ariel Sharon:
http://www.comunisti-italiani-trenti...t%C3%A0110.htm
Un paio di anni fa ho visitato i campi di Sabra e Chatila, quelli dove Sharon ha ucciso come cani migliaia di giovani, vecchi, donne. Ancora oggi non se ne sa la cifra esatta. C'è una compagna palestinese che non si stanca di far ricerche per sapere il numero dei morti: è arrivata a contarne più di tremila, ma ancora molti mancano all'appello. Incontra ostacoli d'ogni tipo, dalla burocrazia ottusa e caparbia all'insulto.
Ogni anno, a settembre, una delegazione italiana va a Beirut per ricordare quella strage. Ogni anno spera di trovare qualche cambiamento. Non succede mai. La condizione dei palestinesi nei due campi è penosa. Difficile raccontarla senza cadere nella retorica. Difficile raccontare Sabra, un vecchio ospedale in rovina che raccoglie migliaia di palestinesi. In camerette di un paio di metri, di solito senza finestra, ce ne stanno anche nove. Nei piani c'è un unico bagno e la fila è ininterrotta. Così che quelle mura sporche ed umide per il buio perenne (qualche spiraglio di sole entra solo da piccole e rare fessure) sono impregnate dell'odore degli escrementi e dell'orina.
Sabra m’è sembrato l'inferno. Un mondo a sé, silenzioso e buio, una prigione di profughi che non hanno diritti, ascolto, cittadinanza. La gente vagola per i lunghi ed oscuri corridoi dell'ex ospedale. Ombre informi senza volto e senza voce condannate all'inferno.
Dopo un po’ che sei là dentro l'unica cosa che vuoi è uscire, andartene, vedere la luce, respirare l'aria, toccare mura calde di sole, dimenticare quell’umidore spettrale e mortifero.
Loro, i profughi palestinesi, le vittime ed i figli delle vittime della carneficina di Sharon, vivono lì da anni ed anni. Senza prospettiva. Beirut non li vuole. Il Libano non li vuole. Li tiene chiusi lì dentro per dimenticarsene. Non gli concede diritti e cittadinanza perché non invadano la loro vita.
Era il 16 settembre del 1982. Alle cinque del pomeriggio le truppe falangiste, miliziani delle forze filo israeliane, invasero il campo. L'esercito di Tel Aviv, comandato da Sharon, lo circondò. Nessuno doveva scappare. Rimasero tutti intrappolati mentre le truppe falangiste facevano il loro "lavoro". Quando arrivò la notte l'esercito israeliano si mise a lanciare granate perché il campo fosse ben illuminato e nessuno potesse nascondersi. Le truppe falangiste andarono avanti industurbate per quaranta ore. Quaranta ore di carneficina. Dal 16 al 18 settembre.
Sono passati 22 anni. Non un colpevole ha pagato. I morti non sono mai stati seppelliti, di mille di loro non s'è saputo più nulla.
A Chatila, all'ingresso del campo, c'è una grande spianata di polvere. Era la più grande delle fosse comuni. Ora è ricolma di detriti e delle immondizie che buttano quelli del mercato vicino.
C'è un documento che riporta un incontro tra Sharon, e il capo delle Forze libanesi, Bechir Gemayel. Sharon è brusco ed impaziente. Dice ai fascisti locali che debbono far bene ed in fretta per "ripulire i campi dai terroristi". Il terrorismo la faceva alla grande già allora per giustificare guerre, orrori, carneficine di civili.
Racconta Jamile Shelade, 51 anni, una delle poche sopravvissuta al massacro: "Abitavo con la mia famiglia appena fuori dal campo di Chatila. Allora si poteva. Anzi sedicimila persone abitavano qui intorno. Mentre ora ci è permesso di vivere soltanto all'interno del campo. I giorni precedenti a quel 16 settembre, i soldati israeliani che avevano circondato il campo, offrivano acqua ai nostri bambini. Forse per rassicurarli che niente sarebbe loro accaduto. Ma nella notte tra il 16 e il 17 cominciammo a vedere tutto il campo illuminato da razzi. I giovani credettero che si trattasse di fuochi d'artificio ed uscirono di corsa per strada. Non sapevamo cosa stesse succedendo. Quando percepimmo il pericolo, ci rifugiammo al Gaza Hospital, l'ospedale del campo. Lo consideravamo un luogo sicuro. Io, però, corsi verso l'interno di Chatila per avere notizie e mentre mi addentravo scorsi una donna incinta che era stata squartata e con il figlio ancora in grembo. Disperata tornai indietro. Capii che, poco a poco, i soldati stavano avanzando all'interno del campo. Così avvisai la mia ed altre due famiglie e dal Gaza Hospital scappammo verso il quartiere di Hamra, dove poi ricevemmo ospitalità. Ma dopo pochi metri, lungo la strada, ci trovammo di fronte i soldati israeliani. Ci fermarono e ci divisero in due gruppi. Donne e bambini al di sotto dei quindici anni vennero lasciati liberi, gli altri, invece, caricati su un camion e portati via. Poco dopo, seppi che erano stati trasferiti al campo sportivo Camille Chamoun. Qualcuno tornò. Altri vennero uccisi lì, allo stadio".
Quando i giornalisti entrarono nel campo, la mattina del 19 settembre del 1982, si trovarono davanti uno spettacolo indicibile. Cadaveri ovunque, corpi senza vita, smembrati, decapitati. Da lì a poco, tutta l'umanità seppe dell'eccidio di Sabra e Chatila.
Oggi il campo è un ammasso di palazzi fragili e sbilenchi di cinque, sei piani che incombono su strettissimi vicoli e impediscono alla luce di rischiarare l'oscurità dei piani bassi. Non c'è acqua né energia elettrica a Chatila. Le minuscole tubature artigianali di acqua non potabile si accavallano lungo le stradine buie, accompagnano i dedali di fili elettrici che da un palazzo all'altro s'intrecciano, intersecando il cielo, in tante piccole finestre. I rigagnoli di fogne a cielo aperto scorrono senza sosta, formando un labirinto maleodorante. Qua e là montagne di rifiuti scalate dai bambini. Nel campo della disperazione, oggi, vivono ventimila persone tra palestinesi, libanesi e siriani. Tutte sotto la soglia della povertà.
Il Libano non vuole l’integrazione dei palestinesi. Il Libano e tutto il mondo - nessuno è innocente della strage di Sabra e Chatila - rimuovono quotidianamente anche il ricordo. Tranne quel piccolo gruppo di cui ho parlato all'inizio che ogni anno va lì, incontra le ong, incontra i palestinesi, va nei campi, entra nelle case dei diseredati. "Per non dimenticare Sabra e Chatila": si chiama così il loro viaggio. Ed a quel viaggio qualcuno del nostro partito partecipa ogni anno. Per non dimenticare, appunto.