Ebbene poteva forse mancare, in questi giorni di delirio naziunalle per "ò pallone", la prima pagina della pappagonia? detto-fatto, il buon pappagone (ovvero colui che andò, con lo stemma tricoloruto stampato sulla felpa, al congresso dei mgiuppi a Vares ) questa volta si schiera contro la naziunalle madre....naturalmente però da buon indipendentista ( ), dichiara la propria simpatia verso la Spagna e l'Inghilterra ....insomma, pappagone grazie di esistere
salucc
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PATRIOTTISMO PALLONARO
FRATELLI DI COSA?
Io l’ho detto: tiferò Spagna. Poi non perderò una partita dell’Argentina di Messi, del Brasile di Ronaldinho, dell’Inghilterra del bimbo tutto capricci e prodigi Rooney e di una squadra africana che sceglierò nel corso del torneo. No, l’Italia no. Anzi, spero che esca prima, con tutti i disonori e le pernacchie che merita. Arroganti, ganassa, indegni e soprattutto senza palle, nel senso di quelle che ci vogliono per vincere. Oltre che senza uno straccio di gioco un po’ spettacolare.
Quello che è accaduto in queste settimane non so quanto centri, forse sì ma è stato solo un tocco di schifo in più. Diciamo più semplicemente che non ho voglia di farmi prendere per i fondelli da chi è il primo a non credere più in quello che sta facendo, da chi s’è reso colpevole - in concorso di colpa - di aver smontato un gioco che mi piace tanto. Un gioco che mi fa divertire, ormai, solo se espatrio in Spagna e in Inghilterra appunto.
Ora diranno che siamo i soliti leghisti, siamo anti-italiani e secessionisti e... le solite robe. Io dico che siamo seri punto e basta: la nazionale è lo specchio di un calcio malato; più malato che altrove. Non ci vendiamo al patriottismo pallonaro dei premi partita e dei premi in caso di vittoria, che sono l’unica cosa che interessa a questi mercenari dello sport. Le intercettazioni di calciopoli hanno solo messo a fuoco un mondo che però già conoscevamo: la nazionale è un impiccio per i giocatori, per gli allenatori e per i dirigenti. E anche per molti tifosi che all’azzurro preferiscono il colore della maglietta del loro campanile. Prima sono juventino, milanista, interista, sampdoriano, torinista, trevigiano, palermitano e poi tifoso della nazionale.
Perché alla fine il calcio è questo: è la lotta tra i campanili, è la pancia, è l’emozione, è l’irrazionalità che esplode nella sua forma anche più barbara e tribale. Se toglieste i tifosi nel calcio, in questo calcio, resterebbe la spazzatura: i giocatori da scambiarsi come le figurine, gli stadi che fanno schifo a partire dall’erba dei terreni di gioco, gli stranieri al posto dei nostri giovani, la pubblicità dell’acqua o del telefonino, le veline da scoparsi. Ah, dimenticavo: lo sponsor sulla maglietta; ogni anno sempre diversa per costringere i soliti pirla romanticoni della curva a comprarsi la divisa nuova. La maglia era la bandiera, ora è solo un cartellone pubblicitario ambulante: i giocatori vanno in giro per il campo come i ragazzi-sandwich in America. La maglia del “mio” Bilbao, bianca e rossa, i dirigenti non permetterebbero di insudiciarla con una scritta commerciale. Lo stesso ha fatto, coraggiosamente, il Barcellona. Campione di Liga e d’Europa.
Tiferò Spagna perché tifo Bilbao; ed è un bel controsenso politico perché la Spagna per i baschi è fumo negli occhi. Oggi un po’ meno visto che il governo di Zapatero ha riconosciuto alcuni diritti fondamentali a favore della nazione basca. La simpatia per l’Athletic Club Bilbao nasce anche dalla condivisione di una identità forte. Avrei potuto scegliere il Barcellona (e sicuramente tra le merengues castigliane e i blaugrana catalani scelgo il Barca) ma alcuni anni fa in tv vidi queste furie bianco-rosse giocare e mi innamorai. Senza un motivo particolare: il tifo, dicevo, è emozione, innamoramento. Solo dopo la scelta calcistica prese anche coscienza politica.
Il calcio è passione. Una passione che ci stanno privando di anno in anno. Troppi soldi, Troppo fumo e niente arrosto: credevamo di giocare il calcio più bello del mondo e invece siamo noiosi. Gli stadi si stanno svuotando, la passione cala. Eppure la macchina continua a mangiare soldi. Mi domando: perché? Perché, per esempio, le banche sono diventate le padrone del pallone? Ai tempi di Luzzara, la Cremonese sarà anche stata squadra materasso ma tirava fuori Gianluca Vialli. L’Atalanta tirava fuori Scirea e Donadoni. Il Varese, Anastasi e Bettega. Oggi i Gaucci tirano fuori coreani, cinesi, africani: ce ne fosse stato uno buono, a parte un po’ Nakata.
Non credo che sia casuale se lo scudetto rimpalla in un ping pong Milano-Torino; è segno che il calcio è alla frutta. Avrei voglia di godere di una nuova primavera doriana per esempio. Di una stagione veronese. Di un Toro, vivaio rinato. Avrei voglia di divertirmi di più. E se questo non accade è perché ci mancano politiche sportive serie, dove lo sport non è alla mercè dei finanzieri, dove l’unica Borsa è quella che serve per metter dentro scarpe e tuta. Non è, si badi, romanticismo; o forse non è solo quello: è il calcio che richiede questo, sono i suoi ingredienti. I giovani ragazzini degli oratori devono avere la speranza e la possibilità di giocare in serie A o in serie B, non possono essere già chiusi dai pari età stranieri solo perché costano la metà della metà. Noi parliamo del calcio dei professionisti, ma i settori giovanili di importanti squadre sono una “colonia” di negretti? Non voglio tornare all’Atletico Bilbao dove si recluta ancora sulla base della nazionalità basca; mi basterebbe però che una quota di giocatori fosse espressione del vivaio sottocasa. In passato s’è sempre fatto così: il segreto di Sergio Vatta, negli anni d’oro del Torino, era il reclutamento nei campetti del torinese e del Piemonte. Lo stesso era per l’Atalanta. Oggi lo è per il Chievo e la Roma. Questa politica va incoraggiata. Invece non è così, perché l’Europa ha cambiato anche il calcio per effetto della sentenza Bosman.
Beh, se una legge è sbagliata la si contesta, fino a boicottarla. Non posso, per dar retta a un giudice, distruggere il valore educativo dello sport. Sono queste le battaglie sportive che dovrebbero accomunare i calciatori miliardari. Invece di fare da testimonial a questo o a quell’evento, si impegnino per migliorare il mondo di cui fanno parte. Si impegnino nelle scuole calcio (magari investendo anche una parte dei loro miliardini), si battano per i bambini che ancora credono che il calcio sia il gioco più bello del mondo. E lo facciano anche vedere: quando c’è impegno vero, è giusto chiamare le telecamere e le macchine fotografiche invece di farsi inquadrare mentre ci si fa una flebo di finto doping (vero Cannavaro?).
Sono ormai due-tre anni che ci diciamo queste cose, ma ogni volta che c’è un fischio di inizio ci dimentichiamo tutto. E il pus torna l’anno successivo. Con i mondiali sta accadendo la stessa cosa. C’è un calcio che scoppia e, sotto sotto, sono in tanti a sperare che gli azzurri vincano per un bel colpo di spugna. Il solito modo all’italiana per risolvere i problemi. Non saranno né Rossi né Borrelli a guarire il calcio: il calcio guarirà quando si ricomincerà a pensare solo al calcio, al tifo e al campanile. Il calcio globale è una gran cretinata: lo dimostrano i fallimenti del Real Madrid, del Chelsea, della Juve e di quanti non vogliono credere che la palla è rotonda, oltre che avvelenata.
GIANLUIGI PARAGONE