Maurizio Blondet
06/06/2006


Sabato scorso a Baghdad.
Una Chevrolet Suburban.
L’auto si ferma a 400 metri dall’ambasciata russa, perché alcuni dei passeggeri - diplomatici di Mosca - vogliono comprare della verdura.
Compare un gruppo di uomini armati che bloccano il veicolo ed aprono il fuoco.
Vitali Titov, una delle guardie di sicurezza russe, viene ferito gravemente, e morirà poco dopo.
Gli armati prendono quattro dei diplomatici, li caricano a forza su un minibus e spariscono, mentre dall’ambasciata accorrono persone per dare una mano ai colleghi: troppo tardi.
Adesso, da Mosca si alzano varie voci che accusano i comandi USA di essere dietro il rapimento (1).
L’unica voce che accetta di darsi un nome è Abbas Halaf, che è stato ambasciatore dell’Iraq a Mosca.
«Gli USA vogliono punire la Russia per le sue attività nella regione e specialmente in Iraq».
Ed ha ricordato un «incidente» avvenuto ai primi di aprile 2003: nei primi giorni dell’invasione americana, una colonna di auto con il personale dell’ambasciata moscovita a Baghdad, che stava abbandonando il Paese, fu attaccata a mitragliata da truppe USA praticamente al confine con la Siria.
Gli americani parlarono di un «errore», anche se le auto avevano ben visibili le bandiere e i contrassegni diplomatici.
Ci furono diversi feriti gravi.
Calipari non fu il primo a subire gli «errori» dei gloriosi Marines.

In questo rapimento, i motivi di sospetto sono numerosi.
Il primo: sabato scorso numerose agenzie di stampa hanno riportato che i diplomatici russi sequestrati erano stati liberati da un’operazione speciale condotta da truppe USA e irachene.
Notizia del tutto infondata, smentita poco dopo dal ministero dell’Interno iracheno.
Chi e perché ha diffuso questa disinformazione?
Perché è stata subito creduta da note agenzie?
Nessun gruppo terrorista ha rivendicato il sequestro dei russi.
Nessuno si è fatto vivo.
Dalla caduta di Saddam, 200 stranieri e un migliaio di iracheni almeno sono stati rapiti, per lo più a scopo di estorsione.
Proprio per questo, in genere i rapitori si fanno vivi per chiedere il riscatto entro 24 ore.
Qui sono passati giorni nel silenzio completo.
I sequestrati tipici sono giornalisti ed altro personale occidentale o individui provenienti dai ricchi Stati del Golfo, che possono pagar grossi riscatti.
I russi non entrano in queste categorie ricche.
Il motivo del rapimento dev’essere diverso da quello del profitto.
«Certi specialisti» anonimi sentiti dalla Pravda dicono che «l’amministrazione USA è scontenta dell’azione politica di Mosca in Iraq, che contraddice gli scopi di Washington, e delle attività dei servizi speciali russi» nel Paese.

Cosa siano queste attività non è detto.
Ma quei «certi specialisti» hanno certo le loro buone ragioni e informazioni per sospettare degli americani.
D’altra parte, non è la prima volta che osservatori «specializzati» denunciano, dietro il folle, continuo e incomprensibile massacro che ha luogo in Iraq non già la guerriglia, ma «americani sconosciuti che provocano la guerra civile»: così per esempio una fonte dei servizi siriani ha confidato al noto giornalista Robert Fisk.
Storie di giovani reclute della polizia irachena, forniti di un cellulare dagli americani e mandati
in mezzo a una folla, dove il cellulare ha innescato un'esplosione.
Altri poliziotti cui è stata affidata un’auto che poi è esplosa, facendo della recluta un «terrorista suicida» involontario.
Alcune di queste reclute si sono salvate per caso, perché non ricevendo un buon segnale, sono
uscite dalla macchina per chiamare, secondo le istruzioni ricevute, il loro comando: e boom,
hanno visto la loro auto saltare (2).
Voci identiche corrono fra la gente in Iraq.
Leggende metropolitane di una popolazione traumatizzata, forse.


Ma Robert Fisk è incline a credere che qualcosa di vero ci sia.
E chiama i mandanti di questi fatti «americani» avendo cura di usare le virgolette, perché, scrive, «ci sono in Iraq innumerevoli gruppi e corpi che lavorano per le forze armate USA e operano al di fuori di ogni legge o regola».
Sono questi ignoti «americani» che spesso sono ritenuti responsabili dell’uccisione di quasi 200 professori universitari iracheni, e di oltre 50 ex piloti militari iracheni che avevano partecipato al conflitto con l’Iran fra il 1980 e il 1988.
Tutti costoro sono stati trucidati nelle loro case.
«In certo senso, è colpa anche di noi giornalisti», dice Fisk.
«Incapaci di avventurarci fuori di Bagdad, o in Baghdad stessa, abbiamo visto svanire la vastità irachena in una spessa coltre di oscurità. Per paura del pugnale dei guerriglieri, non siamo più in grado di investigare quel che succede. E agli americani va bene così» (3).

Maurizio Blondet

Note
1) Dmitri Sudakov, «US administration can be behind attack against russian diplomats in Baghdad», Pravda, 5 giugno 2006.
2) Robert Fisk, «Seen through a syrian lens, ‘unknown americans’ are provoking civil warin Iraq», Independent, 28 aprile 2006.
3) Robert Fisk, «The way americans like their war», Counterpunch, 4 giugno 2006.




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