IL CONSERVATORISMO AMERICANO di Antonio Donno - Parte Prima
Antonio Donno
Il conservatorismo americano
La rivoluzione americana come rivoluzione conservatrice
In un libro del 2005 Brian R. Farmer ha analizzato le varie fasi della storia del conservatorismo negli Stati Uniti, individuando nelle stesse vicende della rivoluzione americana le origini della tradizione politica conservatrice di quel paese.(1) Del resto, è ben noto come alcune autorevoli interpretazioni della rivoluzione americana abbiano sottolineato gli elementi di conservazione – o di continuità – di quell’evento fondamentale della storia mondiale rispetto al passato coloniale ed alle conquiste di libertà dei coloni americani in due secoli di colonizzazione bianca del Nord America. Può sembrare azzardato rinvenire nella rivoluzione americana come rivoluzione conservatrice l’inizio della storia del conservatorismo negli Stati Uniti, ma – come si è detto – il retroterra storico e le particolari istituzioni autonome che si erano andate consolidando parallelamente al governo di Sua Maestà possono consentirci di affermare che il momento rivoluzionario rappresentò la lotta per la conservazione delle libertà che i coloni si erano conquistati durante tutto il periodo coloniale, libertà che configuravano un vero e proprio autogoverno. (2) Gordon S. Wood ha così sintetizzato il fenomeno: «Nelle colonie continentali inglesi del Nordamerica un secolo e mezzo di sviluppo dinamico aveva modificato sostanzialmente le istituzioni e i modelli di vita ereditati dall’Europa, creando la base per una nuova società».(3)
Ma fu un’opera fondamentale di Bernard Bailyn, pubblicata nel 1967, a porre la questione in termini storiograficamente chiari.(4) Bailyn, in sintesi, sosteneva la tesi che vi fosse stata, nella vicenda coloniale, una significativa continuità tra la lotta sui fondamenti del governo ed i principi originari della rivoluzione americana. In sostanza, il grande storico americano sottolineava come la rivoluzione avesse inteso conservare lo spirito e le conquiste della lotta dei coloni, innestandoli poi, come principi fondanti, nella Costituzione degli Stati Uniti. Gli ideali della rivoluzione americana e la pratica costituzionale – afferma Bailyn nel suo libro più recente – «[…] fornirono un esempio vivente di ciò che poteva essere fatto quando si organizzava un governo […]. Il costituzionalismo
americano […] era un pozzo di esperienze al quale si poteva attingere […]»; e perciò, «le idee costituzionali dei nordamericani erano dibattute ovunque […]», dalla Francia rivoluzionaria all’Inghilterra, dal Brasile, dove i giovani universitari che studiavano a Coimbra si abbeveravano ai fondamenti del pensiero di Jefferson, al Cile, dall’Ecuador, dove la Dichiarazione di Indipendenza era considerata «“come l’unica speranza per i popoli oppressi”», al Messico, e poi in Francia e in Germania nel 1848 ed in Argentina nel 1853.(5)
Così, sulla scorta delle affermazioni di Bailyn, si può azzardare questo paradosso: mentre la giovane
repubblica nordamericana, con il varo della Costituzione, portava a compimento le conquiste di libertà accumulate nel Seicento e Settecento, attraverso un processo di conservazione e di consolidamento dei principi liberali che erano andati germogliando nel contesto di un autogoverno nel lungo periodo coloniale, nella parte meridionale del continente l’esempio nordamericano scatenava un entusiasmo rivoluzionario che rappresentava una rottura traumatica priva, però, di un retroterra di conquiste liberali consolidate. Questa rottura potrebbe indurre a ritenere più rivoluzionario il processo che avvenne nel Sudamerica rispetto alla parte nordamericana; in realtà, le rivoluzioni sudamericane fallirono miseramente, mentre nel Nord del continente si instaurò una democrazia vitale che ha rappresentato un esempio per i popoli oppressi. La spiegazione di questo fenomeno di portata mondiale riconduce alla tesi della conservazione: la rivoluzione americana conservò ed innovò contemporaneamente, non fece tabula rasa del passato, come la rivoluzione francese (qui la lezione della Arendt è fondamentale), ma innestò le precedenti conquiste in una cornice costituzionale e repubblicana solidissima. Bailyn parla giustamente del repubblicanesimo come principio ispiratore della rivoluzione americana.(6)
Che cosa “conservò” la rivoluzione americana? Innanzitutto, oltre al principio della libertà religiosa, la consapevolezza del ruolo della religione nella vita sociale, il senso della presenza di Dio nella vita degli individui e della comunità, la certezza della mano benefica della Divina Provvidenza a protezione della nuova nazione cristiana, erede del Covenant che i Padri Pellegrini avevano stipulato tra di loro e con il Signore. La “nuova Sion”, la “nuova Gerusalemme” era nata. Michael Novak ha sostenuto che fosse convinzione dei Padri Pellegrini che la fede in Dio fosse parte indispensabile della loro storia, mentre, con il passar del tempo, si è consolidata la visione che la nuova nazione fosse «[…] l’incarnazione storica di una filosofia secolare, l’Illuminismo».(7) In realtà, i Padri Fondatori degli Stati Uniti, aggiunge Novak, non erano affatto secolaristi, come quelli francesi, e non intendevano sradicare la religione dalla vita civile, ma il contrario: ponevano la religione al centro del loro universo e della nazione cui avevano dato vita, attraverso la lotta contro i tiranni. Ed è per questo che Benjamin Franklin aveva affermato che «la ribellione contro i tiranni è obbedienza a Dio».
Di più: l’aquila americana volava su due robuste ali: l’Ebraismo ed il Cristianesimo. L’originalità del libro di Novak è proprio qui. Attraverso il ricorso alla citazione ed al commento di molti passi dei testi biblici, Novak dimostra come il Cristianesimo americano fosse intimamente legato, a livello di sentimento individuale e comunitario, alle radici ebraiche. Grazie a questo legame, che si è conservato nel tempo, e se si esclude la posizione dell’Anglicanesimo sul suolo nordamericano, un Cristianesimo di stampo evangelico e lo stesso Cattolicesimo – nonostante l’avversione di parti del mondo cristiano verso il “papismo” – dettero un contributo fondamentale al radicamento e alla diffusione del sentimento religioso tra i coloni bianchi. In sintesi, la vita del colono in Nordamerica ed i suoi progressi materiali furono il frutto originalissimo dell’incontro tra la “sovranità dell’individuo”, di cui scrisse negli anni Trenta dell’Ottocento un uomo della frontiera, Josiah Warren, e che divenne più tardi il fondamento del pensiero liberale, e il sentimento della sacralità della persona umana propria del Cristianesimo. Eppure, il Cristianesimo evangelico americano aveva radici britanniche, nei gruppi religiosi, strettamente legati all’insegnamento dei testi ebraici, sempre più numerosi e ostili all’Anglicanesimo, che Jill Hamilton ha definito chiese “non-conformiste”, di cui faceva parte una buona fetta della classe dirigente britannica dal Seicento in poi. Celebre l’affermazione di Lloyd George: «Grazie ai testi ebraici, conosco la geografia della Terra Santa molto meglio di quella della Gran Bretagna».(8)
Fu proprio in ragione di tutto ciò che il Cristianesimo americano conservò nel tempo una special relationship con l’Ebraismo, di cui si sentiva figlio e spesso anche interprete, radicando nella vita delle comunità e dell’intera nazione un sentimento di appartenenza ad un comune mondo religioso e
sociale. In un recente articolo, preludio ad una prossima edizione italiana del suo ultimo libro, David Gelernter sostiene che «[…] l’America non è una repubblica secolarizzata; è una repubblica biblica.
L’americanismo non è una religione civile; è una religione biblica. L’americanismo non enuncia meramente gli ideali nazionali sul presupposto della propria autorità; parla in nome della Bibbia e del Dio della Bibbia, come fece Lincoln nel suo discorso inaugurale del secondo mandato». (9) L’Ebraismo, dunque, è stato consustanziale al sentimento religioso e civile della nuova Repubblica cristiana; ciò spiega, tra l’altro, come Israele sia sempre stato in the mind of America, come ha titolato Peter Grose un suo vecchio ma indispensabile libro.(10) La persistenza del legame con l’Ebraismo, ed anzi il suo rafforzamento dagli anni di Reagan in poi, ha consentito, in vaste aree non metropolitane degli Stati Uniti, la conservazione dei tradizionali valori originari: il timor di Dio, la centralità della famiglia, la solidità della vita comunitaria, l’opposizione all’aborto; in più, nel campo della politica, la diffidenza verso il potere centrale, l’anticomunismo, la gelosa difesa del decentramento e dei poteri locali.(11)
Fine prima parte - continua