quello, non cambia mai.
    Gli uomini non agiscono che per il loro interesse e non obbediscono se non per paura.
    Il timore resta il motivo primordiale della politica, e il potere è potere di far paura, di poter minacciare danni, miseria e peggio, a chi si oppone.
    Bush, in calo disastroso nei sondaggi, abbandonato dalla volontà popolare, si appoggia ormai apertamente alla sola «volontà» da cui si riconosce dipendente.



    Mostra apertamente che è una marionetta controllata, e si affianca sulla scena il burattinaio. Immagino conti così di garantirsi l’appoggio dei poteri da cui dipende, molto più decisivi dei voti degli elettori.
    E’ un fatto che questi poteri non governano più solo dietro le quinte; nel momento in cui si profila una tempesta che può essere loro fatale, prendono direttamente le leve del comando.
    Per altri versi, la nomina dell’azionista Goldman Sachs al Tesoro non è che un’ultima dimostrazione, particolarmente plateale, del carattere che l’amministrazione Bush ha avuto fin dal principio.
    Con Rumsfeld al Pentagono, sono le aziende di produzione militare che hanno preso il loro principale committente e cliente.
    Con Dick Cheney a fare il vero presidente in carica, sono le petrolifere che hanno occupato il governo e lo manovrano per i loro interessi strategici.
    E’ l’esito estremo, parodistico, di un potere pubblico fanaticamente «privatizzatore».
    Nei giorni scorsi l’America ha visto un ultimo, incredibile esempio di «privatizzazione». Un’associazione medico-scientifica, l’American Society for Hypertension, ha enunciato una nuova e più ampia definizione dell’ipertensione.
    Prima, la diagnosi di ipertensione era semplicemente fondata su un solo elemento: una pressione sanguigna superiore a 140/90.
    Oggi, l’associazione dichiara «iperteso» un paziente che abbia pressione inferiore a quella, ma presenti certi altri sintomi deducibili da specifiche analisi.



    La nuova definizione non ha nulla di scientifico.
    E’ dovuta al fatto che la American Society for Hypertension ha ricevuto una donazione di 75 mila dollari da tre colossi farmaceutici, Novartis, Merck e Sankyo, con la promessa di altri 700 mila dollari per promuovere la nuova definizione tra i medici di base, invitati a cene di «informazione» a questo scopo (3).
    Le farmaceutiche hanno voluto crearsi dei nuovi pazienti, pagando una mancia ai dottori specialisti. Ad avere una pressione alta sopra i 140/90 sono ben 64 milioni di americani, ma ciò non basta al business.
    Ci sono altri 59 milioni che hanno pressione sui 120/80: definirli patologici «pre-ipertesi» significa aprire un nuovo immenso mercato per i farmaci, con grande vantaggio dei bilanci.
    Nel capitalismo terminale, sono le imprese farmaceutiche a definire che cosa è malattia; è ovvio che sia un banchiere privato a definire i compiti del ministero di controllo dei banchieri, il Tesoro.
    Così anche in questo il capitalismo terminale e il liberismo privatistico e parodistico diventa sempre più simile al sistema sovietico.
    Non solo perché anche là la confusione fra partito e Stato era totale.
    Soprattutto, perché la teoria marxista, applicata con rigore dal socialismo reale, rendeva impossibile la vita umana.
    Non a caso, essere americani fa male alla salute, come ha scoperto un’indagine statistica della American Medical Association.



    Negli Stati Uniti dove la sanità è totalmente privata, un americano spende il 40% più di un inglese per la salute, ma si ammala di diabete il doppio.
    E ciò indipendentemente dalla classe sociale, anzi: il terzo di americani più ricchi sono in media più malandati e malati del terzo degli inglesi più poveri.
    E ciò, nonostante gli inglesi siano più forti bevitori e accaniti fumatori (4).
    Il motivo è ovvio.
    Le assicurazioni sanitarie private non coprono le lievi spese e le modeste cure che possono prevenire malattie come il diabete, mentre pagano gli interventi estremi - come l’amputazione di arti - che diventano necessari alla fine del decorso diabetico: benchè più costose, queste «terapie» sono meno frequenti di una prevenzione di massa.
    Il sistema sanitario inglese spende un poco di più in prevenzione, e così risparmia sugli interventi eroici e distruttivi finali.
    Tra i 55 e i 64 anni, diabete e ipertensione devasta due volte più gli americani che gli inglesi.
    Naturalmente, v’è da tenere in conto che gli americani lavorano 46 settimane l’anno e per più ore ogni giorno, contro le 41 degli inglesi.
    E si potrebbe chiamare in causa l’alimentazione, che in USA è totalmente industriale.
    Per affezionare i clienti ai loro prodotti, le imprese alimentari USA li rendono «più saporiti».
    E il modo più economico di rendere saporiti i cibi, è aggiungere sale e grassi.
    Abituati a questi sapori fin dall’infanzia, i bambini americani mangeranno le stesse cose da adulti. Due su cinque finiranno mostruosamente obesi.



    La pubblicizzata introduzione di cibi «sani» è un inganno nell’inganno.
    McDonald’s ha lanciato la linea delle insalate, e contemporaneamente, il «Dollar Menu», doppio cheeseburger, patate fritte, bevanda e dolcetto per un dollaro, dicesi uno.
    In media, un negozio McDonald’s vende 400 «Dollar Menu» ogni 50 insalate.
    «Un successone, specie fra i giovani di colore a basso reddito, che non hanno sempre sei dollari in tasca», esulta Steve Levigne, vicepresidente della McDonal’s USA, sezione ricerche di mercato: le insalate «naturali» costano 3,19, un «sano» hamburger di pollo, 4,29.
    Nell’insieme, 6 dollari sono il minimo per non deglutire spazzatura pura e semplice da McDonald’s (5).
    Negli Stati Uniti dominati dalla finanza, si vendono pasti da un dollaro.
    Esiste un mercato pauperistico.
    L’impero Goldman Sachs è questo: l’american dream che si è volto in incubo e miseria
    semi-sovietica.
    Questo è anche il nostro futuro.
    Però, contrariamente a quel che imponeva l’impero sovietico, l’impero Goldman, Sachs & Co. non toglie a noi impauriti le consolazioni della fede: naturalmente dell’unica fede rimasta, la sola fede da professare pubblicamente e globalmente, che si celebra nella «memoria» liturgica obbligatoria.
    Questa fede, apprendiamo, ha già i suoi profeti e già fiorisce di miracoli.



    L’ultimo miracolo corre sulle agenzie: «La Madonna a Fatima previde la Shoah».
    Di questa profezia non si era mai avuta notizia dal 1917, anno delle apparizioni portoghesi.
    Ora ci assicurano che suor Lucia avrebbe scritto la circostanza in un diario nel 1955; diario inedito, che guarda caso sarà pubblicato il 10 giugno.
    La Vergine parlò nel ‘17 ai pastorelli di una guerra «che vorrà sterminare il giudaismo da dove provenivano Gesù Cristo, la Madonna e gli Apostoli che ci hanno trasmesso la parola di Dio ed il dono della fede, della speranza e della carità, popolo eletto da Dio, scelto fin dal principio» e per questo «popolo della salvezza» (6).
    Tutto vero, naturalmente.
    E non pensate ad una bufala, soprattutto non ditelo: vi pende sul capo l’accusa di negazionismo. Non solo antisemita, ma ormai anche anticattolico (7).
    Considerate invece umilmente come anche la Vergine aderisse già allora alla fede pubblica civile e mondiale, oggi resa obbligatoria per legge nei nostri tempi felici.
    E come, con le precise parole della nuova liturgia, ricalcasse già nel 1917 la neo-teologia sull’elezione perenne del popolo eletto.
    Il terzo segreto di Fatima è finalmente rivelato.
    Questa è una rivelazione più grande di quella dell’Immacolata Concezione, richiede un’enciclica che la proclami urbi et orbi e ne spieghi le profonde implicazioni teologiche.
    La attendiamo con ansia, mentre celebriamo i riti mea culpa dal culto olocaustico per i noachici.
    A meno che non arrivi invece una smentita; ma non ci si speri troppo.

    Maurizio Blondet




    --------------------------------------------------------------------------------
    Note
    1) Financial Times, 31 maggio 2006.
    2) Dimitri Michalopoulos, «L’Islam et ‘le Prince’ de Nicolas Machiavel», atti del convegno «Arab and Islamic world», Divri, Grecia, 2003.
    3) «Redefining hypertension», International Herald Tribune, 31 maggio 2006.
    4) Paul Krugman, «Our sick society», New York Times, 5 maggio 2006.
    5) Melanie Warner, «McDonald’s revival ha hidden health costs», 6 maggio 2006.
    6) Pubblica il mirabolante documento una casa editrice cattolica, detta Zenit. Proseguono le agenzie: «nell’introduzione, padre Geremia Carlo Vechina, confessore di suor Lucia,racconta che la veggente aveva lavorato alla stesura di uno scritto sulle
    passate apparizioni della Madonna su richiesta dell’allora generale dell’Ordine dei Carmelitani, Anastasio Ballestrero, futuro cardinale che sarà anche presidente della CEI scomparso nel 1998, in occasione di una sua visita a Coimbra nel 1955. Il diario, in seguito, fu inviato a Roma per ordine di Papa Paolo VI, ‘ma - scrive padre Vechina - rimase dimenticato negli Archivi Vaticani’ insieme al famoso terzo segreto di Fatima che un altro Papa, Giovanni Paolo II, farà conoscere al mondo solo nel 2000, in
    pieno Giubileo. Terzo segreto che, come si ricorderà, prevedeva una lunga serie di persecuzioni per la Chiesa, fino a presagire il ferimento di ‘un vescovo vestito di bianco’, immagine che non pochi osservatori - Papa Wojtyla in testa - hanno messo in relazione all’attentato di Giovanni Paolo II del 13 maggio 1981 in piazza San Pietro».
    7) Ricordare magari quel che diceva l’antiquato Vangelo, sui tempi ultimi dell’Anticristo: «Farà prodigi tali, da sedurre, se possibile, persino gli eletti». «Siederà sul trono di Dio, dichiarando dio sé stesso» e pretendendo culto divino. «Ma prima verrà l’apostasia», e così via. Ricordi di una vecchia religione ormai superata.

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    1) Il super potere forte, Goldman Sachs

    “L’Europa è in vendita, Goldman sta acquistando”. La statunitense banca d’affari è, senza ombra di dubbio, il vero centro di potere privato mondiale, che è scesa, ultimamente, più agguerrita che mai per fare shopping in Europa. Fondata nel 1869 a Manhattan, grazie a due immigrati tedeschi: Marcus Goldman e Samuel Sachs, oggi, è una vera forza “imperialista”, col dire di Vladimir Ilic Uljanov detto Lenin. La Goldman Sachs è una vecchia conoscenza del nostro Paese. Tant’è. Nel 1992, banchieri, finanzieri e manager italiani, statunitensi e anglo-olandesi si incontrarono sul panfilo della regina Elisabetta, Britannia, e discussero del processo di privatizzazioni. Allora, si stabilì, di fatto, lo smantellamento del capitalismo pubblico italiano a prezzi stracciati. Guarda caso, tra i croceristi eccellenti c’era il finanziere George Soros, super finanziere d’assalto di origini ungheresi ma yankee d’adozione, a capo del “Quantum fund” (diretta emanazione del gruppo Rothschild) e protagonista di una incredibile serie di crack provocati in svariate nazioni, potendo contare su smisurate liquidità di diversa provenienza a volte ignota e oscura. A giugno, Britannia navigava nelle acque del Tirreno e tre mesi dopo, sarà settembre nero. In quel mese, ci fu la svalutazione del 30% della lira, facendo perdere, all’Italia, risorse, pari a 50 miliardi di dollari. Allora, in Bankitalia, c’erano il governatore Ciampi e il direttore centrale Dini, che fronteggiarono il maxi attacco speculativo nei confronti della lira.
    Tanto per cambiare, l’operazione fu resa perfetta, grazie allo zampino dell’agenzia di rating Moody’s che declassò, senza leggere e scrivere, i Bot. Chi pagò caramente il crollo della lira, fu il risparmiatore italiano. Al che, Bettino Craxi puntò l’indice contro “una quantità di capitali speculativi provenienti sia da operatori finanziari che da gruppi economici”, parlando di “potenti interessi che pare si siano mossi alla scopo di spezzare le maglie dello Sme”, e di un “intreccio di forze e circostanze diverse”. In quel periodo, il governo italiano, che usciva sfiancato finanziariamente dalla svalutazione, avviò il processo di privatizzazione. Come dire, la ciliegina finale. All’evento, la Goldman Sachs non si fece trovare impreparata, visto che ha il dono di trovarsi al momento giusto e al posto giusto, quando in giro c’è profumo di affari. La banca giocò, allora, un ruolo decisivo e, oggi, corsi e ricorsi storici, sta facendo altrettanto per l’Europa, facendo più private equality e shopping nel settore delle infrastrutture, immobili e tecnologie. Aggiunge al mestiere di banca d’affari, l’attività di “compradores”, ossia rileva pezzi importanti di attività economiche. Si serve per gli acquisti di fondi e/o di strumenti finanziari esterni costituiti ad hoc, accompagnandosi, però, nelle operazioni, ad altri investitori. In questi giorni, la banca d’affari è impegnata ad acquistare il maggiore operatore portuale inglese, la Associated Britisch Ports, per 4 miliardi. Prima aveva rilevato per 3,7 miliardi il 51% di una grande fetta immobiliare della catena tedesca Karstadt. Quanto all’Italia, Goldman Sachs è sbarcata da tempo.
    Nel 2000, in Italia, fece shopping e business, avendo al fianco il suo fondo Whitehall, nel ramo immobiliare. Comprò dall’Eni, in via di dismissioni di rami secchi, l’area immobiliare di 300 mila metri quadrati di San Donato Milanese per circa 3000 miliardi di vecchie lire, dove dovevano trasferirsi i locali della Rai di Corso Sempione. Fu il primo grande acquisto immobiliare, ma non l’ultimo. Infatti subito dopo ne fece altri, tra cui gli immobili della Fondazione Cariplo nonché, con un altro big Usa, Morgan Stanely, i patrimoni mattonari di Unin, Ras e Toro. Sul piano industriale, la Goldman Sachs è presente nel capitale di Pirelli Cavi, mentre, recentemente, ha fatto il suo ingresso nel fondo Management&Capitali di Carlo De Benedetti. Nel 2001, il neo governatore di Bankitalia, Mario Draghi, quando si dimise da direttore generale del Tesoro e da responsabile delle privatizzazioni, passò armi e bagagli alla vice presidenza della Goldman Sachs International. In quel periodo, la banca d’affari svolse il ruolo di “advisor” di Abn Amro e di Banco di Bilbao: la banca olandese ha comprato l’AntonVeneta e gli spagnoli la Bnl. Inoltre, nel board di Goldman Sachs ha figurato anche Romano Prodi. Al momento, Mario Monti è l’unico italiano rimasto nella banca d’affari come consulente. Uomini forti per un potere superforte.

    di Biagio Marzo
    L’Opinione - Edizione 72 del 03-04-2006

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    2) L’Italia consegnata a Goldman Sachs
    Nel 2005 la banca d'affari Goldmans Sachs - la stessa che si è assicurata il dominio in Italia con Draghi governatore, e presto se lo assicurerebbe con Prodi premier - è stata la prima nel mondo come «consulente» in fusioni e acquisizioni (m&a).

    Mario Draghi a Bankitalia, proveniente dalla Goldman Sachs.
    Mario Monti uscente dalla Commissione, è stato assunto alla Goldman Sachs.
    Romano Prodi, futuro presidente del Consiglio, nella sua vita è entrato infinite volte a servizio della Goldman Sachs: era lì che trovava lavoro quando usciva dal settore pubblico italiano.
    Non sarà un conflitto d'interessi? Un tantino? Poco poco?
    Ma non si può eccepire. E' vietato.
    Nel quadro che ha creato Il Corriere dei Montezemolo e del resto del salotto buono, una nuova Mani Pulite (stavolta contro le sinistre arroccate attorno alle COOP), queste nomine e assunzioni ci dicono che non sarà più permesso formulare domande politicamente poco corrette, criticare le scelte degli Illuminatissimi Fratelli.
    E' la consegna dell'Italia ai poteri forti e alla banca d'affari americana.
    Chissà che miele secerne la Goldman Sachs per attrarre così importanti maggiordomi dei poteri forti, o che linfa secerne l'Italia, per suscitare le cupidigie della Goldman Sachs: non abbiamo già dato, in privatizzazioni?
    Gioielli industriali dell'IRI, pagati mille volte dai contribuenti italiani, non sono già stati svenduti tutti per un boccone di pane?
    Non ha già regalato Ciampi la Nuovo Pignone, leader mondiale, alla sua concorrente americana?
    E le banche d'affari americane, Goldman Sachs, Merril Lunch e Morgan Stanley, non hanno già incamerato allora - quando la prima Mani Pulite rese impossibile la difesa di quei gioielli, fu per questo che Craxi fu distrutto - 3 mila miliardi in grasse commissioni, per la loro esperienza nelle privatizzazioni?
    Chissà.
    Sembra ieri quel 2 giugno 1992, quando il «Britannia», panfilo di sua maestà britannica, arrivò di fronte a Civitavecchia con tutti i banchieri della City a bordo (Warburg e Barclay, Coopers Lybrand, Barino, eccetera) a intimare le condizioni della finanza anglo sullo smantellamento delle partecipazioni statali.
    Una torta da 100 mila miliardi, come scrisse Massimo Gaggi, giornalista de Il Corriere che era a bordo.
    Ci andò anche Mario Draghi, d'ora in poi intoccabile e non criticabile governatore di Bankitalia. Allora era direttore del Tesoro.
    E dovette giustificarsene in audizione parlamentare: «dopo aver svolto l'introduzione me ne andai, e la nave partì senza di me…in questo modo evitai ogni possibile sospetto di commistione».
    Il Britannia infatti prese il largo.
    In acque internazionali, su suolo britannico, gli italiani invitati ascoltarono le condizioni.
    Fatto è che Draghi, nell'introduzione, aveva lodato le privatizzazioni così: «uno strumento per limitare l'interferenza politica…un obbiettivo lodevole»: lo stesso programma de Il Corriere oggi. Allora, il tecnocrate dettava la linea politica.
    Bastava: poi scese.
    Restarono, fra gli altri, Rainer Masera (un altro intoccabile), Giovanni Bazoli (Ambroveneto), Beniamino Andreatta: che sarebbe diventato di lì a poco ministro.
    Nel governo Amato, al Bilancio; nel governo Ciampi agli Esteri, nel governo Prodi alla Difesa.
    Un coccolone ha impedito al Beniamino tecnocratico di ricoprire altri ministeri, di perfezionare i danni.
    Gli altri, purtroppo, sono vegeti e pronti.
    A consegnare l'Italia a Goldman Sachs.
    Nel settembre '93, alla privatizzazione della Comit fu incaricata di presiedere la Lehman Brothers; a quella del Credit, la Goldman Sachs.
    In verità Franco Nobili, il precedente capo dell'IRI, aveva dato quest'ultimo incarico alla Merrill Lynch; ma a quel punto Nobili era in prigione in attesa di giudizio per Mani Pulite (solo il tempo necessario: poi sarà prosciolto con formula piena), e comandava Prodi.
    Fu Prodi a dare l'incarico alla Goldman Sachs, «della quale era stato consulente fino a pochi giorni prima». (1)
    La Merrill Lynch, nel giorni in cui aveva l'incarico, aveva offerto alla Deutsche Bank il pacchetto di Credito Italiano in proprietà all'IRI per 6 mila lire ad azione.
    La Goldman Sachs fissò il valore del Credit a 2.075 lire per azione, meno della quotazione in Borsa, che era sulle 2.230 lire.
    Insomma vendette per 2.700 miliardi qualcosa che ne valeva almeno 8 mila.
    Persino l'Espresso si chiese: «è dunque un regalo quello che l'IRI sta facendo al mercato? Dal punto di vista patrimoniale è così».
    Prodi ne ha fatti, di regali.
    L'Italgel, 900 miliardi di fatturato, venduta per 437 alla Nestlé.
    La Cirio-Bertolli-De Rica (CBD), 110 miliardi di fatturato, valutata sui 1.350 miliardi, venduta a una finanziaria lucana mai sentita, la FISVI di tale Francesco Lamiranda, «appoggiato dalla sinistra democristiana della Campania» secondo Il Corriere.
    Era la sua unica credenziale, perché Lamiranda soldi non ne aveva.
    Offrì dapprima 130 miliardi, poi 310.
    Avrebbe pagato, chiarì, vendendo i pezzi dell'azienda che si offriva di comprare.
    Ma restò l'unico acquirente.
    Un'asta ci voleva: non fu fatta.
    Bisognava vendere a questo Lamiranda.
    Pietro Larizza, allora capo della UIL, descrisse l'operazione così: «la FISVI acquista senza avere ancora i soldi per pagare; per formare il capitale necessario, vende una parte di ciò che ha comprato; per quel che rimane cerca ancora soci finanziatori per completare l'acquisto».
    Antonio Bassolino (un merito gli va riconosciuto) denunciò alla Procura di Napoli quell'affare: «c'è il pericolo che privatizzazioni fatte in questo modo espongano pezzi del nostro apparato produttivo alle mire speculative e affaristiche».
    Era peggio di così.
    Un perito di nome Renato Castaldo scoprì che dietro lo sconosciuto Lamiranda c'era l'Unilever, la multinazionale olandese.
    «E' documentato che la Unilever», scriveva, ha «inviato offerte, condotto trattative dirette e indirette con l'IRI…predisponendo anche le clausole da inserire nel contratto» fra Prodi (IRI) e Lamiranda.
    L'Unilever?
    Prodi è stato consulente dell'Unilever dal '90 al '93, come consulente di vaglia, a decidere le acquisizioni.
    Ecco dov'è il miele che Goldman Sachs cerca.
    Ecco dov'è la linfa che trovano i grand commis nella Goldman Sachs.
    L'ape cerca i fiori, i fiori si volgono all'ape.
    E' una storia d'amore.
    Non amano noi, però.
    Ci vogliono spogliare.
    NOTE
    1) Massimo Pini, «I giorni dell'IRI, storie e misfatti da Beneduce a Prodi», Mondatori, 2000, pagina 238. Gran parte delle informazioni di questo articolo vengono dal libro di Pini.

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    3) Lo spettro delle svendite incombe sull’Eni
    Dopo aver lasciato lo Stato “in mutande”, gli ex di Goldman Sachs guardano al colosso energetico

    Ora che un dirigente della Goldman Sachs guida la Banca d’Italia e un consulente della Goldman Sachs si prepara a guidare il governo delle sinistre vogliamo che lorsignori lo sappiano: li teniamo d’occhio. Siamo noi, il popolo italiano, i loro datori di lavoro: se li vedremo obbedire di nuovo a Goldman Sachs lo denunceremo con tutti i mezzi.
    Perché le loro passate azioni non ci lasciano tranquilli. Queste azioni sono già state raccontate, ma vale la pena di metterle in luce più chiara.
    Tutto comincia nel settembre 1992, quando il finanziere americo-ungaro-israeliano George Soros lancia un attacco speculativo contro la lira. Carlo Azeglio Ciampi è capo di Bankitalia. La sola cosa che dovrebbe fare sarebbe una telefonata alla Banca Centrale tedesca (Bundesbank), la più potente d’Europa e chiedere: mi sostenete? Ossia: siete disposti a spendere centinaia di milioni di dollari per acquistare lire, sostenendo il corso della nostra moneta? Se quelli rispondevano di no, ogni difesa era inutile, perché impossibile, dato che Soros usava l’effetto-leva dei derivati: per ogni dollaro che puntava, era come ne puntasse cento. Bankitalia, a quel punto, doveva fare solo una cosa: lasciare fluttuare la lira ai venti della speculazione. Invece Ciampi “difende” la lira da solo: dilapidando 48 miliardi di dollari in valuta estera e prosciugando le riserve valutarie di Bankitalia.
    E come previsto la manovra non riesce. La lira si svaluta del 30%. Ciò significa che da quel momento, gli stranieri che vogliono acquistare le industrie di stato e parastato italiane, potranno pagarle il 30% in meno. La preparazione alle svendite era già avvenuta. Il panfilo “Britannia” della regina d’Inghilterra era apparso davanti a Civitavecchia (2 giugno 1992), per dettare le condizioni delle privatizzazioni. Il “Britannia” era carico di finanzieri della City, delegati dei Warburg, dei Baring, dei Barclays: costoro convocano sul Britannia (ossia su suolo inglese) esponenti di spicco dell’Iri, dell’Eni, dell’Agip, della Comit, di Assicurazioni Generali e, come si sa, Mario Draghi, allora direttore del Tesoro, dipendente pubblico italiano. Draghi scende prima che il “Britannia” prenda il largo diventando suolo inglese ma ha il tempo di fare un discorsetto in cui approva l’urgenza di privatizzare per sottrarre le industrie di Stato alla politica. Fatto sta che, sceso Draghi, i finanzieri di Londra si dividono, come al mercatino dell’usato, i gioielli dell’economia italiana. E si profilano altri sconti.
    Difatti, di lì a poco, sale al governo Giuliano Amato: anche lui un coccolino dei “poteri forti” finanziari internazionali. Basta a indicarlo il fatto che Amato, braccio destro di Bettino Craxi, viene miracolosamente esentato dalla bufera di Tangentopoli. In quel frangente, guarda caso, l’agenzia Moody’s - di punto in bianco, e senza che sia accaduto nulla di nuovo - “declassa” l’Italia, mettendola fra i paesi a rischio d’insolvenza.
    Risultato: lo Stato deve pagare interessi più alti sui Buoni del Tesoro, se vuole che qualcuno glieli compri. Lo Stato si dissangua; e poiché subito Soros lancia la speculazione sulla lira, tutto peggiora. È una manovra concertata fra Moody’s, Soros e i suoi banchieri di riferimento (Rotschild)? Io penso di sì. Ricordo un fatto degno di nota: fra i più accaniti speculatori contro la lira nella fase iniziale dell’attacco di Soros, si segnalano Goldman Sachs e Warburg. Quei Warburg che poi “consigliano” al governo italiano di rivolgersi a Goldman Sachs per gestire le privatizzazioni.
    E così l’alta finanza internazionale si sceglie i gioielli di stato, con calma, soppesandoli come la massaia che compra i peperoni al mercato. Perché costano poco: le privatizzazioni 93-94 renderanno allo stato solo 26 mila miliardi; Ciampi da solo, nella sua inutile “difesa della lira”, ha speso il doppio (denaro pubblico, di noi contribuenti). Tutti ci commuoviamo quando il nonno d’Italia ci esorta ad aver fiducia nella Patria. Chissà se ha sventolato il tricolore anche nella riunione del Bilderberg del 22-25 aprile 1993, che si riunì in Grecia e aveva il tema Italia all’ordine del giorno. Non lo sappiamo perché la riunione, come sempre, fu a porte chiuse. Certe fonti danno presente Ciampi a quella riunione, ma non ne siamo sicuri, e non possiamo esserlo, data la segretezza che le circonda. Erano presenti, si dice, anche Gianni Agnelli coi suoi fidi: Mario Monti, Antonio Meccanico, Tommaso Padoa Schioppa, Renato Ruggero. Patrioti anche loro. Ma di quale patria?
    Il fatto è che, dopo quella riunione del Bilderberg, Ciampi fa una mossa delle sue: “internazionalizza” il debito pubblico italiano, fino a quel momento prevalentemente interno. È una scelta grave e non necessaria. All’epoca gli italiani, coi loro risparmi, comprano volentieri i Bot. Per lo Stato, è un vantaggio enorme: perché s’indebita coi suoi cittadini (a cui può chiedere “sacrifici”, ossia di pazientare a farsi pagare gli interessi) e nella sua moneta, la lira, che può stampare a volontà. Invece, Ciampi offre i Bot sui mercati finanziari esteri. Dove gli interessi dovrà pagarli in dollari, ossia in una valuta su cui non ha il controllo e che non può stampare quando vuole. Di fatto, mette il debito italiano nelle mani della grande finanza - le solite Goldman Sachs, Warburg, Barclays - e alla mercè delle “valutazioni” delle agenzie cosiddette “indipendenti” come Moody’s. La mossa di Ciampi riduce l’Italia nella situazione di un paese del terzo mondo; e senza alcuna necessità.
    Ecco la storia passata. Per questo dico: teniamoli d’occhio, i lorsignori che tornano al comando dell’Italia Questi vogliono ancora svendere qualcosa. Che cosa? Alcune fonti ci dicono: l’Enel, ma soprattutto l’Eni. S’intende, i due nostri relativi colossi sono già stati privatizzati. Ma, soprattutto l’Eni, non fa ancora del tutto gli interessi anglo-americani che nel settore dell’energia mirano ad accaparrarsi la disponibilità diretta delle fonti petrolifere, e mettere sotto controllo unico gli attori secondari nel gran mercato del greggio e del gas.
    L’hanno provato a fare con il petrolio russo: crollo organizzato del rublo, deficit alle stelle, un Boris Eltsin ben felice di vendere le vecchie imprese sovietiche a qualunque prezzo. Fu così che i Rotschild prestarono a un piccolo avventuriero russo, Khodorkovski, i soldi per comprare a prezzi da usato la Yukos. Ora che Vladimir Putin si è ripreso la Yukos e fa una “propria” politica nazionale energetica con la sua Gazprom, gli anglo-americani cercano in tutti i modi di isolare la Russia. La presenza di aziende relativamente autonome come l’Eni ostacola questo processo di soffocamento.
    Occhio a lorsignori. Italiani di destra e di sinistra, di centro e di sotto e di sopra: teniamoli d’occhio noi, perché non c’è nessun altro che faccia gli interessi italiani.

 

 

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