I ricordi di Don Antonio Tagliaferri e il grande dipinto di SS.Trinità a Piacenza

"Nel 1996 avvenne un incontro provvidenziale"



Incontrare mons. Antonio Tagliaferri (per tutti don Antonio, a Piacenza) significa ripercorrere mezzo secolo di storia, cinquant'anni che vanno dalla fine della seconda guerra mondiale al giubileo del millennio, passando attraverso il Sessantotto e un Concilio epocale che trasformò la Chiesa.
Nel 1949 avvenne l'incontro del sacerdote con l'architetto Bacciocchi, un professionista prestigioso a cui si deve il progetto della SS. Trinità a Piacenza.
«Ricordo che qualcuno mi suggerì di interpellarlo, così andai nel suo studio a Milano, in via Belgioioso e gli sottoposi il nostro problema. Lui fu subito entusiasta e mi disse: "Ma il progetto è già pronto, eccolo!" e mi mostrò un grande disegno a colori di quella che sarebbe poi diventata la nostra chiesa, poi soggiunse: "Lo regalo alla mia città". Il dono di Bacciocchi era estremamente avvincente ma anche ingombrante, la proposta creò scompiglio in parrocchia e nella curia, l'unica cosa certa era che non avevo nemmeno una lira per realizzarlo!».

Come si sbloccò la situazione?

«Un parrocchiano, l'industriale Caccialanza, offrì una somma non certo adeguata a coprire il progetto ma però sufficiente per iniziare una piccola parte, cioè una delle due cripte previste, in grado di ospitare circa quattrocento fedeli. Nel 1950 la ditta Braghieri e Camoni provvide alla posa della prima pietra e l'anno seguente, il 4 giugno 1951 l'arcivescovo Menzani venne ad inaugurare la cripta ormai ultimata. Terminato il rito l'arcivescovo mi si avvicinò sussurrandomi all'orecchio: "Ma tu riesci a dormire di notte?". Non dimenticherò mai questo particolare, lui aveva tanto sofferto per la costruzione
del Corpus Domini».

Perché la scelta di intitolare la chiesa alla Santissima Trinità?

"Fu il vescovo Menzani a sceglierla; nel primo dopoguerra aveva voluto creare delle nuove parrocchie intorno alla città nella speranza che sorgessero nuovi quartieri. Iniziò con il Corpus Domini, poi i Santi Angeli di Borgotrebbia, la Sacra Famiglia all'Infrangibile e la Santissima Trinità al Belvedere".

Da dove prese il nome il quartiere?

"Si trattava di poche case sorte lungo via Veneto dove tra l'altro la signora Fiorina Balordi Devoti aveva costruito una trattoria chiamata appunto "Belvedere", lì c'era il capolinea del tram. L'intitolazione alla Trinità mi trovò entusiasta - continua don Antonio - era un riprendere una devozione particolarmente viva nei primi secoli del cristianesimo. A Piacenza un tempo la chiesa dei Gesuiti, poi dedicata al Sacro Cuore, era intitolata alla Trinità. Quando Padre Pio nel nostro secondo incontro mi disse "Questa chiesa darà grande gloria a Dio" pensai che si riferisse al titolo alla Santissima Trinità».
Si fa serio don Tagliaferri prima di proseguire nel suo discorso.
«Penso sia opportuno avviare la devozione dei santi verso la Trinità che è il cuore del cristianesimo. In
diversi casi di devozione si rischia un'idolatria quasi un "do ut des" per avere una grazia. La Trinità è un altro discorso. La Trinità è il mistero del Dio presente in tutto: dalla creazione, alla redenzione, alla santificazione. Non c'è spazio per null'altro, la Trinità copre tutto. E pensare che a Parigi anni fa hanno fatto un sondaggio chiedendo alla gente che cos'era la Trinità e la maggior parte delle persone rispondeva che era il nome di una stazione della metropolitana!».
Continua don Tagliaferri: «Se c'è una cosa che mi addolora di non aver potuto fare è quello di aver sviluppato in parrocchia la devozione per la Santissima Trinità, mi pare però che don Alessandrini, il nuovo parroco, abbia il mio stesso indirizzo al riguardo».

Quali sono le cose che più l'hanno colpita nella sua vita?

«Prima di tutto bisogna distinguere tra il naturale e il soprannaturale. Nelle cose materiali mi ha particolarmente impressionato il macrocosmo; quando il prof. Zichichi mi parlava delle realtà del mondo... noi siamo una pallina immersa nell'universo. Mi dà l'impressione che io sia su un trabiccolo che si muove attorniato da un'infinità di altri mondi. Siamo davvero piccolissimi. Ma anche il microcosmo mi ha sempre colpito. Ieri ad esempio mentre scrivevo su un foglio vedo qualcosa di microscopico che si muove, una piccola cosa viva, un insetto: allora ho pensato che se su Marte si riuscisse a trovare un insetto come questo tuttoil mondo urlerebbe la sua meraviglia e noi invece siamo talmente abituati a ciò che ci circonda che non ci accorgiamo di essere di fronte a meraviglie infinite tutti i momenti».

E in campo spirituale?

«Vuoi sapere cosa mi impressiona di più nella fede? Due cose. La prima è l'incarnazione. Dio che è infinito e che a un certo momento nasce dal grembo di Maria e vive per trent'anni in una casa umile, lavorando. Non solo; lui che è sapienza e potenza infinita accetta di essere schernito e messo in croce sopportando tutto questo in silenzio. L'incarnazione dovrebbe far gridare di meraviglia tutte le pietre del mondo!».

E la seconda cosa?

«L'eucaristia. E' il massimo dell'umiltà manifestata da Dio. Finché ci sarà un prete in grado di celebrare una messa il mondo avrà una speranza concreta di salvezza».

Cos'è per lei la fede?

«E' un dono di Dio. Però a questo dono contribuisce la fede dei genitori. Se sono qui è perché mia madre aveva una gran fede. La fede è un seme che si sviluppa là dove c'è un clima adatto, per questa ragione la Chiesa dà una grande importanza alla famiglia».

Cosa direbbe a chi non crede?

«Io chiedo. E' più facile dire non credo o è più facile dire credo? Tu mi dici che Dio non c'è. Io non posso farti la fotografia di Dio, non posso darti prove di ordine materiale. Ma ti chiedo se guardando il mondo che ci circonda è più facile dire che Dio non esiste piuttosto che dire che Dio esiste. A questo proposito mi piacciono le parole di san Tommaso d'Aquino che dice: io esisto quindi deve
necessariamente esserci un essere che mi ha fatto».

Ma perché proprio il Dio dei Cristiani?

«Guardiamo la storia dell'umanità. E' la storia di un Dio che si rivela e si rivela come persona. La cosa più grande per me è che il Creatore si è rivelato nella storia».

Torniamo ai lavori di completamento della chiesa. Verso la metà degli anni Novanta venne realizzato il rivestimento esterno del grande edificio e a quel punto restava da fare la parte più complessa dell'intero progetto: il dipinto della parete absidale.

«Negli anni precedenti avevo interpellato artisti di fama come Annigoni e il nostro Ricchetti ma tutto fu inutile, tanto che pensai che il problema del dipinto avrebbe interessato ancora il mio decimo successore. Invece alla fine del 1996 avvenne un incontro che si è rivelato provvidenziale per la nostra chiesa. Mi recai a Firenze dove incontrai personalmente Francisco Arguello, iniziatore delle
comunità neocatecumenali. Kiko mi mostrò i dipinti da lui eseguiti per la chiesa di Scandicci e nel salutarci gli parlai della grande parete della nostra chiesa. Il pittore mi domandò: "Ma avete un'idea di chi potrebbe affrontare un'opera del genere?" E io scherzando ma non troppo: "Sì, un'idea ce l'avrei, Francisco Arguello!". Tutto finì lì. Dopo un paio d'anni Kiko mi telefona da Parigi e mi chiede di venire a Piacenza con un gruppo di amici pittori e si ferma a guardare a lungo la grande parete rimanendo colpito dal fatto che questa era illuminata anche senza faretti grazie alla luce dei grandi finestroni. Poi ripartì dicendomi che aveva bisogno di pensare e di pregare. Alcuni mesi dopo insieme a Carlo Pagani, economo della parrocchia, mi incontrai con Kiko a Santa Marinella di Civitavecchia dove egli ci presentò il suo progetto del ciclo pittorico che oggi orna l'abside della nostra chiesa dicendosi
disposto a realizzarlo. I lavori si sono conclusi nel giugno del 1999 alla presenza di mons. Monari e di un rappresentante della Chiesa ortodossa di Mosca visto che il significato del dipinto è soprattutto ecumenico».

Che effetto fa vedere la statua di Padre Pio sul piazzale della Santissima Trinità e ripensare a quando l'ha incontrato in carne ed ossa?

«Allora non pensavo che un giorno sarebbe diventato santo. Gli parlavo come parlo ora con te. In questo vedo la mano della provvidenza.
Diverse volte in questi ultimi anni ho ripensato a quando mi disse che si sarebbe ricordato di me anche se io non mi fossi ricordato più di lui e penso che quello non fu un rimprovero. Io credo di aver avuto un compito particolare nella mia vita: realizzare questo complesso e in questo lungo lavoro il santo di Pietrelcina mi è sempre stato nascostamente vicino. Ecco, ho portato avanti una cosa che si doveva
fare ed ora ho passato il testimone».

Parliamo dell'esperienza del neocatecumenato che ha avuto una rapida e grande espansione all'interno della parrocchia.

«Nella Chiesa ci sono esperienze diverse, alcune più impegnative di altre ma tutte corrono sullo stesso binario per portare tutti alla stessa meta».

Lei ha vissuto il passaggio epocale del Concilio Vaticano II voluto da Giovanni XXIII e Paolo VI, com'era la Chiesa di allora?

«La chiesa preconciliare a Piacenza era caratterizzata dai seminari pieni: quello urbano, poi l'Alberoni, Bedonia e Bobbio, 400 o 500 seminaristi. A Piacenza ci fu nei primi anni Sessanta anche l'idea di realizzare un grande seminario accanto a sant'Agostino.
La civitas cristiana era disseminata di paesini tutti con il loro campanile e il loro parroco. Poi nel giro di pochi anni è caduto tutto e i preti hanno cominciato a scarseggiare anche perché la mentalità era cambiata, gli imperativi diventavano altri, legati più ai beni materiali. Così la Chiesa si è rinnovata ed è nata l'esigenza di approfondire per formarsi una fede più profonda, pronta anche a mettersi in gioco. Ad un sacerdote appena ordinato direi di essere sempre disponibile al dialogo. E' incredibile il bisogno di contatto umano che c'è nella gente».