Maurizio Blondet
21/07/2006
«Ancora un po’ di tempo, e il Libano non si cambierà in giardino?»: così assicura Isaia (29,17) dalla notte dei tempi.
Mai come ora il Libano è l’opposto di un giardino, maceria bombardata, fuggiaschi fra i crateri
di bombe.
Il Libano è, nelle Scritture, l’escatologico «Oriente», il luogo da cui viene la Sposa del Cantico; Ezechiele parla di un ramo di cedro - cedro del Libano - che Dio pianterà sulla montagna d’Israele… il Libano ha un posto nella storia della salvezza, ed ora è stuprato: da belve che sembra vogliano cancellarne ogni prospettiva futura di rivederlo «un giardino».
Quando avverrà, non si può dire.
Molti lettori, colpiti dallo stupro del Libano in cui hanno intravisto un segno apocalittico, si sono dati alla lettura della Rivelazione di Giovanni e mi chiedono chiarimenti.
Non sono la persona adatta.
Posso solo avvertire di stare in guardia, per non finire come quei milioni di cosiddetti «cristiani rinati» americani che appoggiano Israele per «accelerare i tempi», e vedono nello stupro giudaico un segno dei tempi, e nello stupratore l’alleato nella lotta finale, il Bene contro il Male.
La lettura delle Scritture profetiche come «previsioni» è suggestiva, la tentazione è forte in tempi di crisi, gli errori fatali - fatali per l’anima - in agguato.
Suggestivo rileggere il rimprovero che Paolo rivolge ai giudei nella Lettera ai Romani (2,1): «Con lo stesso atto con cui condanni gli altri, condanni te stesso: infatti tu che giudichi compi le stesse cose che condanni».



Chi ha condannato come inescusabile, come male assoluto, l’aggressivo razzismo del Terzo Reich?
E chi sta facendo lo stesso chiudendo un popolo in un lager dove lo affama, e distruggendoun Paese disarmato?
«Per mezzo della tua durezza e coscienza inaccessibile al pentimento, tu ammassi per te un tesoro di collera per il giorno dell’ira», avverte Paolo, e ci sembra che parli d’oggi.
Ma è così?
«Vi preghiamo o fratelli, quanto alla venuta del Signore, a…non spaventarvi né da oracoli dello Spirito, né da parola o lettera come spedita da noi, quasi il giorno del Signore sia imminente».
Prima, dice Paolo, deve venire «l’apostasia» (ci siamo già? L’Europa intera è apostata, dimentica del suo battesimo).
Prima deve manifestarsi l’uomo d’iniquità, «colui che si oppone e si innalza su tutto ciò che è chiamato Dio, fino a sedersi egli stesso nel tempio di Dio dichiarando Dio se stesso».
Il tempio di Gerusalemme non è più.
Ma ci sono scuole rabbiniche, yeshivot, che si preparano alla sua ricostruzione.
Una di esse chiamata Ateret Cohanim (corona sacerdotale) raccoglie denaro fra la diaspora ricca
e i protestanti fanatici per rifare gli abiti dei sacerdoti biblici minuziosamente descritti nei Numeri e nel Deuteronomio, e ricostruire gli oggetti rituali del sacrificio, il vasellame d’oro, l’efod con le dodici pietre, il gioiello che portava il sommo sacerdote.



Poiché i lignaggi sacerdotali sono perduti, hanno studiato a fondo le linee ereditarie dei sacerdoti samaritani; ad alcuni hanno fatto sposare donne ebree, onde nasca un sacerdote di lignaggio, ma giudeo.
E poiché la legge mosaica prescrive, per il sacrificio, che il sacerdote sia spalmato dalle ceneri di una «vacca rossa» completamente bruciata, gruppi ebraici stanno manipolando DNA, embrioni in vitro e clonazioni per ottenere una giovenca rossa, assolutamente rossa (nel Talmud si discute ossessivamente di quanti peli bianchi siano permessi, perché la giovenca possa essere considerata rossa).
Tutto ciò non è ridicolo come sembra.
Ora che possiedono la «Terra Santa», e sono vicini al solo luogo dove il rito ebraico dello sgozzamento dell’agnello può essere «valido», sognano questo compimento: la ripetizione del sacrificio.
Il luogo è la roccia di Abramo - quella in cui Abramo fu sul punto di sgozzare, per ordine di Yahve, il suo figlio primogenito - ed esiste tuttora.
E' racchiusa sotto la cupola d’oro della moschea di Omar, nel centro di Gerusalemme, sulla spianata della moschee.
Si alza dal pavimento coperto di tappeti.
Solo lì gli ebrei possono ripetere il rito, interrotto da duemila anni.
E lo faranno.



Questo, credo, sarà il segno decisivo: «l’abominazione della desolazione posta sul luogo santo» come Gesù indicò (Matteo, 24,15).
Il luogo santo è senza dubbio la roccia di Abramo, che era racchiusa nel più interno penetrale
del tempio ebraico, il santo dei santi.
Ma oggi non è desolata, perché la racchiude, onorandola, la moschea di Omar con la cupola d’oro, e la venerazione dei musulmani.
Il possesso dei musulmani palestinesi sulla «roccia» è legittimo: anch’essi sono discendenti di Abramo attraverso il figlio Ismaele.
Ma lo è in senso storico più profondo.
Uno dei significati delle Crociate, quello mistico, fu d’essere una serie di ordalie, per conoscere chi - tra le due religioni monoteistiche - avrebbe avuto il privilegio di difendere il luogo santo dall’ultimo sacrilegio.
Difensori del «tempio» si dissero i Templari, e dello stesso titolo si arrogarono confraternite islamiche.
Vinsero loro, i musulmani.
Il privilegio spetta a loro.
Quanto sarebbe stato duro quell’onore lo intuì re Hussein di Giordania: che negli anni ‘80 rinunciò al titolo di «Protettore della Roccia», che era ereditario nella sua dinastia hashemita.



E per farsi perdonare la rottura del voto, ricoprì d’oro la moschea di Omar, spendendo molto denaro del suo tesoro.
Chissà se questo è bastato a salvarlo.
Ora a difendere la grande moschea restano i ragazzi di Gaza, i palestinesi, i beduini del sangue di Abramo.
Versano abbondantemente quel sangue; generosamente gli ebrei spillano il sangue di Abramo.
E’ l’ultima vendemmia nella vigna del Signore.
Varrà la pena di notare che, se e quando gli ebrei ricostruiranno il tempio e ripeteranno il rito, questo sarà insieme «valido» e sacrilego.
Lo sanno bene i rabbini del Neturei Karta, quelli che considerano Israele una parodia satanica del Regno d’Israele: il tempio non deve essere costruito con la forza, ma Dio lo farà «scendere dal cielo» quando Lui vorrà.
Un rito valido eseguito come un atto di violenza, forzare la mano a Dio, è in sé un sacrilegio; il fatto che venga compiuto con un’esatta, scientifica replica di oggetti ed azioni, da sacerdoti frutto di incroci razziali, lo configurerebbe come un’azione di magia nera.
E una parodia del sacrum.

I rabbini del Neturei Karta s’impegnano a non accelerare l’avvento del Messia: è uno dei giuramenti rabbinici che i nuovi giudei e i cristiani «rinati» stanno violando efficacemente.
Isaia lancia una specifica maledizione contro «coloro che dicono: si affretti, si acceleri l’opera sua, affinchè possiamo vederla; si avvicini, si realizzi il progetto del Santo d’Israele, e lo riconosceremo!» (5,19).
La ripetizione del sacrificio ebraico, se avverrà, sarà insieme una bestemmia per l’Islam (perché suppone la distruzione o la profanazione della moschea di Omar), e ancor più per cattolicesimo. Perché il sacrificio dell’agnello annuale è stato definitivamente abolito: il vero Agnello è già stato suppliziato per i nostri peccati, e d’ora in poi mangiamo la Sua carne e beviamo il Suo sangue.
E lo possiamo fare in ogni posto del mondo, perchè Egli è la vittima, il sacerdote, ed anche il tempio.
Egli è la roccia di Abramo, che sorge in ogni chiesa.
La sua ripetizione sarebbe «abominazione della desolazione» per tutte e tre le religioni monoteiste. E poi? «Quando vedrete l’abominazione della desolazione posta sul luogo santo, chi ha orecchi intenda, allora quelli che stanno in Giudea fuggano sui monti, chi è sulla terrazza non scenda a prendere la roba di casa, chi si trova nei campi non torni indietro a prendere il mantello… Infatti ci sarà una tribolazione grande, quale mai c’è stata dall’origine del mondo né mai vi sarà. Se non fossero abbreviati quei giorni, nessuno si salverebbe».



Gli esegeti cattolici vi diranno che tutto questo è già avvenuto.
Che il luogo santo è già stato desolato da una statua di Giove posta da Adriano nel tempio dopo che sedò nel sangue la rivolta del falso messia Bar Kochba, e la cosiddetta ultima guerra giudaica
(133-135).
Ma la statua di Giove fu posta «dopo» la tribolazione, non prima, e non ne fu la causa.
E nella mente di Cristo, le tribolazioni attorno al tempio e Gerusalemme, numerose, si uniscono in una sola: quelle storiche e quella ultima, apocalittica.
Quando?
«Circa il tempo e l’ora, fratelli, non avete bisogno che ve ne scriviamo. Voi stessi sapete che il Signore arriva come un ladro nella notte», dice Paolo.
E tuttavia dà un’indicazione:
«Quando diranno ‘pace e sicurezza’ allora improvvisamente precipiterà su di essi la rovina, come le doglie di una donna incinta, e non avranno scampo».
Ora, «pace e sicurezza» è un leitmotiv del linguaggio diplomatico israeliano.
«L’OLP riconosce il diritto di Israele a vivere in pace e sicurezza», leggo in un vecchio ritaglio
del ‘93.
Non bastò.
Israele vuole la «pace» ossia l’incontrastata fruizione delle sue occupazioni, e insieme l’impegno dei derubati a garantirle la «sicurezza» da attacchi «terroristici».
Non ha ancora questa pace-e-sicurezza.



Li avrà quando avrà vinto, terrorizzato, assoggettato nella sottomissione fino all’ultimo palestinese ed arabo.
«Allora improvvisa precipiterà su di essi la rovina, e non avranno scampo».
La repentinità, subitanea e imprevista, del colpo, sarà il carattere di questa rovina, già lo disse Isaia: «La vostra colpa sarà come la crepa occulta che fa gonfio un muro, e lo fa crollare subitamente». Per chi starà sul terrazzo, non ci sarà tempo di prendere il mantello.
Bisognerà fuggire sui luoghi alti.
Un gas?
Un’arma chimica?
Suggestioni, suggestioni…

Maurizio Blondet




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