Referendum del 25 giugno
Non c'è un panorama univoco a proposito della scelta istituzionale
di Francesco Nucara
Torna d'attualità, alle soglie del voto referendario, la rinnovata variegatezza delle posizioni esplicitate nel corso del passato dibattito sulla riforma costituzionale. La discussione relativa alle riforme federali dello Stato (ed alla loro approvazione) è divenuta oggi - capovolti gli equilibri politici - l'inquietante quesito circa l'avallo di una "Repubblica federale italiana" o il suo rifiuto esplicito, con il ritorno alla pessima riforma approvata, nel 2001, dalla sinistra.
La libertà di pensiero e di espressione che sottende la chiamata di tutti al voto del 25 giugno, è l'unica, quasi banale, garanzia di scelta di quella che è "la forma dello Stato". Perché, si badi bene, senza nulla togliere alla sacralità della dialettica tra le parti, senza che mai debba venire meno il confronto incessante delle opinioni, strada obbligata alla conoscenza, è difficile fare passare, attraverso la cruna dei partiti della sola maggioranza, il cammello del sentire politico più profondo.
Scegliere l'assetto della nostra Repubblica - che è il nostro futuro più prossimo - esige la necessità di una riflessione più silenziosa e discreta che non le dichiarazioni urlate o le imposizioni di giudizio.
E' antica tradizione del Partito repubblicano la capacità di autolimitare l'invadenza del meccanismi di consenso, nonché dell'influenza, da parte delle strutture di vertice, rispetto all'autonomia decisionale dei singoli militanti. E' acquisita componente del genoma di un laico il rispetto dell'altrui pensiero nei momenti in cui occorre conciliare passione d'intenti e coerenza dell'agire.
Ma è ancor più "materia" dei repubblicani, loro patrimonio storico, urna ideologica demandata, nella penombra, a custodire gli esiti di battaglie trascorse, questa nostra Costituzione che siamo chiamati a cambiare e che, in parte, è già stata modificata.
Nulla del nostro irrinunciabile assetto democratico deve essere esposto al benché minimo rischio: affinché ciò avvenga è, tuttavia, necessario l'adeguamento coraggioso di un dettato costituzionale che va comunque adeguato a nuove esigenze culturali e sociali, politiche ed economiche. L'Italia è già regione europea in un federalismo di beni, di servizi e di etnie.
Sarebbe imperdonabile * ed esiziale - disattendere come l'interesse generale e l'unità ordinamentale siano destinati a sopravvivere all'inevitabile avvicendarsi delle maggioranze politiche.
Non esiste, purtroppo, un panorama univoco in ambiti di tale portata; non può esistere, di conseguenza, alcun diktat decisionale. Abbiamo assunto posizioni di condivisione moderata all'epoca della riforma costituzionale elaborata dal centrodestra: abbiamo espresso la nostra adesione alla Casa delle Libertà ed apparteniamo alla rappresentanza parlamentare di opposizione. La lealtà strutturale dei repubblicani non consente, nemmeno nella delicatezza del tema referendario, di assumere tout - court "ruoli" contrastanti con la nostra presenza fisica a Montecitorio.
Non voglio negare, con questo, la difficoltà estrema della scelta, la cui conferma deriva proprio dai padri repubblicani alla Costituente e, più recentemente, dalla delineazione della "Repubblica probabile" di Ugo La Malfa. Nel bel saggio del 1972, La Malfa ritiene che la Costituzione "richieda solo di essere corretta e adattata alla mutevole realtà sociale e politica ed alle esigenze contemporanee di efficienza, nell'assoluto rispetto della sua ispirazione fondamentale e della intima logica che la sorregge".
D'altronde, era proprio Giuliano Amato * a suo tempo relatore del disegno di legge da cui aveva preso le mosse la riforma del Titolo V * a domandarsi se fosse auspicabile l'ingresso del federalismo nella nostra Costituzione e se ciò corrispondesse tanto ad una effettiva volontà popolare quanto al nostro medesimo essere italiani in ragione della nostra storia ed in forza del nostro patrimonio di tradizioni e di pensiero.
Già nelle aule parlamentari i repubblicani hanno posto problemi relativi all'impianto costituzionale. Giorgio La Malfa osservava, nel corso della seduta del 15 ottobre 2004: "Dico ai colleghi che io ho votato con piena convinzione la riforma del Titolo V della Costituzione, che secondo il mio avviso è migliorativa". E, di seguito: "Ma non sono convinto che l'elaborazione sia stata sufficiente sui poteri del Senato e su quelli della Camera. E per queste, ed altre motivazioni, La Malfa ha pronunciato un voto di astensione in prima lettura del provvedimento.
D'altro canto, così affermava il Senatore Del Pennino al Senato, il 16 novembre 2005, in seconda lettura: "Il mio voto non è solo testimonianza individuale, ma rappresenta l'espressione di una forza politica che fa parte di questa maggioranza. E, sapendo che la nostra scelta può essere determinante, non riteniamo di poterci assumere la responsabilità del mancato raggiungimento del quorum, con il risultato di consolidare la normativa vigente, di cui diamo un giudizio assolutamente negativo". E così concludeva: "Voteremo a favore, pur mantenendo le riserve già manifestate e ribadendo la necessità di porre mano ad ulteriori interventi legislativi di natura costituzionale che affrontino e risolvano i problemi cui l'attuale disegno di legge non dà adeguata soluzione, anche tenendo conto che il voto di oggi non è definitivo. Seguirà, infatti, l'appello referendario, rispetto al quale il Partito repubblicano italiano si riserva di definire la propria posizione alla luce del divenire delle auspicate correzioni".
Questi sono i presupposti sulla base dei quali i repubblicani dovranno prendere posizione.
Roma, 8 giugno 2006
tratto dal sito del Partito Repubblicano
http://www.pri.it