Baghad come Saigon. Anzi peggio.
Maurizio Blondet
21/06/2006
BAGHDAD - Qualche giorno fa George Bush ha fatto una visita-lampo e a sorpresa a Baghdad, e dopo ha rilasciato dichiarazioni ottimiste: in Iraq le cose vanno bene, migliorano…
Tutto smentito, e dalla fonte più insospettabile: l'ambasciata USA a Baghdad.
Il Washington Post è venuto in possesso di un'informativa riservata (1), spedita il 6 giugno scorso dalla «AMEmbassy Baghdad» al «SecState, Washington DC», ossia alla segreteria di Stato, che descrive con angoscia le condizioni sempre più dure e pericolose in cui vivono gli impiegati iracheni dell'ambasciata. (Clicca qui per vedere l'informativa http://www.speedyshare.com/839926172.html )
Mentre il personale americano vive nella zona verde pesantemente recintata e sorvegliata, da cui - come s'intuisce dal rapporto - non esce mai, i dipendenti iracheni che vanno e vengono «vivono nella costante paura che i loro vicini scoprano che lavorano per gli americani».
Ecco alcuni passaggi del documento riservato, che evidentemente riporta informazioni del personale iracheno.
«La sicurezza personale dipende dalle buone relazioni coi 'governi di quartiere' che chiudono le strade con barricate e respingono gli estranei. Il governo centrale, dicono i nostri impiegati, non conta nulla; anche i mukhtar locali sono stati mandati via o cooptati dalle milizie. La gente non si fida più della maggior parte dei vicini».
«Un impiegato dell'ambasciata ha avuto un cugino acquisito rapito. Un'altra ha ricevuto minacce di morte ed ha lasciato il Paese con la famiglia».
Da marzo, il personale locale dell'ambasciata «riporta molestie continue da parte di milizie e gruppi islamismi».
Le interruzioni di elettricità e il rincaro del carburante «hanno diminuito la qualità della vita».
Anche nei quartieri un tempo di lusso le condizioni di vita «sono visibilmente degradate», e uno di questi quartieri viene descritto come «una città fantasma».
Due delle tre donne impiegate nell'ufficio Affari Pubblici hanno riferito di «più intense molestie da metà maggio… certi gruppi intimano alle donne di coprirsi anche la faccia, cosa che non è mai avvenuta in Iraq… Una delle donne oggi indossa una abaya completa dopo aver ricevuto minacce dirette».
Per gli uomini è diventato «pericoloso» indossare pantaloni in pubblico.
«Essi [i dipendenti] non permettono più ai loro figli di giocare fuori in calzoncini corti. Anche persone che portavano jeans in pubblico sono state oggetto di aggressione».
«Gli impiegati dell'ambasciata sono così disprezzati, che essi devono tenere segreto il loro lavoro, e vivono nella paura continua di essere scoperti. Su nove addetti, solo quattro hanno detto alle proprie famiglie dove lavorano. Tutti costoro prendono precauzioni e hanno fatto piani in caso di un loro possibile rapimento. Nessuno porta a casa il telefono cellulare, perché rivelerebbe la loro posizione e funzione. Un'impiegata dice che le critiche agli Stati Uniti sono diventate sempre più gravi, che la maggior parte della sua famiglia è convinta che gli USA 'puniscono la popolazione come faceva Saddam' ».
Da aprile in poi, il «contegno» [demeanor] delle guardie nella stessa Zona Verde è cambiato: ora è più «da miliziani» [militia-like], ed alcuni sorveglianti ora «scherniscono e ingiuriano» [taunt] il personale dell'ambasciata, sia trattenendo le loro credenziali e lasciapassare, sia dicendo ad alta voce che lavorano per l'ambasciata.
«Tale informazione è una sentenza di morte se ascoltata dalle persone sbagliate», dice la nota.
Per questo motivo, il personale ha chiesto di avere il lasciapassare-stampa anziché dell'ambasciata.
«Da almeno sei mesi non riusciamo ad usare nessun dipendente locale come interprete in incontri-stampa dove siano telecamere… non possiamo convocare gli impiegati nei fine settimana, altrimenti distruggiamo le loro coperture».
«Più di recente abbiamo cominciato a distruggere sistematicamente i documenti dove appaiono i nomi dei nostri dipendenti. A marzo, alcuni impiegati ci hanno avvicinato per chiederci quali misure prenderemo per [la] loro [sicurezza] nel caso che evacuiamo».
«Un altro impiegato ci dice che la vita al di fuori della Zona Verde è diventata 'logorante all'estremo sul piano emozionale'. Egli abita in una zona a prevalenza sciita e sostiene di assistere a un funerale ogni sera».
L'atmosfera generale viene descritta come «una rete di relazioni sociali lacerata», con «frequenti insulti, reali o percepiti».
Non aiuta la mancanza di elettricità.
«Tutti gli impiegati confermano che dall'ultima settimana di maggio ricevono a casa un'ora di elettricità ogni sei ore senza… un impiegato ci ha detto di avere un amico che abita in un edificio dove vive anche un nuovo ministro; entro 24 ore dalla nomina di costui, l'edificio riceve elettricità 24 ore su 24».
«Un collega ci ha detto di sentirsi 'vinto' dalla situazione, citando come esempio il fatto di non poter far nulla per il suo bambino di due anni che ha l'asma e non riesce a dormire nella calura estrema» dell'estate irachena.
Le code ai distributori di carburante non fanno che ingrossarsi: «uno degli impiegati ha passato dodici ore in coda nel suo giorno di riposo».
«Le paure personali rinforzano le divisioni settarie e l'appartenenza etnica, nonostante i discorsi ufficiali di riconciliazione».
Documento agghiacciante e illuminante.
Mostra che gli americani, vincitori, vivono chiusi nella Zona Verde, e ignorano tutto del mondo di fuori.
Tanto che considerano informazioni d'intelligence del massimo valore i disperati racconti dei loro nove dipendenti iracheni.
Sono protetti dai Marines, ma anche da sorveglianti locali il cui comportamento diventa ogni giorno più arrogante e derisorio.
Interessante che i dipendenti abbiano chiesto come gli americani intendano salvarli «in caso di evacuazione».
Evidentemente sentono, meglio dei presunti vincitori, che la situazione in Iraq sta diventando sempre meno sicura per gli USA.
Anche i vietnamiti anticomunisti a Saigon avevano, da ultimo, le stesse preoccupazioni.
Finirono per prendere d'assalto gli ultimi elicotteri in fuga dai tetti.
Ultimo particolare riportato da Washington Post: l'informativa riservata è firmata KHALILZAD.
Viene dunque direttamente da Zalmay Khalilzad, l'ambasciatore USA a Baghdad.
Khalilzad, afghano d'origine, è un membro della cerchia interna dei neoconservatori che al Pentagono hanno voluto e programmato l'invasione dell'Iraq, uomo di speciale fiducia di Paul Wolfowitz e Richard Perle.
Maurizio Blondet
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Note
1) Greg Mitchell, «Wash Post obtains shocking memo from US embassy in Baghdad», Editor & Publisher, 19 giugno 2006.
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