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    Predefinito 21 dicembre (3 luglio) - S. Tommaso, apostolo

    Dal sito SANTI E BEATI:

    San Tommaso Apostolo

    3 luglio

    Palestina - India meridionale (?), primo secolo dell’èra cristiana

    Probabilmente pescatore anche lui come gli altri apostoli, secondo Eusebio sarebbe uno degli apostoli che Papia interroga sulla dottrina di Gesù. Nel quarto Vangelo è chiamato anche Didimo che significa "gemello". Tommaso è l'apostolo che espresse la solidarietà al Cristo nell'ultimo viaggio verso Gerusalemme con le parole: "Andiamo anche noi a morire con lui". Fu in seguito a sua domanda sulla via al Padre che il Signore affermò: "Io sono la via, la verità e la vita". Riparò alla sua incredulità sulla risurrezione del Signore con la professione di fede fatta otto giorni dopo: "Mio Signore e mio Dio". (Mess. Rom.)

    Chiamato da Gesù tra i Dodici. Si presenta al capitolo 11 di Giovanni quando il Maestro decide di tornare in Giudea per andare a Betania, dove è morto il suo amico Lazzaro. I discepoli temono i rischi, ma Gesù ha deciso: si va. E qui si fa sentire la voce di Tommaso, obbediente e pessimistica: «Andiamo anche noi a morire con lui», deciso a non abbandonare Gesù. Facciamo torto a Tommaso ricordando solo il suo momento famoso di incredulità. Lui è ben altro che un seguace tiepido. Ma credere non gli è facile, e non vuol fingere che lo sia. Dice le sue difficoltà, si mostra com'è, ci somiglia, ci aiuta. Dopo la morte del Signore, sentendo parlare di risurrezione «solo da loro», esige di toccare con mano. Quando però, otto giorni dopo, Gesù viene e lo invita a controllare esclamerà: «Mio Signore e mio Dio!», come nessuno finora aveva mai fatto. A metà del VI secolo, un mercante egiziano scrive di aver trovato nell'India meridionale gruppi inaspettati di cristiani e di aver saputo che il Vangelo fu portato ai loro avi da Tommaso apostolo. (Avvenire)

    Patronato: Architetti

    Etimologia: Tommaso = gemello, dall'ebraico

    Emblema: Lancia

    Martirologio Romano: Festa di san Tommaso, Apostolo, il quale non credette agli altri discepoli che gli annunciavano la resurrezione di Gesù, ma, quando lui stesso gli mostrò il costato trafitto, esclamò: «Mio Signore e mio Dio». E con questa stessa fede si ritiene abbia portato la parola del Vangelo tra i popoli dell’India.

    Martirologio tradizionale (21 dicembre): A Calamina il natale del beato Tommaso Apostolo, il quale predicò il Vangelo ai Parti, ai Medi, ai Persiani ed agli Ircani, e poi penetrò nell'India, ove, avendo istruito quelle genti nella religione cristiana, per ordine del Re fu trafitto da lance e morì. Le sue reliquie furono prima trasportate nella città di Edessa, nella Mesopotamia, e poi ad Ortona, nell'Abruzzo.

    (3 luglio): Ad Edessa, in Mesopotamia, la Traslazione di san Tommaso Apostolo dall'India: le sue reliquie furono poi trasportate ad Ortona, nell'Abruzzo.

    Lo incontriamo tra gli Apostoli, senza nulla sapere della sua storia precedente. Il suo nome, in aramaico, significa “gemello”. Ci sono ignoti luogo di nascita e mestiere. Il Vangelo di Giovanni, al capitolo 11, ci fa sentire subito la sua voce, non proprio entusiasta. Gesù ha lasciato la Giudea, diventata pericolosa: ma all’improvviso decide di ritornarci, andando a Betania, dove è morto il suo amico Lazzaro. I discepoli trovano che è rischioso, ma Gesù ha deciso: si va. E qui si fa sentire la voce di Tommaso, obbediente e pessimistica: "Andiamo anche noi a morire con lui". E’ sicuro che la cosa finirà male; tuttavia non abbandona Gesù: preferisce condividere la sua disgrazia, anche brontolando.
    Facciamo torto a Tommaso ricordando solo il suo momento famoso di incredulità dopo la risurrezione. Lui è ben altro che un seguace tiepido. Ma credere non gli è facile, e non vuol fingere che lo sia. Dice le sue difficoltà, si mostra com’è, ci somiglia, ci aiuta. Eccolo all’ultima Cena (Giovanni 14), stavolta come interrogante un po’ disorientato. Gesù sta per andare al Getsemani e dice che va a preparare per tutti un posto nella casa del Padre, soggiungendo: "E del luogo dove io vado voi conoscete la via". Obietta subito Tommaso, candido e confuso: "Signore, non sappiamo dove vai, e come possiamo conoscere la via?". Scolaro un po’ duro di testa, ma sempre schietto, quando non capisce una cosa lo dice. E Gesù riassume per lui tutto l’insegnamento: "Io sono la via, la verità e la vita". Ora arriviamo alla sua uscita più clamorosa, che gli resterà appiccicata per sempre, e troppo severamente. Giovanni, capitolo 20: Gesù è risorto; è apparso ai discepoli, tra i quali non c’era Tommaso. E lui, sentendo parlare di risurrezione “solo da loro”, esige di toccare con mano. E’ a loro che parla, non a Gesù. E Gesù viene, otto giorni dopo, lo invita a “controllare”... Ed ecco che Tommaso, il pignolo, vola fulmineo ed entusiasta alla conclusione, chiamando Gesù: “Mio Signore e mio Dio!”, come nessuno finora aveva mai fatto. E quasi gli suggerisce quella promessa per tutti, in tutti i tempi: "Beati quelli che, pur non avendo visto, crederanno".
    Tommaso è ancora citato da Giovanni al capitolo 21 durante l’apparizione di Gesù al lago di Tiberiade. Gli Atti (capitolo 1) lo nominano dopo l’Ascensione. Poi più nulla: ignoriamo quando e dove sia morto. Alcuni testi attribuiti a lui (anche un “Vangelo”) non sono ritenuti attendibili. A metà del VI secolo, il mercante egiziano Cosma Indicopleuste scrive di aver trovato nell’India meridionale gruppi inaspettati di cristiani; e di aver saputo che il Vangelo fu portato ai loro avi da Tommaso apostolo. Sono i “Tommaso-cristiani”, comunità sempre vive nel XX secolo, ma di differenti appartenenze: al cattolicesimo, a Chiese protestanti e a riti cristiano-orientali.

    Autore: Domenico Agasso


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    Da dom Prosper Guéranger, L'anno liturgico. - Avvento - Natale - Quaresima - Passione, trad. it. P. Graziani, Alba, 1959, p. 312-314

    21 DICEMBRE


    Nell'Ufficio delle Laudi la voce della Chiesa fa risonare oggi questo solenne avvertimento:

    "Non temete: il Signore nostro verrà a voi fra cinque giorni".

    SAN TOMMASO APOSTOLO

    Ecco l'ultima festa che celebrerà la Chiesa prima della Natività del suo Signore e Sposo. Essa interrompe le Ferie maggiori per onorare san Tommaso, Apostolo di Cristo, il cui glorioso martirio, consacrando per sempre questo giorno, procurò al popolo cristiano un potente intercessore presso il divino Messia. Spettava a questo grande Apostolo apparire nel Ciclo in questo giorno, poiché la sua protezione aiutasse i fedeli a credere e a sperare nel Dio che ancora non vedono e che viene ad essi senza rumore e senza splendore, per provare la loro fede. San Tommaso dubitò un giorno, e non comprese la necessità della Fede se non dopo essere passato attraverso le ombre dell'incredulità: è giusto che venga ora in aiuto ai figli della Chiesa, e li fortifichi contro le tentazioni che potrebbero assalirli da parte d'una orgogliosa ragione. Rivolgiamoci dunque a lui con fiducia; e dal seno della luce in cui l'ha posto il suo pentimento ed il suo amore, egli chiederà per noi la docilità di mente e di cuore che ci è necessaria per vedere e riconoscere Colui che costituisce l'attesa delle genti, e che, destinato a regnare su di esse, annuncerà la sua venuta solo con i deboli vagiti di un bimbo, e non con la voce tonante d'un maestro. Ma leggiamo innanzitutto il racconto degli Atti del nostro santo Apostolo. La Chiesa ha ritenuto bene presentarcelo sotto la forma più breve.
    VITA. - Tommaso Apostolo, chiamato anche Didimo, era della Galilea. Dopo aver ricevuto lo Spirito Santo, andò a predicare il Vangelo in molte province. Insegnò i precetti della fede e della vita cristiana ai Parti, ai Medi, ai Persiani, agli Ircaniani e ai Battri. Si diresse infine verso le Indie, ed ammaestrò quei popoli nella religione cristiana. In questo paese si fece ammirare da tutti per la santità della vita e della dottrina e per lo splendore dei miracoli, e accese alto il fuoco dell'amore di Gesù Cristo nei cuori. Il re della regione s'infiammò d'ira, poiché era zelante dell'idolatria, e il santo apostolo, condannato a morte per ordine di lui, fu lapidato a Calamina, e accrebbe l'onore del suo apostolato con la corona del martirio [1].
    Glorioso Apostolo, che hai condotto a Cristo un così gran numero di genti infedeli, è a te che ora si rivolgono le anime fedeli perché le introduca presso lo stesso Cristo che fra cinque giorni si manifesterà alla sua Chiesa. Per meritare di comparire alla sua divina presenza, abbiamo bisogno, innanzitutto, d'una luce che ci guidi fino a lui. Questa luce è la Fede. Chiedi per noi la fede. Un giorno il Signore si degnò di accondiscendere alla tua debolezza, e di assicurarti nel dubbio che provavi sulla verità della sua Resurrezione. Prega dunque, affinché si degni pure di sostenere la nostra debolezza, e di farsi sentire al nostro cuore. Tuttavia, o santo Apostolo, non è già una chiara visione che noi chiediamo, ma la Fede semplice e docile, poiché Colui che viene anche per noi ti ha detto mostrandotisi: Beati coloro che credono senza vedere! Noi vogliamo essere del numero di questi. Ottienici dunque quella Fede che è propria del cuore e della volontà, affinché davanti al divino Bambino avvolto in fasce e posto nella mangiatoia, possiamo esclamare anche noi: Mio Signore e mio Dio! Prega o santo Apostolo, per le genti che tu hai evangelizzate e che sono ricadute nelle ombre della morte. Che venga presto il giorno in cui il Sole di giustizia splenderà nuovamente per esse! Benedici gli sforzi degli uomini apostolici che consacrano sudori e sangue all'opera delle Missioni; fa che siano abbreviati i giorni delle tenebre, e che le regioni irrorate del tuo sangue vedano infine cominciare il regno del Dio che hai annunciato e che noi aspettiamo.
    -----------------------------------------------------------------------
    NOTE

    [1] In difetto degli Acta Thomae rigettati dal Padri del IV secolo, parecchie testimonianze, fra le quali quella di Origene, permettono di situare nelle regioni orientali che circondano la Mesopotamia il campo d'apostolato di san Tommaso. La tradizione della sua missione nell'India potrebbe avere un appoggio sul fatto che l'India avrebbe ricevuto il Vangelo fin dall'età apostolica. Ma gli Indù del rito siro-malabarico furono probabilmente evangelizzati da un missionario nestoriano omonimo dell'apostolo. È noto che le sue reliquie si trovavano, fin dal III secolo, a Edessa dove le venerò, verso il 400, l'autore della Peregrinatio Sylviae. Dal 1268 si trovano a Ortona e un braccio del santo è conservato nella Collegiata di S. Nicola a Bari.

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    Predefinito Dalle «Omelie sui vangeli» di san Gregorio Magno, papa

    Om. 26, 7-9, in PL 76, 1201-1202

    «Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù» (Gv 20, 24). Questo solo discepolo era assente. Quando ritornò udì il racconto dei fatti accaduti, ma rifiutò di credere a quello che aveva sentito. Venne ancora il Signore e al discepolo incredulo offrì il costato da toccare, mostrò le mani e, indicando la cicatrice delle sue ferite, guarì quella della sua incredulità.
    Che cosa, fratelli, intravedere in tutto questo? Attribuite forse a un puro caso che quel discepolo scelto dal Signore sia stato assente, e venendo poi abbia udito il fatto, e udendo abbia dubitato, e dubitando abbia toccato, e toccando abbia creduto?
    No, questo non avvenne a caso, ma per divina disposizione. La clemenza del Signore ha agito in modo meraviglioso, poiché quel discepolo, con i suoi dubbi, mentre nel suo maestro toccava le ferite del corpo, guariva in noi le ferite dell'incredulità. L'incredulità di Tommaso ha giovato a noi molto più, riguardo alla fede, che non la fede degli altri discepoli. Mentre infatti quello viene ricondotto alla fede col toccare, la nostra mente viene consolidata nella fede con il superamento di ogni dubbio. Così il discepolo, che ha dubitato e toccato, è divenuto testimone della verità della risurrezione.
    Toccò ed esclamò: «Mio Signore e mio Dio!».
    Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, hai creduto» (Gv 20, 28-29). Siccome l'apostolo Paolo dice: «La fede è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono», è chiaro che la fede è prova di quelle cose che non si possono vedere. Le cose che si vedono non richiedono più la fede, ma sono oggetto di conoscenza. Ma se Tommaso vide e toccò, come mai gli vien detto: «Perché mi hai veduto, ha creduto?» Altro però fu ciò che vide e altro ciò in cui credette. La divinità infatti non può essere vista da uomo mortale. Vide dunque un uomo e riconobbe Dio, dicendo: «Mio Signore e mio Dio!». Credette pertanto vedendo. Vide un vero uomo e disse che era quel Dio che non poteva vedere.
    Ci reca grande gioia quello che segue: «Beati quelli che pur non avendo visto crederanno!» (Gv 20, 28). Con queste parole senza dubbio veniamo indicati specialmente noi, che crediamo in colui che non abbiamo veduto con i nostri sensi. Siamo stati designati noi, se però alla nostra fede facciamo seguire le opere. Crede infatti davvero colui che mette in pratica con la vita la verità in cui crede. Dice invece san Paolo di coloro che hanno la fede soltanto a parole: «Dichiarano di conoscere Dio, ma lo rinnegano con i fatti» (Tt 1, 16). E Giacomo scrive: «La fede senza le opere è morta» (Gc 2, 26).

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    Predefinito Dalle omelie di Filosseno di Mabbug

    Homelies, II & III, in SC 44, 77‑78.61‑64.67‑68.

    La fede è come il terreno in cui mette radici la parola di Dio. Il seme del coltivatore resta improduttivo se non è seminato in un campo; cosi la parola di Dio non porta frutti spirituali se non la riceviamo nel terreno della fede.
    Come l'occhio del corpo riceve la luce del sole, anche l'occhio della fede riceve il lume spirituale dei comandamenti di Dio. La luce solare permette si di vedere qualunque oggetto, ma non può fare a meno dell'occhio; e il comandamento divino rimane incompiuto senza la fede.
    Il sole splende per natura, ma per gli occhi ciechi non è luminoso e non riesce a dar loro la vista; cosi la parola divina è onnipotente in Dio che la proferisce, ma si rivela fiacca nell'anima che non crede. La fede ha quindi come un occhio dotato di discernimento, capace di valutare in modo giusto ogni cosa.
    La fede sorvola sul mondo visibile, perché lo considera senza importanza; fissa invece l'invisibile, considera quello che sta sopra la natura e i sensi, perché questo è l'ambito della sua conoscenza.

    La fede è cosi grande che grazie ad essa gli uomini ricevono il nome di Dio e il nome di Cristo. Siamo infatti chiamati "divini" dal nome di Dio Padre, "cristiani" dal nome del Figlio, Gesù Cristo, e "fedeli" a motivo della fede.
    Il nome di "fedeli" ci separa da tutte le altre religioni e relative dottrine, poiché soltanto chi è generato dalla fede e nutrito dai suoi insegnamenti è chiamato con questo titolo.
    L'attributo di "fedeli" ci è assai appropriato, perché tutto il nostro credo fa riferimento alla speranza delle realtà future che sono invisibili, cioè non evidenti ne certe per i sensi corporei. La fede racchiude in se la speranza di tutti i beni e, se dovesse dissolversi, non ci rimarrebbe più nulla; è lei infatti a detenere e custodire sia i misteri qui in terra, sia i beni che Dio ci ha promesso lassù.

    La fede mette a nostra portata le realtà che ci sono distanti. Essa considera i misteri a faccia a faccia e scorge senza veli queste realtà oscure. Il regno di Dio è infatti inaccessibile agli sguardi del corpo, e può contemplarlo soltanto l'occhio della fede.
    La casa del Padre dista fisicamente da noi, ma la fede vi abita gia.
    La luce spirituale splende gloriosa nella patria celeste e la fede può gia danzare lassù in pieno sole.
    La veste della nostra gloria è nei cieli e già la fede ne è adorna.
    La nostra ricchezza e ogni bene spirituale stanno lassù e la fede può attingervi per darceli fin d'ora.
    La nostra vera città è nei cieli e li dimora la fede.
    I nostri predecessori abitano quella remota regione e la fede è in continuo colloquio con essi.
    Il banchetto di delizie è imbandito lassù e la fede ne gode senza interruzione.
    La fonte della vita zampilla nel cielo e ad essa la fede si disseta quanto vuole.
    Schiere splendenti abitano il paese della vita e la fede ne condivide la gloria.

    Da quanto si è detto, appare chiara la natura della fede. Grazie ad essa vediamo l'invisibile, abbiamo notizia dell'inconoscibile, scorgiamo l'impercettibile, vediamo e cogliamo l'inaccessibile.
    Quanto più l'oggetto contemplato della fede è sottile, nascosto, interiore, spirituale, sublime e ineffabile, tanto più chiara è la sua visione. Sono le massime realtà a giustificare la fede e sarebbe un insulto se uno la forzasse cicoscrivendola nella sfera di piccine realtà create, quando essa sorpassa tutto e soltanto il Creatore può contenerla.
    Le creature non sono all'altezza della potenza che ha la fede. Essa non crede in un essere creato, ma crede soltanto che questi è creato, ossia che non ha l'essere da se. La fede si compiace e si giustifica solo in Dio, perché, ponendosi sopra di tutto quello che non è Dio, si fa vicinissima a lui.

    La fede fa passare il presente e venire il futuro. E' come la lingua di Dio, il comandamento del Creatore. Quando la fede comanda, obbediamo a lei come a Dio, se fa un cenno, tutte le creature la seguono.
    La potenza della fede è la potenza di Dio, perché essa viene da lui. La fede è signora delle creature, e come la padrona da ordini alle serve che le sono sottomesse, cosi la fede comanda alle creature che le obbediscono.
    C'è qualcosa di più sorprendente: non solo le creature obbediscono alla fede, ma persino il Creatore non resiste alla volontà di lei. In realtà, la fede ottiene da Dio quanto desidera, riceve tutto quello che chiede e, se invoca Dio, l'Onnipotente le risponde.
    La porta del Donatore divino rimane sempre aperta per lei, come sta scritto: Se chiederete qualche cosa al Padre nel mio nome, egli ve la darà (Gv 16, 23). La fede comanda da padrona nella casa di Dio, perché è la dispensatrice dei beni divini.

    Il mistero della fede è meraviglioso e sublime, e nessuno potrà mai spiegarlo. La fede è talmente grande da essere la dimora di Dio.
    Quando parlo di questa virtù, non intendo ciò che ne ha solo il nome e non va oltre le parole. Si riconosce la fede verace dalla solida disposizione dell'anima e dalla ferma stabilità dei pensieri; la fede non può smentirsi, perché imita Dio, di cui Paolo ha detto che non può rinnegare se stesso (2 Tim 2, 13).
    La fede non può sconfessare se stessa, perché il dubbio non la scalfisce mai, la presunzione non la sfiora, la paura non la tocca; perciò la fede fa tutto quello che vuole e ottiene tutto ciò che chiede.
    Se uno desidera accostarsi a Dio, deve accogliere in se questo atteggiamento.
    La fede non ammette idee o opinioni contraddittorie, non si rimangia quello che ha fatto o detto, e non se ne pente.
    Come Dio non rimpiange mai il suo operato, cosi la fede non si ritratta, dato che cerca d'imitare l'Altissimo.

    Tu che vuoi essere il discepolo di Dio, acquista la fede, padrona di tutti i nostri beni. Sia questo il tuo primo passo come discepolo. Mettila come base della tua torre ed essa non crollerà, per alta che sia. Non ci sono flutti o venti che possano travolgere l'edificio costruito sulla fede.
    Cominciò Gesù a porre per tutta la Chiesa il fondamento della fede mediante il ministero di Simone; allora anche tu, il discepolo, prendi le mosse da li e fanne la base della tua regola di vita.
    Se il Signore ha costruito le leggi dell'universo sulla fede, tu radica in essa le tue vittorie e i tuoi comportamenti. Poiché Dio ha posto la fede come fondazione definitiva per tutte le generazioni future, fanne anche tu il principio della tua vita in Dio.

    La potenza della fede basta per portare tutti gli uomini. Gesù ne fece la pietra basilare della sua Chiesa, perché ne previde la potenza invincibile, la forza inesausta, il trionfo certissimo, l'indomito vigore, il coraggio a tutta prova, il fascino coinvolgente, il suo insegnamento irrefutabile, la sua parola infallibile e la sua autorità indiscussa.
    Dio, infatti, non ha soltanto posto la fede a fondamento della sua Chiesa per dimostrarnela potenza, ma anche per dare una preziosa indicazione a chi vuole esserne il discepolo : questi dovrà porre in priorità la solida base della fede per sostenere il suo edificio spirituale e costruire la dimora di Dio.

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    Predefinito Dai Discorsi di san Pietro Crisologo.

    Sermo 84, in PL 52, 437‑440.

    I discepoli videro il Signore e furono pieni di gioia, perché come fa piacere la luce dopo il buio e il bel tempo dopo la fosca caligine dell'uragano, cosi la gioia conforta dopo la tristezza.
    Gesù augura ai suoi la pace e ripete quell'annunzio due volte. Con il primo saluto egli trasfonde quiete nei loro sentimenti e con il secondo esprime la volontà di vedere regnare sempre la pace tra i suoi discepoli.
    Gesù sa bene che più tardi si farà un gran discutere sul ritardo della sua venuta; gli uni si rattristeranno di aver dubitato, gli altri potranno vantarsi della fermezza della loro fede.
    Per tagliar corto alla vana superbia di questi e all'incertezza di quelli, il Maestro previene gli eventuali conflitti formulando il suo desiderio di pace: lui sa che tali problemi nascono dai fatti e non dai discepoli. Gesù non vuole evitare che i suoi si accusino a vicenda di quello che lui, il solo offeso, ha già perdonato.
    Pietro rinnega, Giovanni fugge, Tommaso dubita e gli altri abbandonano Gesù. Dando la sua pace, il Signore taglia corto a future dispute tra i discepoli. Senza il dono della pace, ad esempio, gli altri avrebbero potuto rifiutare a Pietro il diritto al primato, poiché il rinnegamento aveva di che farlo retrocedere all'ultimo posto nel gruppo apostolico.

    Gli altri discepoli annunziarono a Tommaso. "Abbiamo visto il Signore!". Ma egli disse loro: "Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò ".
    Perché Tommaso esige quelle prove? Perché tanto amore verso il suppliziato e tanta durezza verso il risorto? Perché riapre per amore le piaghe inferte dall'odio? Per quale ragione la sua mano pia e obbediente cerca di squarciare ancora il costato trafitto dall'empia lancia del soldato?
    Come mai la sua curiosità affettuosa rinnova i dolori inflitti dalla furia dei persecutori? Perché la ricerca del discepolo provoca il Signore a gemere, Iddio a patire, il medico celeste a sanguinare?
    La potenza del diavolo crolla, il carcere infernale si spalanca e le catene dei morti si spezzano, perché la morte del Signore ribalta i sepolcri e la sua risurrezione muta totalmente la condizione dei mortali.

    Il Signore stesso rotolò la pietra dalla tomba e slegò le bende mortuarie. La morte fuggì davanti alla gloria di Cristo risorto; la vita ritorna, la carne si ridesta per non conoscere mai più il trapasso.
    Perché solo tu, Tommaso, investigatore troppo guardingo, chiedi di vedere soltanto le cicatrici come prova di fede? Se dal corpo di Cristo le piaghe fossero scomparse, avresti fatto correre un tremendo pericolo alla fede, con quel tuo indebito voler renderti conto. Avevi proprio bisogno di mettere la mano nel fianco trafitto dalla crudeltà dei Giudei? Non c'erano altre prove della risurrezione del Signore e del suo amore?
    Considerate piuttosto, fratelli, che le richieste e le esigenze di Tommaso nascono dall'affetto e dalla dedizione, affinché in futuro non possano più sussistere dubbi sulla risurrezione.
    Tommaso non placa soltanto l'inquietudine del suo cuore, ma anche quella di tutti gli umani. Prima di partire per predicare alle genti, Tommaso, da servo zelante. cerca una base solida per una fede tanto misteriosa.
    Negli interrogativi dell'Apostolo vediamoci uno sguardo prudente gettato sul futuro più che dubbio e scetticismo. Come infatti Tommaso avrebbe potuto sapere che le ferite di Cristo sarebbero rimaste a riprova della risurrezione se un'ispirazione profetica non lo avesse preavvisato?

    Il Signore aveva concesso spontaneamente agli altri discepoli quello che Tommaso ora deve implorare: infatti quando era apparso la prima volta, Gesù aveva mostrato le mani e il costato trafitti.
    Venne Gesù a porte chiuse. I discepoli potevano a ragione prenderlo per uno spirito, ma i segni e le cicatrici della passione provano a questi increduli che si tratta proprio di lui.
    Gesù dice a Tommaso: "Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo, ma credente! Riapri le ferite da cui sono sgorgati l'acqua del perdono e il sangue della redenzione, perché ne zampilli la fede sul mondo intero".
    Tommaso allora esclama: Mio Signore e mio Dio! Ascoltino i miscredenti e non siano più increduli, ma credano, come invita il Signore. Infatti la risposta di Tommaso non manifesta soltanto la presenza corporea di Gesù, ma attraverso le sofferenze del suo corpo attesta ch'egli è Dio e Signore.
    Veramente è Dio colui che è risuscitato dai morti e dopo tali ferite e tale strazio vive e regna nei secoli dei secoli. Amen.

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    Predefinito La questione del "beati quelli che non videro e tuttavia credettero"

    un piccolo appunto sull'episodio di S. Tommaso.
    Il verbo usato da Gesù "credere" non è un presente nè un futuro, cioè non è un "credono" o "crederanno". Il tempo verbale usato (pisteúsantes) non è un futuro ma, al contrario, un participio aoristo. Dunque, un passato. Così, correttamente, tradusse anche la Vulgata di S. Girolamo, l'edizione latina usata per quindici secoli dalla Chiesa: "Crediderunt", credettero. Gesù, quindi, correttamente disse: "Beati coloro che senza aver visto (me direttamente) hanno creduto (o credettero)". "Dunque", commenta un autorevole biblista, Ignace de La Potterie, "l'allusione di Gesù non è ai fedeli che verranno dopo, a noi, che dovranno "credere senza vedere", ma agli apostoli e ai discepoli che per primi hanno riconosciuto che Gesù era risorto, pur nell'esiguità dei segni visibili che lo testimoniavano. In particolare, questo riferimento allude proprio a Giovanni, che con Pietro era corso al sepolcro per primo, dopo che le donne avevano raccontato l'incontro con gli angeli e il loro annuncio che Gesù era risorto. Giovanni, entrato dopo Pietro, aveva visto degli indizi, aveva visto la tomba vuota e le bende rimaste vuote del corpo di Gesù senza essere sciolte e, pur nell'esiguità di tali indizi aveva cominciato a credere". In effetti, rileva il docente del Biblico, "la frase di Gesù, "beati quelli che pur senza aver visto (me) hanno creduto", rinvia proprio al vidit et credidit riferito a Giovanni al momento del suo ingresso nel sepolcro". Ne deriva che "riproponendo l'esempio di Giovanni a Tommaso, il Cristo vuole indicare che è ragionevole credere alla testimonianza di coloro che hanno visto dei segni della sua presenza viva. Non è affatto la richiesta di una fede cieca, nuda, gratuita ma è la beatitudine promessa a coloro che in umiltà riconoscono la sua presenza, a partire da tracce anche esigue, e danno credito alla parola di testimoni (oculari!) credibili".

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    St. Thomas the Apostle

    Little is recorded of St. Thomas the Apostle, nevertheless thanks to the fourth Gospel his personality is clearer to us than that of some others of the Twelve. His name occurs in all the lists of the Synoptists (Matthew 10:3; Mark 3:18; Luke 6, cf. Acts 1:13), but in St. John he plays a distinctive part. First, when Jesus announced His intention of returning to Judea to visit Lazarus, "Thomas" who is called Didymus [the twin], said to his fellow disciples: "Let us also go, that we may die with him" (John 11:16). Again it was St. Thomas who during the discourse before the Last Supper raised an objection: "Thomas saith to him: Lord, we know not whither thou goest; and how can we know the way?" (John 14:5). But more especially St. Thomas is remembered for his incredulity when the other Apostles announced Christ's Resurrection to him: "Except I shall see in his hands the print of the nails, and put my finger into the place of the nails, and put my hand into his side, I will not believe" (John 20:25); but eight days later he made his act of faith, drawing down the rebuke of Jesus: "Because thou hast seen me, Thomas, thou hast believed; blessed are they that have not seen, and have believed" (John 20:29).

    This exhausts all our certain knowledge regarding the Apostle but his name is the starting point of a considerable apocryphal literature, and there are also certain historical data which suggest that some of this apocryphal material may contains germs of truth. The principal document concerning him is the "Acta Thomae", preserved to us with some variations both in Greek and in Syriac, and bearing unmistakeable signs of its Gnostic origin. It may indeed be the work of Bardesanes himself. The story in many of its particulars is utterly extravagant, but it is the early date, being assigned by Harnack (Chronologie, ii, 172) to the beginning of the third century, before A. D. 220. If the place of its origin is really Edessa, as Harnack and others for sound reasons supposed (ibid., p. 176), this would lend considerable probability to the statement, explicitly made in "Acta" (Bonnet, cap. 170, p.286), that the relics of Apostle Thomas, which we know to have been venerated at Edessa, had really come from the East. The extravagance of the legend may be judged from the fact that in more than one place (cap. 31, p. 148) it represents Thomas (Judas Thomas, as he is called here and elsewhere in Syriac tradition) as the twin brother of Jesus. The Thomas in Syriac is equivalant to didymos in Greek, and means twin. Rendel Harris who exaggerates very much the cult of the Dioscuri, wishes to regards this as a transformation of a pagan worship of Edessa but the point is at best problematical. The story itself runs briefly as follows: At the division of the Apostles, India fell to the lot of Thomas, but he declared his inability to go, whereupon his Master Jesus appeared in a supernatural way to Abban, the envoy of Gundafor, an Indian king, and sold Thomas to him to be his slave and serve Gundafor as a carpender. Then Abban and Thomas sailed away until they came to Andrapolis, where they landed and attended the marriage feast of the ruler's daughter. Strange occurences followed and Christ under the appearence of Thomas exhorted the bride to remain a Virgin. Coming to India Thomas undertook to build a palace for Gundafor, but spend the money entrusted to him on the poor. Gundafor imprisoned him; but the Apostle escaped miraculously and Gundafor was converted. Going about the country to preach, Thomas met with strange adventures from dragons and wild asses. Then he came to the city of King Misdai (Syriac Mazdai), where he converted Tertia the wife of Misdai and Vazan his son. After this he was condemed to death, led out of city to a hill, and pierced through with spears by four soldiers. He was buried in the tomb of the ancient kings but his remains were afterwards removed to the West.

    Now it is certainly a remarkable fact that about the year A.D. 46 a king was reigning over that part of Asia south of Himalayas now represented by Afghanistan, Baluchistan, the Punjab, and Sind, who bore the name Gondophernes or Guduphara. This we know both from the discovery of coins, some of the Parthian type with Greek legends, others of the Indian types with the legends in an Indian dialect in Kharoshthi characters. Despite sundry minor variations the identity of the name with the Gundafor of the "Acta Thomae" is unmistakable and is hardly disputed. Further we have the evidence of the Takht-i-Bahi inscription, which is dated and which the best specialists accept as establishing the King Gunduphara probably began to reign about A.D. 20 and was still reigning in 46. Again there are excellent reasons for believing that Misdai or Mazdai may well be transformation of a Hindu name made on the Iranian soil. In this case it will probably represent a certain King Vasudeva of Mathura, a successor of Kanishka. No doubt it can be urged that the Gnostic romancer who wrote the "Acta Thomae" may have adopted a few historical Indian names to lend verisimilitude to his fabrication, but as Mr. Fleet urges in his severely critical paper "the names put forward here in connection with St.Thomas are distinctly not such as have lived in Indian story and tradition" (Joul. of R. Asiatic Soc.,1905, p.235).

    On the other hand, though the tradition that St. Thomas preached in "India" was widely spread in both East and West and is to be found in such writers as Ephraem Syrus, Ambrose, Paulinus, Jerome, and, later Gregory of Tours and others, still it is difficult to discover any adequate support for the long-accepted belief that St. Thomas pushed his missionary journeys as far south as Mylapore, not far from Madras, and there suffered martyrdom. In that region is still to be found a granite bas-relief cross with a Pahlavi (ancient Persian) inscription dating from the seventh century, and the tradition that it was here that St. Thomas laid down his life is locally very strong. Certain it is also that on the Malabar or west coast of southern India a body of Christians still exists using a form of Syriac for its liturgical language. Whether this Church dates from the time of St. Thomas the Apostle (there was a Syro-Chaldean bishop John "from India and Persia" who assisted at the Council of Nicea in 325) or whether the Gospel was first preached there in 345 owing to the Persian persecution under Shapur (or Sapor), or whether the Syrian missionaries who accompanied a certain Thomas Cana penetrated to the Malabar coast about the year 745 seems difficult to determine. We know only that in the sixth century Cosmas Indicopleustes speaks of the existence of Christians at Male (? Malabar) under a bishop who had been consecrated in Persia. King Alfred the Great is stated in the "Anglo-Saxon Chronicle" to have sent an expedition to establish relations with these Christians of the Far East. On the other hand the reputed relics of St. Thomas were certainly at Edessa in the fourth century, and there they remained until they were translated to Chios in 1258 and towards to Ortona. The improbable suggestion that St. Thomas preached in America (American Eccles. Rev., 1899, pp.1-18) is based upon a misunderstanding of the text of the Acts of Apostles (i, 8; cf. Berchet "Fonte italiane per la storia della scoperta del Nuovo Mondo", II, 236, and I, 44).

    Besides the "Acta Thomae" of which a different and notably shorter redaction exists in Ethiopic and Latin, we have an abbreviated form of a so-called "Gospel of Thomas" originally Gnostic, as we know it now merely a fantastical history of the childhood of Jesus, without any notably heretical colouring. There is also a "Revelatio Thomae", condemned as apocryphal in the Degree of Pope Gelasius, which has recently been recovered from various sources in a fragmentary condition (see the full text in the Revue benedictine, 1911, pp. 359-374).

    Fonte: The Catholic Encyclopedia, vol. XIV, New York, 1912

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    Dalle omelie di s. Agostino. Om 69



    La domanda di Tommaso.



    L'apostolo, quando fece la sua domanda, aveva davanti a sé il Maestro, ma non avrebbe potuto comprendere la risposta se non avesse avuto anche dentro di sé il Maestro. È necessario interrogare e ascoltare il Maestro che è dentro di noi e sopra di noi.
    1. Nella risposta che, come avete udito, diede il Signore all'apostolo Tommaso, cerchiamo di comprendere meglio che possiamo, o carissimi, le prime parole del Signore attraverso le successive, le antecedenti attraverso le conseguenti. Poco prima il Signore, parlando delle diverse dimore che ci sono nella casa del Padre suo, aveva detto che egli andava a prepararle; e da ciò noi abbiamo dedotto che queste dimore esistono già nella predestinazione e che insieme vengono preparate quando, mediante la fede, vengono purificati i cuori di coloro che le occuperanno, poiché essi stessi sono la casa di Dio. Infatti, che altro vuol dire abitare nella casa di Dio se non appartenere al popolo di Dio, del quale si dice che è in Dio e Dio in lui? È per preparare questa dimora che il Signore se ne va, affinché noi, credendo in lui che non si vede, ci si prepari mediante la fede a quella dimora permanente che consiste nella visione di Dio. Perciò aveva detto: E quando sarò partito e avrò preparato un posto per voi, ritornerò e vi prenderò con me, affinché dove sono io siate anche voi. E voi conoscete dove vado e la via per andarvi. È allora che Tommaso gli dice: Signore, noi non sappiamo dove vai, e come possiamo conoscere la via? (Gv 14,3-5). Il Signore aveva detto che essi conoscevano l'una e l'altra cosa, e Tommaso dice di non conoscere nessuna delle due cose: né il luogo dove egli va, né la via per andarci. Ma il Signore non può mentire: gli Apostoli dunque conoscevano ambedue le cose, ma non sapevano di conoscerle. Li convinca che essi sanno ciò che credono di non sapere. Gli dice Gesù: Io sono la via, la verità e la vita (Gv 14,6). Che significa questo, fratelli? Abbiamo sentito la domanda del discepolo, abbiamo sentito la risposta del Maestro, ma ancora non abbiamo compreso il contenuto della risposta, neppure dopo che abbiamo sentito il suono della voce. Ma che cosa non possiamo capire? Forse che gli Apostoli, con i quali si intratteneva, potevano dirgli: noi non ti conosciamo? Pertanto se lo conoscevano, dato che lui è la via, conoscevano la via; se lo conoscevano, dato che lui è la verità, conoscevano la verità; se lo conoscevano, dato che lui è la vita, conoscevano la vita. Ecco che si convincono di sapere ciò che credevano di non sapere.
    [Andava, per mezzo di se stesso, a se stesso e al Padre.]
    2. Cos'è dunque che noi in questo discorso non abbiamo capito? Che cosa, fratelli, se non le parole: E voi conoscete dove vado e la via per andarvi? Ci siamo resi conto che essi conoscevano la via, poiché conoscevano lui che è la via. Ma la via serve per camminare; forse che è anche il luogo dove si deve andare? Egli aveva detto che essi conoscevano l'una e l'altra cosa: e il luogo dove andava e la via. Era dunque necessario che egli dicesse: Io sono la via, per dimostrare che essi, conoscendo lui, conoscevano la via che credevano di non conoscere; ma era altrettanto necessario che dicesse: Io sono la via, la verità e la vita, perché, una volta conosciuta la via, restava da conoscere la meta. La via conduceva alla verità, conduceva alla vita. Egli, dunque, andava a se stesso attraverso se stesso. E noi dove andiamo, se non a lui? e per quale via camminiamo, se non per lui? Egli va a se stesso attraverso se stesso; noi andiamo a lui per mezzo di lui; o meglio, andiamo al Padre sia lui che noi. Infatti, parlando di se stesso, altrove dice: Vado al Padre (Gv 16,10); mentre qui, per noi dice: Nessuno viene al Padre se non per mezzo mio (Gv 14,6). Egli dunque va, per mezzo di se stesso, a se stesso e al Padre; noi, per mezzo di lui, andiamo a lui e al Padre.

 

 
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