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    Predefinito Il conservatorismo americano

    IL CONSERVATORISMO AMERICANO di Antonio Donno - Parte Prima



    Antonio Donno
    Il conservatorismo americano






    La rivoluzione americana come rivoluzione conservatrice

    In un libro del 2005 Brian R. Farmer ha analizzato le varie fasi della storia del conservatorismo negli Stati Uniti, individuando nelle stesse vicende della rivoluzione americana le origini della tradizione politica conservatrice di quel paese.(1) Del resto, è ben noto come alcune autorevoli interpretazioni della rivoluzione americana abbiano sottolineato gli elementi di conservazione – o di continuità – di quell’evento fondamentale della storia mondiale rispetto al passato coloniale ed alle conquiste di libertà dei coloni americani in due secoli di colonizzazione bianca del Nord America. Può sembrare azzardato rinvenire nella rivoluzione americana come rivoluzione conservatrice l’inizio della storia del conservatorismo negli Stati Uniti, ma – come si è detto – il retroterra storico e le particolari istituzioni autonome che si erano andate consolidando parallelamente al governo di Sua Maestà possono consentirci di affermare che il momento rivoluzionario rappresentò la lotta per la conservazione delle libertà che i coloni si erano conquistati durante tutto il periodo coloniale, libertà che configuravano un vero e proprio autogoverno. (2) Gordon S. Wood ha così sintetizzato il fenomeno: «Nelle colonie continentali inglesi del Nordamerica un secolo e mezzo di sviluppo dinamico aveva modificato sostanzialmente le istituzioni e i modelli di vita ereditati dall’Europa, creando la base per una nuova società».(3)

    Ma fu un’opera fondamentale di Bernard Bailyn, pubblicata nel 1967, a porre la questione in termini storiograficamente chiari.(4) Bailyn, in sintesi, sosteneva la tesi che vi fosse stata, nella vicenda coloniale, una significativa continuità tra la lotta sui fondamenti del governo ed i principi originari della rivoluzione americana. In sostanza, il grande storico americano sottolineava come la rivoluzione avesse inteso conservare lo spirito e le conquiste della lotta dei coloni, innestandoli poi, come principi fondanti, nella Costituzione degli Stati Uniti. Gli ideali della rivoluzione americana e la pratica costituzionale – afferma Bailyn nel suo libro più recente – «[…] fornirono un esempio vivente di ciò che poteva essere fatto quando si organizzava un governo […]. Il costituzionalismo
    americano […] era un pozzo di esperienze al quale si poteva attingere […]»; e perciò, «le idee costituzionali dei nordamericani erano dibattute ovunque […]», dalla Francia rivoluzionaria all’Inghilterra, dal Brasile, dove i giovani universitari che studiavano a Coimbra si abbeveravano ai fondamenti del pensiero di Jefferson, al Cile, dall’Ecuador, dove la Dichiarazione di Indipendenza era considerata «“come l’unica speranza per i popoli oppressi”», al Messico, e poi in Francia e in Germania nel 1848 ed in Argentina nel 1853.(5)

    Così, sulla scorta delle affermazioni di Bailyn, si può azzardare questo paradosso: mentre la giovane
    repubblica nordamericana, con il varo della Costituzione, portava a compimento le conquiste di libertà accumulate nel Seicento e Settecento, attraverso un processo di conservazione e di consolidamento dei principi liberali che erano andati germogliando nel contesto di un autogoverno nel lungo periodo coloniale, nella parte meridionale del continente l’esempio nordamericano scatenava un entusiasmo rivoluzionario che rappresentava una rottura traumatica priva, però, di un retroterra di conquiste liberali consolidate. Questa rottura potrebbe indurre a ritenere più rivoluzionario il processo che avvenne nel Sudamerica rispetto alla parte nordamericana; in realtà, le rivoluzioni sudamericane fallirono miseramente, mentre nel Nord del continente si instaurò una democrazia vitale che ha rappresentato un esempio per i popoli oppressi. La spiegazione di questo fenomeno di portata mondiale riconduce alla tesi della conservazione: la rivoluzione americana conservò ed innovò contemporaneamente, non fece tabula rasa del passato, come la rivoluzione francese (qui la lezione della Arendt è fondamentale), ma innestò le precedenti conquiste in una cornice costituzionale e repubblicana solidissima. Bailyn parla giustamente del repubblicanesimo come principio ispiratore della rivoluzione americana.(6)

    Che cosa “conservò” la rivoluzione americana? Innanzitutto, oltre al principio della libertà religiosa, la consapevolezza del ruolo della religione nella vita sociale, il senso della presenza di Dio nella vita degli individui e della comunità, la certezza della mano benefica della Divina Provvidenza a protezione della nuova nazione cristiana, erede del Covenant che i Padri Pellegrini avevano stipulato tra di loro e con il Signore. La “nuova Sion”, la “nuova Gerusalemme” era nata. Michael Novak ha sostenuto che fosse convinzione dei Padri Pellegrini che la fede in Dio fosse parte indispensabile della loro storia, mentre, con il passar del tempo, si è consolidata la visione che la nuova nazione fosse «[…] l’incarnazione storica di una filosofia secolare, l’Illuminismo».(7) In realtà, i Padri Fondatori degli Stati Uniti, aggiunge Novak, non erano affatto secolaristi, come quelli francesi, e non intendevano sradicare la religione dalla vita civile, ma il contrario: ponevano la religione al centro del loro universo e della nazione cui avevano dato vita, attraverso la lotta contro i tiranni. Ed è per questo che Benjamin Franklin aveva affermato che «la ribellione contro i tiranni è obbedienza a Dio».

    Di più: l’aquila americana volava su due robuste ali: l’Ebraismo ed il Cristianesimo. L’originalità del libro di Novak è proprio qui. Attraverso il ricorso alla citazione ed al commento di molti passi dei testi biblici, Novak dimostra come il Cristianesimo americano fosse intimamente legato, a livello di sentimento individuale e comunitario, alle radici ebraiche. Grazie a questo legame, che si è conservato nel tempo, e se si esclude la posizione dell’Anglicanesimo sul suolo nordamericano, un Cristianesimo di stampo evangelico e lo stesso Cattolicesimo – nonostante l’avversione di parti del mondo cristiano verso il “papismo” – dettero un contributo fondamentale al radicamento e alla diffusione del sentimento religioso tra i coloni bianchi. In sintesi, la vita del colono in Nordamerica ed i suoi progressi materiali furono il frutto originalissimo dell’incontro tra la “sovranità dell’individuo”, di cui scrisse negli anni Trenta dell’Ottocento un uomo della frontiera, Josiah Warren, e che divenne più tardi il fondamento del pensiero liberale, e il sentimento della sacralità della persona umana propria del Cristianesimo. Eppure, il Cristianesimo evangelico americano aveva radici britanniche, nei gruppi religiosi, strettamente legati all’insegnamento dei testi ebraici, sempre più numerosi e ostili all’Anglicanesimo, che Jill Hamilton ha definito chiese “non-conformiste”, di cui faceva parte una buona fetta della classe dirigente britannica dal Seicento in poi. Celebre l’affermazione di Lloyd George: «Grazie ai testi ebraici, conosco la geografia della Terra Santa molto meglio di quella della Gran Bretagna».(8)

    Fu proprio in ragione di tutto ciò che il Cristianesimo americano conservò nel tempo una special relationship con l’Ebraismo, di cui si sentiva figlio e spesso anche interprete, radicando nella vita delle comunità e dell’intera nazione un sentimento di appartenenza ad un comune mondo religioso e
    sociale. In un recente articolo, preludio ad una prossima edizione italiana del suo ultimo libro, David Gelernter sostiene che «[…] l’America non è una repubblica secolarizzata; è una repubblica biblica.

    L’americanismo non è una religione civile; è una religione biblica. L’americanismo non enuncia meramente gli ideali nazionali sul presupposto della propria autorità; parla in nome della Bibbia e del Dio della Bibbia, come fece Lincoln nel suo discorso inaugurale del secondo mandato». (9) L’Ebraismo, dunque, è stato consustanziale al sentimento religioso e civile della nuova Repubblica cristiana; ciò spiega, tra l’altro, come Israele sia sempre stato in the mind of America, come ha titolato Peter Grose un suo vecchio ma indispensabile libro.(10) La persistenza del legame con l’Ebraismo, ed anzi il suo rafforzamento dagli anni di Reagan in poi, ha consentito, in vaste aree non metropolitane degli Stati Uniti, la conservazione dei tradizionali valori originari: il timor di Dio, la centralità della famiglia, la solidità della vita comunitaria, l’opposizione all’aborto; in più, nel campo della politica, la diffidenza verso il potere centrale, l’anticomunismo, la gelosa difesa del decentramento e dei poteri locali.(11)


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    Predefinito Rif: Il conservatorismo americano

    IL CONSERVATORISMO AMERICANO di Antonio Donno - Parte seconda



    L’“anglosfera” e il consolidamento del modello liberale americano

    È opportuno, a questo punto, sottolineare la sostanziale identità di vedute tra i conservatori odierni, impersonati principalmente da Pat Buchanan, ed i paleo-libertari americani (uno dei tanti filoni del libertarismo americano) – il cui massimo esponente è stato Murray N. Rothbard – su alcuni principi di base. I paleo-libertari americani si richiamano esplicitamente alla Old Right anti-rooseveltiana ed anche questo legame ha provveduto a saldare i due movimenti su molte questioni di fondo: «[…] Ridare forza all’isolazionismo nell’epoca post-guerra fredda; tutelare le comunità locali dalle pretese centralizzatrici del governo federale o delle istituzioni sovranazionali; affermare l’importanza della battaglia culturale in difesa dei valori tradizionali che permeavano la Vecchia Cultura americana prima della Rivoluzione Culturale degli anni Sessanta; difendere l’eredità culturale della civiltà occidentale («l’unica che abbiamo», secondo Rothbard) dall’aggressione multiculturalista e politically correct; contestare la proliferazioni di privilegi statali concessi ad ogni gruppo che venga ufficialmente designato come “minoranza oppressa”; riconoscere l’importante ruolo giocato dalla religione cristiana, e particolarmente dalla filosofia cattolica, nella fondazione delle basi morali della nostra civiltà; sottolineare lo stretto collegamento che esiste tra le istituzioni di una società libertaria (mercati, diritti di proprietà, contratti, libertà individuali, libertà d’impresa) e i valori culturali tradizionali, famigliari e borghesi sottostanti; mettere in luce, correlativamente, il nesso che lega i valori controculturali, nichilisti, edonisti e libertini che celebrano l’irresponsabilità individuale con l’espansione dello statalismo e l’edificazione dell’assistenzialismo “dalla culla alla bara”».(12)

    Ma un dato fondamentale emerge oggi dalla confluenza ideale tra conservatori e paleo-libertari: l’elogio del Cattolicesimo: «La famiglia, il libero mercato, la dignità dell’individuo, i diritti di proprietà privata e lo stesso concetto di libertà […] sono tutti prodotti della nostra cultura religiosa. Il Cristianesimo diede infatti origine all’individualismo enfatizzando l’importanza di ogni singola anima, perché la Chiesa insegna che Dio avrebbe mandato Suo Figlio a morire sulla croce anche se un solo essere umano avesse avuto bisogno della sua intercessione. Con la sua enfasi sulla ragione, la legge morale oggettiva, e la proprietà privata, il Cristianesimo rese possibile lo sviluppo del capitalismo.

    Esso affermò che tutti gli uomini sono egualmente figli di Dio (benché non uguali in ogni altro senso), e che perciò dovrebbero essere uguali davanti alla legge. Fu la Chiesa transnazionale che combatté il nazionalismo, il militarismo, la tassazione elevata e l’oppressione politica. Furono i suoi
    teologi a proclamare la legittimità del tirannicidio».13 Il Cristianesimo cui fanno riferimento i paleolibertari è la Chiesa Cattolica Romana, che Rothbard definiva «[…] l’originale e permanente Chiesa Cristiana […]».14 Il paleo-libertarismo americano, il cui iniziatore fu Albert J. Nock negli Venti e Trenta del Novecento,15 pone l’accento sui valori fondanti la Repubblica americana, con particolare riguardo alle radici giudaico-cristiane degli Stati Uniti, con questo definendosi come momento teorico di conservazione del patrimonio originario di una nazione all’avanguardia rispetto all’Europa continentale. La distinzione è chiara (e lo vedremo meglio più avanti): Robert Conquest, nel suo ultimo libro, ha parlato giustamente della differenza tra i valori tipici dell’“anglosfera”, o “sfera anglo-americana”, e quelli dell’Europa continentale.(16) Questa distinzione ha avuto un riflesso fondamentale nella stessa concezione dell’economia; anzi, si potrebbe dire che questa diversa concezione dell’economia è stata il volano iniziale per successive differenziazioni su molti aspetti della storia delle due sfere: «Per statisti come Metternich o Bismarck, e per coloro che ne seguono la tradizione, negli affari esteri la politica è tutto; l’economia è, nel migliore dei casi, un ripensamento. Nella tradizione anglo-americana i problemi economici sono fondamentali: è il successo economico che crea le basi finanziarie per il potere di una nazione».(17) Così, conclude Mead, inglesi ed americani costruirono nel tempo il loro potere economico a livello internazionale, mentre le potenze continentali europee si dilaniavano «[…] come scorpioni dentro una bottiglia […]».(18) Lo Stato dirigista soffocava l’economia e lo sviluppo della società; al contrario, il free market della “sfera anglo-americana” rendeva dinamiche tutte le componenti sociali ed esaltava le tradizionali virtù borghesi di sobrietà, attaccamento al lavoro, profondo senso della famiglia, rispetto della comunità. La gelosa conservazione di queste virtù fu il cemento della democrazia inglese ed americana, una democrazia non egalitaria ma meritocratica. Negli Stati Uniti, in particolare, il federalismo rispecchiava, pur nell’unità fondamentale garantita dal potere centrale, la tradizione coloniale fondata sul forte decentramento dei poteri e sul localismo.

    Gertrude Himmelfarb, illustre storica americana dell’età vittoriana, ha definito tutto ciò “politica della libertà”, in contrapposizione al centralismo burocratico degli Stati continentali europei. L’espressione rende perfettamente l’idea che negli Stati Uniti, fin dagli inizi, non vi fu conflitto, se non in misura tutt’altro che dilaniante (come in Europa), tra il potere politico e le libertà individuali. Il potere politico centrale non poté, o meglio non volle, entrare in contrasto con le forme decentrate dell’autogoverno coloniale, semplicemente perché la nazione si era formata in nuce proprio sull’autonomia dei poteri locali e sulle libertà individuali. Così, la tradizione venne conservata grazie al genio dei Founding Fathers, benché non mancassero contrasti, anche gravi, che sfoceranno nella Guerra Civile del 1861. Tuttavia, per quanto la Guerra Civile abbia rappresentato un momento devastante nel corso della storia degli Stati Uniti, l’unità nazionale venne preservata, come anche il federalismo.

    La tradizione politica americana, fondata sulla “politica della libertà”, si confermò. (19)

    Ma, prima di entrare meglio nel merito del pensiero di Himmelfarb a questo proposito, occorre dire che la storica americana aveva già posto, in termini preoccupati, il problema della conservazione della tradizione politica americana nel secondo dopoguerra. In sintesi, secondo Himmelfarb, tale tradizione fu ed è tuttora profondamente alterata dalla controcultura degli anni Sessanta; argomento,
    questo, sostenuto con forza sia dai conservatori che dai paleo-libertari. In particolare, Rothbard sosteneva che su determinati temi fondamentali non vi fossero più sostanziali distinzioni tra i due filoni: «Io, come altri paleo-libertari, mi sono convinto che la Vecchia Cultura […] era in sintonia non solo con lo spirito americano, ma anche con la legge naturale. E che la cultura nichilista, edonista, ultrafemminista, egualitaria e “alternativa” che ci è stata imposta dai liberal di sinistra non solo non è in sintonia, ma viola profondamente la concezione della natura umana che si è sviluppata in America e in tutta la civiltà occidentale prima degli anni sessanta del XX secolo».(20) Sia la conservatrice Himmelfarb che il paleo-libertario Rothbard hanno, dunque, lo scopo comune di difendere i valori borghesi, l’eredità giudaico-cristiana e la tradizione morale che sono i fondamenti della civiltà occidentale e della nazione americana in particolare.

    Himmelfarb sviluppa questa tematica in un importante libro del 1999, in cui analizza – nel contesto di una ben più ampia trattazione dei conflitti culturali nella storia degli Stati Uniti – la “guerra culturale” che, dagli anni Sessanta in poi, ha visto la contrapposizione tra la tradizione culturale americana e gli epigoni del nichilismo della controcultura di quegli anni.(21) Quest’ultima ha condizionato i liberals americani al punto da indurli a rifiutare la propria tradizione per abbracciare i disvalori e la sottocultura della contestazione studentesca, «[…] dove trionfava l’esaltazione degli stili di vita alternativi, l’ateismo militante e l’anti-tradizionalismo dei left-libertarians».(22) Di conseguenza, anche le scuole statali si sono sottomesse, a livello di programmi, al triste andazzo imposto dai cascami ideologici della controcultura degli anni Sessanta, diffondendo «[…] la propaganda New Age, il paganesimo ecologista, il marxismo, il femminismo, il terzomondismo e qualche altra ideologia politically correct […]. In questo modo, osserva Rothbard, i sostenitori dei valori cristiani tradizionali saranno sempre costretti a lottare con una mano legata dietro la schiena».(23) Una “guerra culturale”, dunque, che appare attualmente persa, ma che allo stesso modo impone una lotta strenua per la difesa della tradizione occidentale, perché «[…] tutto quello che c’è di buono nella civiltà occidentale, dalla libertà individuale alle arti, è dovuto al Cristianesimo» (Rothbard) e dalla religione scaturiscono «[…] gli insegnamenti morali e le tradizioni che ci hanno dato non solo la nostra civiltà, ma anche le nostre stesse vite» (Friedrich von Hayek). Himmelfarb, dal canto suo, definisce questa controcultura come il «culto del narcisismo».

    Ma – per tornare alle origini del divario – fu l’età dell’Illuminismo a sancire la novità della cultura della “sfera anglo-americana” rispetto a quella europea. Himmelfarb, a questo proposito, parla di Illuminismi, non di un unico Illuminismo. Questa distinzione è cruciale. L’Illuminismo francese, quello inglese e quello americano rappresentano tre diverse “vie verso la modernità”. A differenza dell’Illuminismo francese, il modello inglese – riconducibile a pensatori come Francis Hutcheson, Lord Shaftesbury, Adam Smith e Thomas Reid – attingeva i suoi valori alle “virtù sociali” quali si erano consolidate nel corso della storia inglese, cioè alla tradizione civile di quel paese. In sostanza, l’Illuminismo inglese non fece tabula rasa della tradizione, ma fece del conservatorismo l’arma per inoltrarsi nella modernità. Ispirandosi al “senso comune” di tradizione britannica, l’Illuminismo inglese fu opera prevalentemente di filosofi morali, per i quali l’interesse individuale non veniva in contrasto con il benessere sociale. L’“età della benevolenza”, come Himmelfarb definisce il diciassettesimo secolo inglese, oltre che favorire profonde riforme sociali, decretò che religione e ragione erano alleate nel diffondere quelle “virtù sociali” indispensabili per il benessere individuale e della collettività, aprendo così la strada verso la modernità alla “sfera anglo-americana”. I filosofi inglesi, afferma Himmelfarb, non volevano rifare la società dalle fondamenta, ma migliorarla. Quest’affermazione è di importanza capitale e ci fa capire ciò che ha diviso gli esiti della rivoluzione americana da quella francese: la costruzione di una democrazia liberale, nel cui seno il momento religioso rappresenta un fattore di primaria importanza, da una parte, i germi di una concezione totalitaria, che avrà conseguenze nefaste nel XX secolo per la “sfera continentale”, dall’altra.(24) Ciò che fu anticipato, già nel 1790, da Edmund Burke, nume tutelare del conservatorismo nei secoli successivi, nel suo celebre Reflections on the Revolution in France.

    L’Illuminismo americano fu debitore rispetto a quello inglese. Con una differenza, che tuttavia discende direttamente dai presupposti inglesi. Nel pensiero dei Founding Fathers le “virtù sociali” si tradussero, per particolari circostanze storiche, in una formidabile congiuntura di teoria e pratica, che portò a porre la libertà e l’auto-governo al centro del loro progetto. Franklin, Adams, Jefferson, Hamilton, Madison fecero convergere le loro energie intellettuali verso il fine di dar vita ad un governo costituzionale per una grande repubblica commerciale, governo incardinato sulla sovranità del popolo e sulla difesa delle libertà individuali. La religione, in questo quadro, aveva un ruolo centrale: quello di garantire e sviluppare la virtù pubblica indispensabile per la conservazione di un buon governo. La Dichiarazione d’Indipendenza, la Costituzione, i Federalist Papers, il Bill of Rights furono i capisaldi teorici di questo grandioso progetto di costruzione ed insieme di conservazione sulla strada verso la modernità.(25)


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    Predefinito Rif: Il conservatorismo americano

    IL CONSERVATORISMO AMERICANO di Antonio Donno - Parte terza



    I conservatori americani si coalizzano contro il New Deal

    È necessario compiere un salto cronologico per comprendere quando il modello liberale classico e la Vecchia Cultura (come la definiva Rothbard) andarono in crisi. Ciò avvenne con il New Deal di Franklin D. Roosevelt, che si pose come alternativa rispetto al passato. Quest’alternativa fu vissuta dai conservatori, dai liberali classici e dai paleo-libertari come un vero e proprio tradimento dell’ethos nazionale americano. Lo statalismo intrinseco al modello newdealista faceva orrore a tutti coloro che consideravano l’individualismo liberale come il fondamento della “filosofia pubblica” americana (Walter Lippmann), quella che aveva dato vita e forza alla nazione. Nel 1930, John Dewey aveva contribuito a dare sostanza filosofica a quello che sarebbe stato il nuovo corso rooseveltiano, elaborando il concetto di un nuovo individualismo contrapposto al vecchio. Un’operazione che consentì ai sostenitori del New Deal di auto-appellarsi liberal, facendo così infuriare i veri liberali che si sentirono defraudati e raggirati. In sintesi, Dewey sosteneva che il laissez-faire capitalism avesse fatto il suo tempo, che la crisi del ’29 dovesse insegnare una nuova strada, che l’individualismo egoistico, tutto impegnato all’accumulo della ricchezza personale, spesso a scapito del “benessere generale”, fosse ormai destinato ad essere soppiantato da un nuovo individualismo più solidale e che fosse necessaria una più equa distribuzione della ricchezza. Sarebbe stato questo il compito dello Stato.(26)

    Il movimento conservatore inorridì di fronte ad un fenomeno quasi del tutto nuovo nella storia degli Stati Uniti: lo statalismo. Era la “strada verso la schiavitù”, come argomentò Hayek in un famoso libro del 1944.(27) Nello stesso anno comparivano due fondamentali studi di Ludwig von Mises: Bureaucrcy e Omnipotent Government.(28) In questi tre volumi gli autori posero il problema dei problemi: la minaccia per la libertà costituita dal Dio-Stato, il Dio dei totalitarismi europei. Così, lo statalismo del New Deal fu vissuto dai conservatori americani come l’anticamera del totalitarismo; e gli anni Trenta furono definiti da Eugene Lyons il “decennio rosso”.(29) Conservatori tradizionalisti, liberali classici, paleo-libertari fecero fronte comune contro il Moloch statalista in nome della conservazione della tradizione. La Old Right, capeggiata nel Congresso dal senatore dell’Ohio, Robert A. Taft, si oppose furiosamente alla legislazione newdealista, mentre una nutrita schiera di intellettuali si adoperò a rilanciare i valori originari della tradizione americana. Gli anni Cinquanta furono anni di fermento teorico di marca conservatrice, nella speranza che il repubblicano Eisenhower invertisse la rotta della politica americana: speranza in buona parte delusa. Russell Kirk e Clinton Rossiter furono personaggi di spicco in questa battaglia.(30) Il termine “conservatore”, nonostante le rimostranze di Hayek, finì per connotare tutti i filoni culturali anti-New Deal, i quali – per quanto assai distanti su molti temi – di fatto si coalizzarono per difendere l’originaria tradizione americana.

    Capifila di questo progetto furono Frank Meyer e Richard Weaver, che lavorarono senza posa per chiarire agli esponenti delle varie correnti che occorreva metter da parte le divergenze per condurre una comune battaglia contro i “liberals collettivisti”, eredi dello statalismo newdealista. Era un progetto “fusionista” che abbisognava non solo di teoria, ma di impegno politico.

    Per questo motivo, nel 1964, anno di elezioni presidenziali, Meyer pubblicò un libro, What Is Conservatism?, in cui raccoglieva gli interventi di tutti i maggiori esponenti del pensiero conservatore americano, con lo scopo di ricercare una sintesi teoricamente e politicamente efficace per contrastare il passo al fronte statalista.(31) In precedenza, Meyer aveva puntualizzato i due dati essenziali su cui incentrare la battaglia comune: «[…] Si è verificato un generale accordo nella sfera politica pratica sulla necessità di contrastare, da una parte, il collettivismo e lo statalismo che ci viene dal liberalism interno [di marca newdealista, n.d.a.] e contemporaneamente, dall’altra, di respingere e sconfiggere l’attacco comunista alla civiltà occidentale […]».(32) Quest’ultimo, in verità, era il vero punto dolente della coalizione conservatrice. La Guerra Fredda e l’impegno americano, politico e militare, contro il comunismo sovietico divideva il fronte degli antistatalisti. La Old Right – sia quella presente nel Congresso (Taft) sia quella intellettuale (Rothbard, Frank Chodorov, John T. Flynn ed altri) – aveva ferme posizioni isolazioniste, anti-militariste, anti-imperialiste. Riteneva che l’impegno diretto americano nella Guerra Fredda avrebbe talmente ingigantito l’apparato militare da rendere il Moloch statalista praticamente invincibile. In sostanza, si può dire che la Old Right temesse più lo statalismo interno, anticamera del totalitarismo, dello stesso comunismo sovietico. Lo statalismo era un’ideologia un-American, da combattere con tutti i mezzi e su tutti i fronti. Così si espresse Howard H. Buffett, rappresentante repubblicano del Nebraska nel Congresso ed esponente della Old Right: «“I nostri ideali cristiani non possono essere esportati in altri paesi per mezzo dei dollari e dei cannoni. La persuasione e l’esempio sono i metodi insegnati dal Falegname di Nazareth […] Non possiamo usare la forza all’estero e mantenere la libertà all’interno. Non possiamo parlare di cooperazione internazionale e praticare una politica di potenza».(33)

    Così, la Old Right si divise. I pochi isolazionisti restarono in disparte, mentre la gran parte del fronte conservatore si coinvolse profondamente nella logica della Guerra Fredda, pur continuando la propria lotta contro lo statalismo di ascendenza newdealista, lotta che era considerata congruente con il contrasto internazionale all’Unione Sovietica. Erano le due facce della stessa medaglia, era la lotta del mondo libero contro il comunismo; ed anzi, la critica alla presunta arrendevolezza di Truman di fronte all’aggressività di Mosca era il perno della feroce critica contro il Partito Democratico al potere e contro la “svendita” dell’Europa Orientale operata da Roosevelt a Yalta. La Conferenza di Yalta, scrisse George N. Crocker, fu l’ultimo «[…] prodotto di uno sfacelo morale che ha portato al mondo un incalcolabile danno […]».(34) L’acceso anti-comunismo di Meyer – rigettato dai paleo-libertari con in testa Rothbard – ammetteva anche il più estremo interventismo da parte di Washington, sino al bombardamento atomico dell’Unione Sovietica.


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    Predefinito Rif: Il conservatorismo americano

    IL CONSERVATORISMO AMERICANO di Antonio Donno - Parte quarta



    Conservatori e liberali: convergenze e divergenze

    Ciò che separava i conservatori tradizionalisti dai liberali classici e, a maggior ragione, dai paleo- libertari era l’importanza della trascendenza nella vita dell’individuo e della società. Da questo punto di vista, Russell Kirk polemizzò con liberali come Mises e Hayek, anche se il dato che li accomunerà sarà la battaglia contro il collettivismo e le sue nefande conseguenze. In fin dei conti, di fronte al declino della tradizione americana a causa della devastazione prodotta dallo statalismo, era obbligatorio che i difensori della tradizione facessero blocco, superando le proprie divisioni. Meyer individuava perfettamente l’obiettivo della lotta comune: «Aver insegnato per due generazioni il relativismo che nega l’esistenza di valori che trascendono la vita temporale di un uomo sembra aver sortito il suo effetto», anche, se non soprattutto, nella lotta contro il comunismo, che Meyer giudicava debole in maniera sconcertante.(35) Ma, nonostante l’impegno di Meyer, vi erano concezioni di fondo in qualche modo inconciliabili. Il pensiero di Russell Kirk illustra bene le posizioni dei conservatori tradizionalisti. La società, spiegava Kirk, è un’entità di tipo spirituale e, perciò, figlia di un intento divino: i suoi problemi attengono alla sfera religiosa e morale. Essa risulta stabile nel tempo solo se resta legata ai valori della tradizione, se richiede ordini e classi e se si fonda sull’inseparabilità di proprietà e libertà. L’influenza benefica della tradizione favorisce un lento ma fecondo progresso che permette di respingere le false credenze presenti nella società liberale, riassumibili nella concezione che all’uomo d’oggi sia permesso di aspirare ad essere una sorta di Dio in terra. Molti anni più tardi, in The Politics of Prudence, Kirk sosterrà, ispirandosi al pensiero di Eric Voegelin, che il problema fondamentale consisteva nel riconoscimento dell’esistenza «[...] di un ordine morale permanente nell’universo, di una natura umana costante e di alti doveri sia verso l’ordine spirituale che verso quello temporale».(36) La preservazione di questo ordine morale era demandato al ruolo fondamentale della religione.

    I principi del conservatorismo kirkiano, quali sono stati succintamente illustrati più sopra, divergevano dal pensiero di un Hayek o di un Mises, incentrato sulla preminenza dell’aspetto economico (in verità, ben più in Mises che in Hayek), anche se restavano condivisi alcuni valori fondamentali di decisiva importanza. Infatti, si dagli uni che dagli altri si avvertiva la necessità di riprendere il cammino interrotto della tradizione americana, che per Kirk e gli altri tradizionalisti si identificava con i valori della comunità e dell’individuo sotto l’egida della legge morale, mentre per i liberali classici con lo sviluppo di un capitalismo fondato sulle forze spontanee presenti nella società. Tuttavia, Kirk non si nascondeva la necessità di creare, nonostante le divergenze, un fronte comune contro la deriva statalistica indotta dal New Deal: «Negli anni ’40 […] un gruppo di economisti liberal-conservatori si impegnò in un contrattacco ai teorici della pianificazione economica che, in qualità di consiglieri del Presidente Roosevelt e del suo gabinetto, avevano ottenuto il controllo delle politiche del governo federale. Alcuni eminenti rappresentanti di questa scuola conservatrice sono americani naturalizzati o del tutto non americani: William A. Orton, Frederich Hayek e Wilhelm Röpke».(37) Il termine “liberal-conservatori”, proposto da Kirk, è interessante, almeno sul piano teorico. Kirk, rendendosi conto che le convergenze potessero essere indispensabili per la comune battaglia contro lo statalismo e lo scientismo del suo tempo, scorgeva nell’individualismo quel nesso tra il conservatorismo della tradizione americana e il “liberalismo integrale”, di cui parlava John H. Hallowell, che era stato negato dall’esperienza centralizzatrice del New Deal. Affermava Hallowell: «Partendo dalla premessa del valore assoluto e della dignità della personalità umana, i liberali necessariamente richiedono libertà per ogni individuo da ogni altro individuo, dallo Stato, da ogni volontà arbitraria».(38) Il liberalismo integrale, per Hallowell, è questo: un liberalismo che nel corso del tempo ha coniugato l’individualismo con la libertà economica.

    Meglio ancora: «Il liberalismo integrale sostiene che certi diritti appartengono agli individui in virtù della loro umanità. Tali diritti sono antecedenti lo Stato».(39) Ma, al pari di Kirk, per Hallowell v’è un limite alla concezione liberale: le verità eterne che trascendono l’individuo stesso: una concezione che discendeva dalla tradizione giudaico-cristiana dell’Occidente. Se la libertà dell’individuo è un diritto naturale per eccellenza, «[…] vi sono determinate sfere della vita individuale, particolarmente quella religiosa ed etica, che sono soggette a limitazione da parte di Dio soltanto e mai dallo Stato».(40) Qui era, in sostanza, il divario tra i conservatori tradizionalisti americani ed i liberali classici. Se, per Hallowell, «[…] la relazione tra liberalismo e capitalismo [era] intrinseca»(41) (come affermavano Mises e Hayek), pur tuttavia esistevano valori trascendenti che, lungi dal mortificare il significato dell’individualismo, lo esaltavano nel proprio contesto culturale: «Innanzitutto, i primi liberali vivevano in una temperie culturale che era essenzialmente cristiana. L’idea della suprema dignità dell’individuo, di tutti gli individui in ogni parte, fu alimentata dalla Cristianità tramite il concetto di salvazione delle anime individuali. Ogni uomo era eguale di fronte a Dio».(42)

    Da questo punto di vista, il pensiero di Hallowell e di Kirk si poneva sulla stessa linea interpretativa di Hayek e Mises a proposito del valore delle forze individuali nella sfera economica e il ruolo meramente “negativo” dello Stato, ma differiva sostanzialmente sul piano etico. Secondo l’analisi di Hallowell, l’impatto del liberalismo con le idee positivistiche nella seconda metà dell’Ottocento aveva avuto un effetto devastante. Lo scientismo positivistico aveva permeato la cultura occidentale, facendole perdere ogni attenzione ai problemi metafisici e privandola, conseguentemente, di quel sostrato di valori cristiani che l’avevano caratterizzata nel corso dei secoli. Hallowell era categorico a questo proposito: «La questione di come gli uomini conoscono le cose divenne prioritaria rispetto alla questione di che cosa essi conoscono. […] Si ritenne che i giudizi di giusto ed errato, buono e cattivo, giustizia ed ingiustizia si basassero sull’utilità o la convenienza. Si ritenne che i giudizi di valore fossero espressione di preferenze soggettive piuttosto che di verità oggettive».43 L’inizio del declino del liberalismo integrale si era verificato quando esso aveva perso la nozione del valore assoluto della personalità umana, sotto l’incalzare del positivismo e delle teorie scientiste che negavano la trascendenza. Si era aperta, così, la strada all’irrompere nella cultura occidentale del XX secolo di ideologie che puntavano alla distruzione della tradizione giudaico-cristiana, ideologie che, secondo Hallowell, non erano proprie soltanto della Germania nazista o della Russia comunista, ma che minacciavano tutta la civiltà occidentale.

    L’analisi di Hallowell era condivisa non solo dagli intellettuali conservatori a lui più vicini, ma anche dagli economisti liberali che si raccoglievano intorno a Hayek e Mises. Per tutti il declino del liberalismo classico era coinciso con il diffondersi nella cultura occidentale di teorie che ponevano l’accento più sulla possibilità e lo studio del controllo sociale che sulla libera espressione delle forze spontanee presenti nel tessuto sociale. Il liberalismo originario aveva ceduto il passo ad un falso liberalismo che aveva posto progressivamente l’individuo sotto il controllo dello Stato. Lo sviluppo abnorme delle scienze sociali aveva creato il mito di un progresso inarrestabile e lineare della società sotto l’egida dello Stato. Il New Deal era il prodotto americano del declino del liberalismo integrale dell’Occidente che aveva lasciato il posto a concezioni statalistiche e di fatto illiberali; il New Deal era la negazione della tradizione liberale americana.

    Restavano, tuttavia, profonde differenze tra le due scuole di pensiero. Kirk sottolineava come Hayek e Mises mirassero lodevolmente «[…] a liberalizzare ed umanizzare la Dismal Science».(44) Il merito di Hayek, Mises, Orton, Röpke fu quello, secondo Kirk, di analizzare e denunciare lo straripamento dello Stato nel campo dell’economia; per questo motivo, essi erano da considerarsi «allo stesso tempo liberali e conservatori».45 Egli paragonava, per importanza ed influenza (anche se, ovviamente, di segno opposto), Human Action di Mises al Capitale di Marx ed alla Teoria generale di Keynes. Kirk fu particolarmente colpito dall’acutezza dell’analisi di Mises sui mali dell’“ingegneria sociale” e della pianificazione, dalla sua riabilitazione dei concetti fondanti il capitalismo, dalla sua denuncia dell’inconsistenza dell’economia socialista e soprattutto dell’economia mista. Una grande impresa teorica a favore del sistema della libera impresa che Kirk giudicava «[…] la realizzazione economica più produttiva e più liberale che si possa concepire».(46)

    Ma il problema cruciale era proprio il primato dell’economia. Kirk rimproverava a Mises una inguaribile avversione verso tutto ciò che non fosse logica economica ed il suo rifiuto assoluto di credere che «[…] la società è il prodotto di una volontà divina piuttosto che di una semplice convenienza reciproca; […] egli ignora gli argomenti ben più antichi e forti avanzati dai pensatori cristiani. Più avanti egli tenta di demolire il “tradizionalismo”, che egli considera il nemico della prasseologia scientifica».(47) Secondo Kirk, il più grave errore dell’analisi di Mises consisteva nel trascurare l’importanza di quelli che lo stesso Mises considerava semplici e ingombranti “miti”: l’intento sociale divino, la tradizione e la legge naturale. Kirk rimetteva al centro della sua esposizione i concetti-cardine del suo pensiero: «Il capitalismo è stato messo in pericolo in proporzione alla decadenza di quei principi tra gli uomini. […] La loro [di Mises, Hayek e degli altri, n.d.a] è una dottrina che distrugge se stessa nella stessa misura in cui viene elaborata; una volta che le nozioni tradizionali e soprannaturali si dissolvono, l’auto-interesse economico si dimostra ridicolmente inadeguato a tenere insieme un sistema economico, ed ancora meno adeguato a preservare l’ordine. La tradizione è la difesa della giustizia e della pace. Dissipala e si scateneranno quelle forze della delusione e del fermento sociale che oggi sono incarnate dal marxismo; gli uomini rifiutano di vivere soltanto secondo la ragione economica».(48)

    Hayek condivideva con Kirk e gli altri conservatori tradizionalisti la denuncia dell’“abuso della ragione” che aveva caratterizzato la storia dell’Occidente dalla seconda metà dell’Ottocento sino a suoi tempi e che aveva dato vita al fenomeno dello “Stato onnipotente”, sia nella forma estrema del totalitarismo nazista e comunista che nelle forme più “blande” dell’intromissione dello Stato nel campo della spontaneità economica. Egli sottolineava come l’incapacità di comprendere il significato dell’azione indipendente e spontanea degli individui nella società avesse fatto degenerare il liberalismo: «Da qui deriva quell’interpretazione “pragmatica” secondo la quale tutte le strutture sociali operanti in funzione di finalità umane sono il risultato di progetti intenzionalmente elaborati, e non è possibile che sia dotato di un assetto ordinato e finalizzato tutto ciò che non risulta costruito in conformità con quei progetti».49 Negli Stati Uniti un vero liberale è in qualche modo un conservatore, poiché si impegna a conservare il significato originario delle istituzioni americane. Ma il liberalismo americano è il contrario del conservatorismo di matrice europea e di tutte quelle tendenze conservatrici che, in vario modo, anche negli Stati Uniti, pongono dei limiti all’espressione del liberalismo. Tali limiti sono di duplice natura: la passione per l’autorità e l’incomprensione per le forze economiche. Su questo terreno i liberali classici non potevano che essere in posizione antagonistica rispetto ai conservatori tradizionalisti come Kirk, Hallowell ed altri. In sostanza, quindi, si può dire che Hayek ritenesse che il conservatorismo di Kirk si ispirasse più alla tradizione conservatrice europea che non alla tradizione liberale americana. In questo quadro, si inseriva il problema della religione. Liberalismo, per Hayek, non è assenza di fede religiosa. Il vero liberale condanna l’anticlericalismo, ma «[…] per lui, lo spirituale e il temporale sono sfere diverse da non confondere».(50)

    Mises fu più drastico sull’argomento. Egli in Human Action aveva affrontato il tema generale dell’agire dell’uomo nella sfera economica, offrendo un’analisi lucidissima del ruolo del capitalismo nel mondo moderno e dei benefici che esso aveva apportato a tutti gli strati sociali. La sfera religiosa era totalmente estranea al pensiero di Mises. In alcuni passaggi marginali di Socialism, apparso negli Stati Uniti con grande successo nel 1951 come traduzione dell’omonima opera pubblicata in Germania nel 1922, il giudizio di Mises sulla Chiesa e sulla religione è severissimo. Il Cristianesimo è una filosofia nemica della modernità e sostanzialmente incline all’odio di classe; alimenta l’ostilità verso la ricchezza e la proprietà privata; è stato ed è un fattore di contrapposizione radicale alle idee liberali e, nel far questo, ha avuto un ruolo non marginale nella nascita dei fenomeni politici distruttivi del Novecento.(51) Come si vede, Mises metteva in discussione uno degli assunti del pensiero di Hallowell, ma anche di Kirk: che la Cristianità avesse rappresentato il terreno di coltura del liberalismo in Occidente. Viceversa, il cristiano ha spesso condiviso il pregiudizio anti-capitalistico di molti, che si è articolato secondo il seguente modo di ragionare: «Un tempo gli uomini erano felici e prosperi; erano i bei giorni che hanno preceduto la “rivoluzione industriale”. Ora, sotto il capitalismo, l’immensa maggioranza è rappresentata da poveri affamati, spietatamente sfruttati da rozzi individualisti, da farabutti per i quali nulla conta al di fuori dei propri interessi economici. […] Il pregiudizio e la bigotteria della pubblica opinione si manifestano più chiaramente nel fatto che il termine “capitalismo” viene usato come attributo rivolto esclusivamente alle cose abominevoli, mai a quelle che tutti approvano».(52)

    La “crisi del nostro tempo” era il dato comune delle analisi dei conservatori tradizionalisti e dei liberali classici (o libertarians, come lo stesso Hayek aveva accettato di essere definito). Ma i contenuti delle analisi delle due scuole di pensiero spesso divergevano significativamente.

    Affermava Hallowell: «La malattia del mondo moderno è la malattia propria della confusione morale, dell’anarchia intellettuale e della disperazione spirituale. […] Essendosi allontanato da Dio, avendo screditato la ragione della quale era stato dotato da Dio, non potendo o non volendo riconoscere il male di cui è infetta l’umanità, l’uomo moderno oscilla tra uno stravagante ottimismo e una disperazione senza speranza».(53) Un tipo di analisi che mai un Mises o un Hayek avrebbero potuto sottoscrivere. Hayek attribuiva la crisi del suo tempo alla mancanza di libertà od al pericolo di progressiva restrizione della libertà individuale. Faceva discendere tale conclusione dall’analisi del cammino compiuto dall’Occidente in secoli di liberalismo e di capitalismo e dalla constatazione della presenza odierna, all’interno della società occidentale, di potenti forze che, in nome del Dio- Stato, miravano a regolare dall’alto il progresso individuale e la spontaneità sociale. Hayek era chiaro a questo proposito: «Se oggi alcune nazioni potranno, in qualche decina d’anni, raggiungere un certo livello di comodità materiale, la cui realizzazione è costata all’Occidente centinaia o migliaia di anni, non è forse ovvio che il loro cammino è stato facilitato dal fatto che l’Occidente non è stato costretto a condividere le sue realizzazioni materiali con gli altri, non è stato frenato ma è stato lasciato libero di progredire molto prima degli altri?».(54) Hallowell e Kirk imperniavano il loro discorso sulla crisi spirituale del loro tempo, dovuto al distacco dell’uomo dalla trascendenza, alla caduta morale dell’uomo moderno e alla rinuncia ai valori assoluti che regolano la vita dell’uomo. Benché le due scuole di pensiero fossero concordi nel negare che «[…] il progresso è automatico, irreversibile ed inevitabile […]»,(55) tuttavia era profondamente diverso l’atteggiamento dell’una e dell’altra verso l’idea stessa di progresso: per i conservatori, essendo il progresso legato al miglioramento delle condizioni materiali degli uomini, la rinuncia alla sfera religiosa e spirituale propria dell’età moderna costituiva di per sé un pericolo di imbarbarimento dell’uomo, votato solo alla ricerca del benessere materiale. Di qui una visione pessimistica della società moderna nell’era dell’industrialismo (e del capitalismo). Si può dire che, da un certo punto di vista, i conservatori americani di quegli anni oscillassero tra accettazione con riserva e rifiuto del liberalismo, una posizione ben esemplificata dalle parole di Hallowell, per il quale «[…] i liberali negavano la realtà del male e ne attribuivano la sua comparsa nel mondo ad istituzioni politiche imperfette ed alla mancanza di “lumi”». In realtà, secondo Hallowell, «la crisi del nostro tempo scaturisce dalla incapacità o non-volontà di riconoscere il male nel mondo per ciò che è, il peccato dell’uomo»(56): la sua ossessiva ricerca di essere un Dio in terra lo aveva portato progressivamente a disumanizzarsi, a trasformarsi in un consumatore. Era il portato del capitalismo. Sia i liberali che i marxisti, affermava Hallowell, «[…] ritengono erroneamente che il significato della vita umana possa realizzarsi completamente all’interno del processo storico. Essi non riconoscono che è la libertà dell’uomo, che trascende il processo storico, a distinguere l’uomo stesso come creatura spirituale dalla bestia».(57) Il rimedio alla “crisi del nostro tempo”, per Hallowell, era il ritorno dell’Occidente alle sue radici giudaico-cristiane.

    Nulla di più distante dalle posizioni di un Hayek o di un Mises. L’accettazione dell’idea liberale da parte dei conservatori tradizionalisti – un liberalismo, come si è visto, comunque agli antipodi rispetto al falso liberalismo del New Deal – era in qualche modo condizionata alla preservazione dei valori spirituali tipici di una società cristiana pre-industriale: una conciliazione evidentemente impossibile che portava di conseguenza Hallowell o Kirk a denunciare la crisi dei valori del loro tempo indotta dalla ricerca ossessiva della felicità materiale. Hayek e Mises, al contrario, pensavano alla realizzazione piena dell’idea liberale come liberazione dell’uomo dalla povertà. Condannando la mentalità anti-capitalistica imperante in quel tempo, essi ritenevano che il capitalismo rappresentasse il massimo traguardo raggiunto dalla civiltà occidentale e il punto di riferimento per tutti i popoli che vivevano nella povertà. The Constitution of Liberty di Hayek e Human Action di Mises sono le due opere che più pienamente spiegano la necessità del liberalismo e del capitalismo nella storia dell’umanità.

    Le convergenze e le divergenze tra conservatori tradizionalisti e liberali (e libertarians) tennero banco per tutti gli anni Cinquanta. Il dibattito fu accesso ma non privo, come si è visto, di riconoscimenti reciproci. L’elezione del liberal John F. Kennedy nelle presidenziali del 1960 e la sconfitta di Nixon segnarono un punto di svolta nella storia del conservatorismo americano. Il fronte conservatore si rese conto che occorreva uscire dalle mere diatribe culturali e scendere in lizza nelle elezioni presidenziali del 1964. Le varie correnti del mondo liberal-conservatore (per usare la felice espressione di Kirk) si coalizzarono, tranne un piccolo gruppo di libertarians capeggiati da Rothbard. Il “fusionismo”, per il quale si era speso con tutte le sue energie Frank Meyer, si era realizzato. La scelta cadde sul senatore dell’Arizona, Barry M. Goldwater, che, per quanto nettamente sconfitto nel 1964, lasciò un’eredità di importanza capitale per la storia successiva del conservatorismo americano.


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    Predefinito Rif: Il conservatorismo americano

    IL CONSERVATORISMO AMERICANO di Antonio Donno - Parte quinta



    Note

    1 Cfr. Brian R. Farmer, American Conservatism: History, Theory and Practice, Newcastle, UK, Cambridge Scholars Press, 2005.
    2 Cfr., al proposito, Murray N. Rothbard, Conceived in Liberty, 4 vols., New Rochelle, N.Y., Arlington House, 1975. In questi quattro fondamentali, ma purtroppo alquanto negletti volumi, il grande libertario americano analizza, sulla scorta di una quantità enorme di documenti, la storia bisecolare delle conquiste di libertà – istituzionali e non – dei coloni bianchi, conquiste che configurarono un sostanziale autogoverno degli stessi.
    3 Gordon S. Wood, La costruzione della repubblica, 1760-1820, in Bernard Bailyn e Gordon S. Wood, Le origini degli Stati Uniti, Bologna, Il Mulino, 1987, p. 233.
    4 Cfr. Bernard Bailyn, The Ideological Origins of the American Revolution, Cambridge, MA, Belknap Press of Harvard University Press, 1967.
    5 Bernard Bailyn, Storia dell’Atlantico, Torino, Bollati Boringhieri, 2007, pp. 92-93. Tra l’altro, la puntuale osservazione di Bailyn smentisce l’affermazione di Hannah Arendt sul carattere locale della rivoluzione americana. Già Robert Nisbet s’era incaricato di contestare, con dati alla mano, la tesi della Arendt esposta in Sulla Rivoluzione. La Arendt sosteneva: «“La triste verità sull’argomento è che la rivoluzione francese, che finì in un disastro, ha fatto la storia del mondo, mentre la rivoluzione americana, così trionfalmente riuscita, è rimasto un evento di importanza poco più che locale”». Cit. in Robert Nisbet, Hannah Arendt e la Rivoluzione americana, in «Ideazione», 2, marzo-aprile 2002, p. 174.
    6 Cfr. Bailyn, The Ideological Origins, cit.
    7 Michael Novak, On Two Wings: Humble Faith and Common Sense at the American Founding, San Francisco, CA, Encounter Books, 2002, p. 5.
    8 Cfr. Jill Hamilton, Il Dio in armi. La Gran Bretagna e la nascita dello Stato di Israele, Milano, Corbaccio, 2006. Per la sponda americana, cfr. Giuliana Iurlano, Sion in America. Idee, progetti, movimenti per uno Stato ebraico (1654-1917), Firenze, Le Lettere, 2004.
    9 David Gelernter, L’Americanismo è roba forte. Ma cos’è esattamente?, in «l’Occidentale», 11 novembre 2007, L'Americanismo è roba forte. Ma cos'è esattamente? | l'Occidentale. Il libro cui si fa riferimento è quello di David Gelernter, Americanism: The Fourth Great Western Religion, New York, Doubleday Books, 2007.
    10 Cfr. Peter Grose, Israel in the Mind of America, New York, Knopf, 1983.
    11 Su queste problematiche cfr. Sébastien Fath, In God We Trust. Evangelici e fondamentalisti cristiani negli Stati Uniti, Torino, Lindau, 2005.
    12 Guglielmo Piombini, Murray N. Rothbard e il movimento paleolibertario, in «Ethics & Politics», V, 2, 2003, p. 20, TRA CONSERVATORSIMO E LIBERTARISMO: LA SFIDA PALEO.
    13 Ibid., pp. 14-15.
    14 Ibid., p. 15.
    15 Cfr. Albert J. Nock, Our Enemy, the State, New York, W. Morrow & Co., 1935 (trad. it., Il nostro nemico, lo Stato, a cura e con un saggio introduttivo di L.M. Bassani, Macerata, Liberilibri, 1995).
    16 Cfr. Robert Conquest, I dragoni della speranza. Realtà e illusioni nel corso della storia, Roma, Fondazione Liberal, 2008.
    17 William R. Mead, Il serpente e la colomba. Storia della politica estera degli Stati Uniti d’America, Milano, Garzanti, p. 55.
    18 Ibid., p. 56.
    19 Cfr. Gertrude Himmelfarb, The Road to Modernity: The British, French, and American Enlightenments, New York, Knopf, 2004.
    20 Murray N. Rothbard, Kulturkampf!, in «Rothbard-Rockwell Report», October 1992, ora in Llewellyn H. Rockwell, Jr., ed., The Irrepressible Rothtbard, Burlingame, CA, The Center for Libertarian Studies, 2000, p. 289.
    21 Cfr. Gertrude Himmelfarb, One Nation, Two Cultures, New York, Knopf, 1999.
    22 Piombini, Murray N. Rothbard, cit., p. 7.
    23 Ibid., p. 9.
    24 Cfr. Arendt, Sulla rivoluzione, cit.
    25 Cfr. Himmelfarb, The Roads to Modernity, cit.
    26 Cfr. John Dewey, Individualism, Old and New, New York, Minton, Balch & Co., 1930.
    27 Cfr. Friedrich von Hayek, The Road to Serfdom, Chicago, The University of Chicago Press, 1944.
    28 Cfr. Ludwig von Mises, Bureaucracy, New Haven, Yale University Press, 1944; Id., Omnipotent Government: The Rise of Total State and Total War, New Haven, Yale University Press, 1944.
    29 Cfr. Eugene Lyons, The Red Decade, New Rochelle, N.Y., Arlington House, 1941.
    30 Cfr. Russell Kirk, The Conservative Mind from Burke to Santayana, Chicago, Henry Regnery Co., 1953; Clinton Rossiter, Conservatism in America, New York, Alfred A. Knopf, 1955.
    31 Cfr. Frank S. Meyer, ed., What Is Conservatism?, New York, Rinehart & Winston, for the Intercollegiate Studies Institute, 1964.
    32 Cfr. George W. Carey, ed., Freedom and Virtue: The Conservative/Libertarian Debate, Wilmington, DE, Intercollegiate Studies Institute, 1998, p. 13. L’articolo era stato originariamente pubblicato in «The National Review», January 16, 1962.
    33 Cit. in Murray N. Rothbard, The Foreign Policy of the Old Right, in «Journal of Libertarian Studies», II, 1, 1978, p.91.
    34 George N. Crocker, Lo stalinista Roosevelt, Milano, Edizioni del Borghese, 1963 (I ed. americana, 1959).
    35 Frank S. Meyer, The Conservative Mainstream, New Rochelle, N.Y., Arlington House, 1969, p. 347. Si tratta di una raccolta di articoli; l’articolo qui citato fu pubblicato originariamente in «The National Review», October 10, 1959.
    36 Russell Kirk, The Politics of Prudence, Bryn Mawr, PA, ISI Books, 1993, p. 29. In una successiva opera Kirk parlerà del pensiero di tre grandi del passato – Edmund Burke, Samuel Johnson e Adam Smith – come punto di riferimento per preservare una società equilibrata. Cfr. Russell Kirk, Redeeming the Time, Wilmington, DE, ISI Books, 1998, pp. 254-270.
    37 Kirk, The Conservative Mind, cit., p. 421.
    38 John H. Hallowell, The Decline of Liberalism as an Ideology, Berkeley and Los Angeles, University of California
    Press, 1943, p. 23.
    39 Ibid., p. 18.
    40 Ibid., p. 9.
    41 Ibid., p. 12.
    42 Ibid., p. 21.
    43 Ibid., p. 53.
    44 Russell Kirk, A Program for Conservatives, Chicago, Henry Regnery Co., 1954, p. 144. Dismal Science (scienza tetra) era un’espressione ironica, usata da Kirk per indicare la scienza economica.
    45 Ibid.
    46 Ibid., p. 145.
    47 Ibid., pp. 145-146.
    48 Ibid., p. 147.
    49 Friedrich A. von Hayek, The Counter-Revolution of Science: Studies on the Abuse of Reason, Indianapolis, IN, Liberty Fund, 1979, pp. 141-142 (I ed. americana, 1952).
    50 Ibid., p. 407.
    51 Cfr. Ludwig von Mises, Socialism: An Economic and Sociological Analysis, Indianapolis, IN, Liberty Fund, 1981 (1951), ch. 29.
    52 Ludwig von Mises, The Anti-Capitalistic Mentality, Princeton, N.J., Van Nostrand Co., 1956, pp. V-VI.
    53 John H. Hallowell, Main Currents in Modern Political Thought, New York, Henry Holt & Co., 1950, p. 618.
    54 Friedrich A. von Hayek, The Constitution of Liberty, London, Routledge & Kegan Paul, 1960, p. 47.
    55 Hallowell, Main Currents, cit., p. 621.
    56 Ibid., p. 622.
    57 Ibid., p. 670.


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