Hannah Arendt.
Contro l'invasione della società civile

In pieno centenario della nascita, un’analisi non comune né casuale del pensiero profondo di una grande filosofa della politica e della realtà. Nemica di ogni totalitarismo, Hannah Arendt non concedeva uno iota nemmeno a quello sornione delle masse inerti e atomizzate. La filosofia politica non è semplicemente una disciplina per addetti ai lavori, ma l’espressione massima della libertà della persona umana. Un pensiero straordinario ancora in cerca di eredi autentici


di Alain de Benoist

Il Domenicale 3-06-2006

Snobbata e ignorata per lungo tempo. Considerata dalla destra un’autrice di sinistra per la sua critica del capitalismo liberale e dalla sinistra, invece, un’autrice di destra a causa della sua ostilità al comunismo. E per il suo entusiasmo per la polis greca. «Per me fa lo stesso», diceva nel 1972 durante un convegno a Toronto: «Non credo che questo genere di cose sia in grado di chiarire alle persone i più importanti e reali problemi di questo secolo».
Il grande pubblico non la legge che dopo alcuni anni. Trent’anni dopo la sua morte si riscopre oggi Hannah Arendt, il cui centenario della nascita, nel 2006, ha già prodotto una notevole serie di pubblicazioni e di riedizioni di opere.
Hannah (Johanna) Arendt è nata il 14 ottobre 1906 a Linden, nei pressi di Hannover, da una famiglia ebrea non religiosa di origine russa. I suoi genitori appartenevano al movimento socialdemocratico e simpatizzarono con il giudaismo riformatore. Molto presto interessata alla filosofia (legge la Critica della ragion pura d’Immanuel Kant all’età di quattordici anni), inizia nel 1924 gli studi a Marburg. Lì frequenta i corsi di Martin Heidegger, che, a quei tempi è sposato e ha trentasette anni.
Hannah Arendt ne ha invece diciotto. Hans Jonas la descrive, a quell’epoca, come «timida e introversa, con un bel viso e uno sguardo solitario». Fra il professore e la sua allieva s’intreccia una relazione amorosa di grande intensità, che finirà l’anno successivo, ma lascerà sia nell’uno che nell’altra tracce profonde.

Fino alla fine della sua vita, Hannah Arendt continuerà a vedere in Heiddeger il «re segreto» di tutto il pensiero contemporaneo. Quest’ultimo confesserà più tardi in una lettera, datata 1950, che lei fu l’immensa «passione della sua vita». Hannah Arendt prosegue gli studi a Friburgo con Edmund Husserl, poi ad Heidelberg con Karl Jaspers. Qui, nel 1929, discute la tesi di dottorato. Poco dopo si stabilisce a Berlino, dove sposa lo scrittore e giornalista Günther Anders. Agl’inizi degli anni Trenta, si unisce al movimento sionista. Dopo l’avvento al potere di Adolf Hitler in Germania, nell’autunno 1933, emigra a Parigi dove conosce Alexandre Kojéve, Raymond Aron e Jean-Paul Sartre. Nel 1935 compie il primo viaggio in Palestina. Divorziata da Günther Anders nel 1937, si risposa nel gennaio 1940 con l’autodidatta spartachista Heinrich Blücher.
Internata nel 1940, per cinque settimane, al campo di Gurs, sui Pirenei, riesce l’anno seguente a raggiungere gli Stati Uniti con la madre e il marito. Due anni più tardi la si ritrova nel gruppo “Ihoud”, fondato nel 1942 da Judah Martin Buber per la riconciliazione giudaico-araba e la creazione di uno Stato federativo o confederale che associ ebrei e palestinesi. Successivamente condannerà l’azione terrorista dei membri dell’Irgoun e del gruppo Stern. Al momento della creazione dello Stato d’Israele, poi, nel 1948, la rottura con il sionismo è definitiva.

Terminato fin dal 1949, il libro che ha reso celebre la Arendt, Le origini del totalitarismo, viene pubblicato in lingua inglese nel 1951. Contrapponendosi alle teorie che tendono a vedere nei sistemi totalitari riapparizioni “arcaiche” o ancora forme di dispotismo classico semplicemente spinte all’estremo, la Arendt afferma, al contrario, che il totalitarismo è un fenomeno radicalmente nuovo. Di cui non si può afferrare l’essenza se non attraverso un’analisi critica della Modernità. Più precisamente, ella concepisce il totalitarismo come punto d’arrivo di una crisi della società che ha origine nel modo stesso in cui la Modernità si è formata. Il totalitarismo, ritiene la Arendt, nasce dall’atomizzazione della società che accompagna storicamente la crescita dell’emancipazione politica della classe borghese.

L’ideologia del Sé

L’alleanza della borghesia e delle masse sradicate ne rappresenta un elemento-chiave, e l’avvento del totalitarismo ne rivela al tempo stesso la disintegrazione del quadro sociale e politico europeo. L’ideologia totalitaria è dunque caratterizzata da una coerenza “paranoica”, vale a dire da una coerenza che non si ritrova nella realtà e che essa cerca di ordinare semplificando. «Le masse – scrive la Arendt – sono sostenute dal desiderio di fuggire la realtà perché, nel loro sostanziale sradicamento, non riescono più a sopportarne gli aspetti accidentali e incomprensibili».
Da qui il successo delle ideologie in cui le idee si connettono fra loro senza riferimento alla realtà ma, con l’evidente intenzione di sostituirvisi.
La modalità di funzionamento dei regimi totalitari è dunque più illuminante dell’ideologia a cui essi stessi si richiamano o degli obiettivi che cercano di perseguire. Il loro motore è il terrore, la cui pratica quotidiana può colpire chiunque.

Contrariamente ai dispotismi classici, che si limitano a volere la sparizione di ogni opposizione, i regimi totalitari vogliono regnare sulle coscienze controllando i pensieri. Meglio ancora, il terrore viene perseguito anche quando l’opposizione è stata eliminata. Sostenuto dall’ideologia del Sé, il totalitarismo mira allo sradicamento definitivo dell’Altro. «Il totalitarismo – osserva la Arendt – non tende a sottomettere gli uomini a regole dispotiche, ma ad asservirli a un sistema in cui gli uomini sono di troppo».
Questa dinamica ossessiva rivela quello che la Arendt chiama il non-senso del totalitarismo. Un non-senso che si esprime anche nell’assenza di fini («il movimento per il movimento»), cui corrisponde la profonda instabilità dei regimi totalitari. Il totalitarismo appare così in fine come una fuga in avanti in una sorta d’iperrealità ideologica in rapporto alla quale la vera realtà non conta più.
Certo, quest’analisi del totalitarismo è stata discussa, ma talvolta pure male accolta. Il fatto di studiare contemporaneamente comunismo e nazionalsocialismo ha del resto generato scandalo in particolare fra le file della Sinistra.
«L’ignoranza, la negligenza e perfino l’ostilità di cui la Arendt è stata oggetto in Francia – noterà Claude Lefort nel 1985 – reca l’impronta di quel marxismo che ha sempre costituito un evidente ostacolo all’accoglimento delle sue idee».
Detto questo, ancora più importante del suo studio del totalitarismo appare allora il libro che la Arendt pubblica nel 1958, tradotto in Francia con il titolo: Condition de l’homme moderne.

Di questa opera Paul Ricoeur ha potuto dire, nella prefazione alla nuova edizione francese del 1983, che rappresenta «il libro della resistenza e della ricostruzione». Si tratta, in effetti, di una sorta d’introduzione al saggio sui totalitarismi.
In esso la Arendt fa di continuo ritorno ai greci, al punto che alcuni l’accusarono di grecomania, anzitutto per definire la politica e per criticare le false rappresentazioni che di essa sono state date.
In effetti, ai suoi occhi, il modello greco è soprattutto la creazione di uno spazio politico, unico vero luogo di espressione della qualità umana dell’uomo, nella misura in cui rende possibile la fondazione di un mondo comune retto dal nomos.
Lo spazio aperto dalla politica è uno spazio cioè di parola partecipata: non esiste che per la discussione pubblica dei cittadini, la quale trasforma le opinioni soggettive in elementi di riflessione oggettive sul bene comune.
Non c’è politica, afferma la Arendt, se non laddove gli uomini si riconoscono vicendevolmente come cittadini e cittadini che si pongono assieme sotto l’orizzonte di un mondo comune.
La Arendt fa dunque della politica l’espressione più grande della libertà umana: la politica non può insomma mai prendere la forma della necessità senza con questo tradire la propria essenza. Nel momento in cui un uomo politico pretende che l’azione umana sia globalmente sottomessa alla necessità, ovvero pretende che vi sia una sola risposta possibile a un problema politico, la politica svanisce.




Gli “espertocrati”

La Arendt allude qui, ovviamente, ai tecnocrati e ai gestori dell’“espertocrazia”. Ma la sua critica riguarda sia il totalitarismo sia ogni forma di storicismo.
La vita politica implica per lei la pluralità giacché è estranea al regno della necessità. Ma qusto non solamente nel senso che a tale termine viene dato in una ottica liberale. Quando parla di pluralismo, la Arendt formula infatti anche l’idea che in politica vi sono sempre più risposte possibili ai problemi che si presentano, insomma l’idea che la discussione pubblica deve esplicitare, attraverso il confronto delle diverse visioni del mondo, la dimensione plurale del pensiero umano, e che quindi niente è più estraneo all’azione politica di una forma di amministrazione degli uomini ricalcata sulla gestione delle cose.
Peraltro, la Arendt constata come una concezione siffatta della politica sia oggi in gran parte perduta.
Dopo di che, ella tenta di scoprire quando e come si sia operata la rottura con la tradizione, e al tempo stesso s’interroga sull’origine di questo sradicamento generalizzato in cui il totalitarismo ha trovato il proprio humus di crescita. E si risponde dicendo che l’epoca moderna ha rotto con la tradizione elevando il lavoro al rango di attività dominante.

La Arendt ricorda che gli antichi disprezzavano il lavoro, ai loro occhi condizione servile per eccellenza: per il cittadino libero lavorare significava infatti decadenza. Non che il lavoro non fosse necessario: al contrario, e solo la sua necessità che lo rende indegno.
Il lavoro che portava il segno della necessità caratterizzava del resto allo stesso tempo la sfera privata, anch’essa retta dalla necessità che i greci opponevano alla sfera pubblica, in cui si afferma la libertà. L’uomo, in quanto cittadino, afferma la propria identità pubblica, non la propria identità privata. La deriva comincia così nel momento in cui l’uomo si presenta sulla scena politica non più come cittadino preoccupato del bene comune, ma in nome del proprio suo interesse privato.
E per la Arendt questa deriva comincia con l’ascesa della classe borghese, la quale riduce la politica a un campo di scontro fra interessi. Essendo il politico il luogo del bene comune, la vita politica è minacciata ogni volta che l’interesse privato (o la “società civile”) tende a invaderla o a dominarla.
La Modernità, scrive la Arendt, ha progressivamente consacrato la prevalenza del lavoro e favorito l’estensione della sfera privata. Questa egemonia del lavoro ha portato dunque a una “scomparsa del mondo”. Ovvero al fatto che la connessione generale di ogni attività umana al solo lavoro salariato ha reso l’uomo estraneo agli altri modi che potrebbe egli avere di abitare il mondo.


La filosofa che ci manca

Questa conversione va peraltro di pari passo con l’accelerazione della produzione, la quale trasforma ogni cosa in semplice oggetto, ossia in bene di consumo. Le “cose da consumare” non hanno infatti una dualità che sia loro carattere peculiare: sono gettabili, sostituibili e rimpiazzabili a volontà. Il consumo si generalizza dunque in una fuga in avanti, intesa come mancanza perpetua e desiderio sempre inappagato, cioè come un divoramento.
E la compulsione alla produzione e al consumo è la forma moderna della necessità.
Hannah Arendt lascia insomma chiaramente intendere che nuove forme di totalitarismo sono possibili anche all’interno delle “società di lavoro”, le quali tendono a trasformarsi in vasti formicai economici caratterizzati dalla confusione fra privato e pubblico, dall’implosione della politica e dall’ossessione della crescita economica indefinita.
L’atomizzazione sociale, di cui l’egemonia del lavoro è una delle cause, fa quindi in modo che gli uomini divengano in qualche modo sostituibili gli uni con gli altri. Va di pari passo con la perdita dei punti di riferimento. Crea masse ridotte a non essere più esse stesse se non qualcosa di superfluo in un mondo trasformato in un “immenso accumulo di mercanzie”. A tutto questo la Arendt aggiunge poi una nota suggestiva: «quello che abbiamo davanti a noi è la prospettiva di una società di lavoratori senza lavoro, ovvero di lavoratori privati della sola attività che resta loro. Non si può immaginare niente di peggio».

In netta opposizione rispetto all’interpretazione di chi fa della civiltà occidentale l’erede della Grecia, la Arendt afferma dunque che l’Occidente si è costituito solo attraverso una vera frattura con il retaggio greco, cosa che peraltro ella giudica deplorevole.
Tuttavia, da realista, ella non ritiene possibile un ritorno alla tradizione; così come non esalta certo l’idea di un ritorno al passato, ma quella di un ricorso al lavoro del pensiero. Quando la tradizione che fornisce criteri di giudizio si dissolve, soltanto il lavoro del pensiero ne può fornire di nuovi.
Il pensiero, e in particolare il pensiero critico, è al tempo stesso il contrario della tradizione e ciò che permette di supplire alla sua scomparsa.
Nominata nel 1963 professore all’Università di Chicago – lo stesso anno in cui il suo libro sul processo contro il gerarca nazista Adolf Eichmann, La banalità del male, scatena una nuova polemica – ad Hannah Arendt verrà conferita nel 1969 una nuova cattedra di filosofia politica alla New School for Social Research di New York. Morirà di una crisi cardiaca il 4 dicembre 1975, lasciando incompiuto il suo ultimo lavoro, La vie de l’esprit.
Mai liberale né socialista, e ancor meno comunista, non è mai stata, per natura, preda dell’odio. Ha anzi sempre criticato la cultura del rancore, in cui vedeva un ulteriore segno della Modernità. Tendeva infatti a definire se stessa non come una filosofa, ma come una “teorica del politico”. Intellettuale pura, ha sempre stuzzicato le idee senza però mai cedere alla tentazione di teorie astratte e di sistemi chiusi. E soprattutto ha sempre pensato in modo autonomo.
«Fino a che vivrò – dichiarò il filosofo Hans Jones pronunciando a New York l’elogio funebre della filosofa –, troverò difficile immaginare un mondo senza Hannah Arendt».