Sabato 01.07.2006 17:12
di Marco Respinti

Dinesh D’Souza è nato in India nel 1961 e dal 1990 è cittadino statunitense. Prima ancora di esserlo però, e all’età di 26 anni, nel 1987, è stato analista per gli Affari interni della Casa Bianca, al tempo del secondo mandato presidenziale di Ronald W. Reagan. Un anno dopo, nel 1988, ha lasciato le stanze del potere e si è dato alla scrittura e alle conferenze pubbliche, soprattutto nei campus universitari dov’è gettonatissimo.

Due libri li aveva già pubblicati nel 1984 e nel 1986, ma il boom lo ha fatto nel 1991con un testo che è subito divenuto un classico, Illiberal Education, una serrata critica del livello d’ideologizzazione della scuola pubblica statunitense. Nel 1995 ha quindi pubblicato The End of Racism, nel 1997 la biografia Ronald Reagan: How An Ordinary Man Became an Extraordinary Leader, nel 2000 The Virtue of Prosperity e nel 2002 ben due titoli, What's So Great About America, e Letters to a Young Conservative.

In Italia ha appena concluso un breve tour di conferenze. Il suo cavallo di battaglia è la confutazione dell’antiamericanismo preconcetto. "Gli antiamericani viscerali - afferma - si trincerano sempre dietro un paravento: non sono gli USA che odiamo, dicono costoro, ma la politica estera degli USA. Il che è però solo uno specchietto per le allodole…".

Vale a dire?
"Be’, si tratta di distinguo assolutamente capziosi. Lungi certo dal pensare che gli USA siano un che di monolitico e d’imperturbabile, la critica, pur legittima, alla politica estera statunitense ci mette solo qualche minuto a trasformarsi, nel pensiero di certuni, in una critica agli USA tout court. Il che, ovvio, è lecitissimo, ma occorre subito ricordare che, così facendo, si finisce per favorire posizioni favorevoli ai numerosi dispotismi politici che ancora funestano il mondo…".



Chi non è filoamericano, insomma, è un nemico della libertà. Non le pare riduttivo?
"Detto così sì, ma io non lo dico certo così. Piacciano o no per ciò che concretamente sono – sottolineo concretamente non astrattamente, cioè nell’immaginazione di certi critici acritici… –, gli USA si caratterizzano per essere il luogo dove le persone sono liberamente artefici della propria esistenza e del proprio destino. Diversamente, in molti, troppi altri luoghi del mondo le persone sono costrette a conformarsi a rigidi schemi preconcetti che non si scelgono. Ora, questo comporta il fatto che la libertà di cui si gode negli Stati Uniti possa essere usato sia bene sia male, ma chi se la sentirebbe di dire che allora è meglio la costrizione?

In politica estera questo si traduce nell’idea che, perseguendo illuminatamente il proprio interesse nazionale (cosa di per sé legittima, anzi sacrosanta), gli USA allarghino oggettivamente gli spazi in cui la persona vive libera di scegliersi la propria esistenza. Bene inteso, mica per virtù esclusiva degli Stati Uniti: si tratta infatti dell’esito storico di una cultura che al suo cuore pone la persona umana e che di per sé configura, pur fra differenze e difficoltà, l’Occidente in quanto tale. Ma questo cambia poco…".

Dunque vale davvero la pena di esportare nel mondo la democrazia, la democrazia americana?
"Gli Stati Uniti non hanno alcun interesse a esportare, anzi a imporre nel globo intero il modello democratico statunitense. Anche perché il sistema democratico americano è per molti versi peculiare proprio alla storia americana e quindi difficilmente applicabile in quanto tale a Paesi e a situazioni diverse…".

Ma l’operazione di nation-building in Irak?
"Non abbiamo mica “esportato” la democrazia nel mondo: abbiamo aiutato la democrazia a nascere in un pezzetto del mondo… E che oggi la sovranità in Irak sia irakena nemmeno un cieco lo negherebbe. Anzi, c’è da dire che talvolta le urne irakene producono risultati lontani dai desiderata del presidente George W. Bush jr., ma questo è proprio quello che volevamo. La libertà, un popolo libero in più nel mondo che riduca fisicamente gli spazi dispotici di minaccia agli altri, Stati Uniti (lo dico da statunitense) in testa".