Chiesta la condanna a morte per Saddam
Risparmiare Caino. Giusto o assurdo?
Andrea Lavazza
Si può chiedere di risparmiare la vita a Saddam Hussein? Secondo l'accusa, documentata in un dibattimento durato finora 35 udienze, l'ex rais ordinò nel 1982 il massacro a sangue freddo di 148 persone nel villaggio sciita di Dujahil quale rappresaglia per un progetto di attentato alla sua persona. Ebbene, ha senso invocare che non sia messo a morte colui che si è macchiato di crimini orrendi? Non è certo possibile dimenticare la carneficina di Halabya nell'agosto 1988, quando gas letali uccisero cinquemila persone, ritenute ostili al regime oppressivo e sanguinario. Ciò posto, è possibile dissentire dalla requisitoria del procuratore? Il magistrato, nell'aula bunker di Baghdad, ha detto ieri che «Saddam e i suoi spargevano il male sulla terra» e perciò, a suo avviso, è giustificata la pena massima prevista dall'ordinamento nazionale e dal Tribunale speciale per i crimini di guerra, costituito per processare il dittatore detronizzato. L'ex rais dove rispondere di altri 10 capi di imputazioni, oltre ai due citati. Si parla di assassinii e di deportazioni di massa, di bombardamenti e di distruzione dell'ecosistema per scacciare popolazioni dal proprio territorio. La maggior parte degli episodi è documentata in modo incontrovertibile. Se non verrà giustiziato dopo la probabile condanna che probabilmente sarà emessa dalla giuria entro luglio, potrebbe collezionare altri 11 verdetti di morte. Non si è pentito, Saddam. In aula è sprezzante e aggressivo. I suoi seguaci hanno continuato a cercare di fermare il giudizio con minacce e omicidi, mentre la guerriglia sunnita, nostalgica del passato, insanguina ogni giorno la nazione. Si può graziare l'uomo simbolo dell'orrore, come è stato descritto alla vigilia della guerra? Sì, diciamo noi, anche nel mattaioio quotidiano dell'Iraq una vita umana - qualunque vita - è sempre sacra. La vendetta, pure quella che ha il sigillo della procedura democratica, non rimargina le ferite, rischia anzi di esacerbarle ulteriormente. Decidere di fare processare il despota nel e dal suo Paese piuttosto che da una Corte internazionale (la quale non avrebbe previsto la pena capitale), com'è accaduto nel caso di Milosevic, ha evitato che il popolo vessato fosse "espropriato" del proprio diritto di misurarsi con la propria storia e di affermare le responsabilità di tanta sofferenza. Politicamente, forse l'ergastolo in regime di carcere duro non darebbe adeguata "soddisfazione" alle vittime delle persecuzioni (sciiti e curdi), mentre potrebbe apparire come eccessivamente "indulgente" nei confronti dei sunniti, minoranza prevaricante per decenni. Ma la ragion di Stato non annulla le istanze dell'etica. Nulla dà legittimità a un'uccisione che non sia motivata da un'impellente ragione di legittima difesa, né un'esecuzione - pubblica o segreta che sia - regalerà all'Iraq sollievo dalla violenza o un passo in avanti sulla via della ricostruzione. Lasciare in cella l'ex rais sarebbe anche una lezione morale ai terroristi che sgozzano e decapitano, un segno della capacità delle istituzioni liberamente elette di superare la logica dell'emergenza militare per entrare in una nuova era. Non si tratta di perdonare un mostro, bensì di affermare che la vita è un bene assoluto e indisponibile, per lui come per tutti. Troppo impopolare sottrarlo al boia, eppure noi diciamo: non uccidete Saddam Hussein.