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    Gli interventisti. Di ieri e di oggi.

    Maurizio Blondet
    22/07/2006


    «Come Catone imparò a sue spese, continuare a ripetere ‘delenda Carthago’ non rende popolari. Ma Catone aveva ragione. Finché la Cartagine rappresentata dai regimi siriano e iraniano non sarà distrutta, Roma - cioè l’Occidente - non sarà al sicuro».
    Queste parole a firma di Massimo Introvigne su Il Giornale (1) agghiacciano per diversi motivi. Introvigne è un cattolico; in altri tempi l’ho conosciuto più critico
    di quell’«Occidente», di quel capitale globale, che oggi invece abbraccia in toto, senza distinguo, identificandolo con «Roma».
    L’ho conosciuto più capace di finezza intellettuale: oggi anche lui, come Farina e infiniti altri pubblicisti, è «un soldato dell'Occidente», pronto alla sua estrema difesa.
    E «Cartagine» sono Siria e Iran, secondo il dettato israeliano che costoro ripetono docili.
    Ma quello che agghiaccia è il tono, la retorica bellica, l’evocazione dei grandi fatali destini… questa retorica ricorda troppo da vicino qualcosa che l’Italia ha già conosciuto: l’interventismo italiano che ci spinse nella grande guerra, nella inutile strage.
    L’interventismo fu un movimento promosso dalla Massoneria e da giornalisti, senza seguito popolare.
    La gente, cattolica o socialista, o giolittiana, era per la neutralità.
    «Creeremo uno stato d’animo per il popolo italiano», com’ebbe a dire un gran maestro, Torrigiani (lo cita Alessandro Mola nella sua monumentale «Storia della Massoneria italiana»): infatti è questo che fa la società segreta, crea «stati d’animo» collettivi.
    Che muovono le cose.



    L’ebreo Gavrilo Princip assassinava l’arciduca Francesco Ferdinando a fine giugno 1914.
    Già il 31 luglio il gran maestro Ettore Ferrari diramava alle logge italiane una circolare che diceva: «Se mai suonerà l’ora delle dure prove, non mancherà la nostra voce per confortarvi ad affrontarle con la fede dei padri»: già il tono della retorica guerrafondaia era dato, e continuerà su quel timbro.
    Il 14 settembre, Ferrari rinnovava la circolare: «Certe ore non si rinnovano nella storia, ed è follia e sciagura lasciarle scorrere… l’Italia mal provvederebbe a se stessa se rimanesse assente dal tragico cimento nel quale si decidono, per più generazioni, le sorti d’Europa».
    Anche allora, pochi distinguo: era Roma contro Cartagine, la civiltà contro la barbarie (2).
    O come scrisse il giovane Mario Missiroli, allora giornalista di «Monarchia socialista» (sic):
    «Non ci sono mezzi termini. Decidetevi: o col Papa o con Ettore Ferrari».
    Certe prese di posizione pagano: Missiroli sarebbe stato poi direttore de Il Corriere della Sera. Come oggi Magdi Allam, elevato più rapidamente.
    Quei giornalisti erano pagati.
    L'ambasciata francese di palazzo Farnese, l’ex comunardo Camille Barrère, ora ambasciatore, spese almeno un milione di lire d’allora; l’ambasciatore von Stockhammern faceva non meno comprando giornalisti italiani a forfait o con assegni mensili in nero; i più zelanti inondavano i giornali di provincia con pezzi tutti uguali nella tronfia retorica pettoruta, sia a favore della Triplice, sia dell’Alleanza.
    Un massone in sonno e dissidente, l'ex parlamentare Raffaele Giovagnoli, scrisse di questa «cancerosa e putrida schiatta di giornalisti guerrafondai che vuole piombare questa alla meglio rabberciata Italia nell’abisso dell’ignoto di una guerra né inevitabile né necessaria»

    Gramsci, decenni dopo, avrebbe parlato di «criminale leggerezza con cui il popolo italiano è stato cacciato nella guerra mondiale» da pubblicisti e politicanti pagati.
    E tutti convinti, i dementi furbastri, che la guerra sarebbe durata poche settimane.
    Si organizzarono manifestazioni e sceneggiate.
    D’Annunzio si prestò a celebrare sullo scoglio di Quarto una grottesca «Sagra dei Mille», evento-spettacolo con recita di poemi di chiaro senso interventista, invitandovi il re che pensò davvero di parteciparvi.
    Un anonimo socialista genovese scrisse una lettera minatoria, fra migliaia di simile tenore: «Ben venga il re, e non prenda il biglietto di ritorno. Abbasso la Massoneria che vuole la guerra non per il bene dell’Italia, ma per aiutare la Francia».
    Ernesto Nathan, supremo maestro, figlio di Mazzini e di Sarah, moglie del banchiere Nathan, primo sindaco giudeo e massone di Roma «liberata», ostentatamente si volle arruolare volontario: l’età e lo stato di riguardo lo esentarono ovviamente dal finire davvero in trincea, dove morirono 600 mila giovani.


    Ernesto Nathan

    Ci furono manifestazioni di appoggio alla guerra, come oggi per Israele in pericolo.
    Con poco successo.
    «La verità è che la maggioranza del Paese è per la neutralità» scrisse il ministro e «fratello» San Giuliano, «che l’agitazione che si verifica a Roma è del tutto superficiale, come dimostra lo scarsissimo numero di partecipanti alle manifestazioni [interventiste], suscitate più che altro da giornalisti e da pochi repubblicani e nazionalisti, e la nessuna eco trovata dalle dimostrazioni nelle province».



    La loggia Mameli di Roma stese una relazione dal titolo: «alcune cause della diffidenza del mondo profano verso la democrazia in genere e la Massoneria in specie»: già guerra, Massoneria e «democrazia» erano un tutt’uno.
    Anche oggi Introvigne e tutti gli altri vogliono portare la democrazia in Medio Oriente.
    La Massoneria, scrive Mola, «rivendicò esplicitamente un ruolo per la mobilitazione del Paese; mentre il governo avrebbe atteso alla preparazione militare, la Massoneria italiana si faceva carico di provvedere alla preparazione morale».
    Alla propaganda cioè, naturalmente mascherata da imperativo morale.
    Civiltà contro barbarie. Cartagine o Roma.
    Siamo agli stessi arruolamenti, allo stesso pubblicismo irresponsabile e tronfio, alle stesse schiere di giornalisti con l’elmetto alla scrivania e i pagamenti occulti nel conto in banca, a scrivere «Armiamoci e partite». (3)
    E al servizio degli stessi persuasori occulti.
    Sgomenta e rattrista vedere nella schiera dei nuovi soldati d’Occidente, intenti alla ben nota «preparazione morale» per la guerra, un cattolico che in altri tempi fu colto, intelligente, e non ignora quel precedente storico.

    Maurizio Blondet




    --------------------------------------------------------------------------------
    Note
    1) Massimo Introvigne, «Fratelli e coltelli», 21 luglio 2006.
    2) Insieme alle parole, il gran maestro Ferrari dispose azioni: secondo Mola, creò un corpo segreto di volontari «pronti a tutto, e disponibili per colpi di mano, quali sconfinamenti e provocazioni, sì da far precipitare i rapporti fino allo scontro armato». Significativi i nomi dei componenti di questa cellula segreta: Giuseppe Pontremoli di Milano, Eugenio Jacchia di Bologna, Enrico Tedeschi a Padova… nomi ebraici. Ci furono anche ebrei massoni però contrari all’intervento.
    3) Va notato che il movimento di opinione «spontaneo» che portò alla grande guerra fu pan-europeo. In Inghilterra il pubblico chiamò «allarmisti» (scaremongers) una nutrita schiera di giornalisti «che deliberatamente avvelenarono le relazioni anglo-tedesche sì da creare un clima tale, da rendere inevitabile la guerra» (A.J. Morris, «The scaremongers, the advocacy of war and rearmament 1896-1914», Londra, 1984). Persino in Turchia il giornale Jeune Turcs predicava l’entrata in guerra già nel 1911, ovviamente a fianco della Germania. Lo dirigeva un ebreo tedesco di nome Sam Hochberg. Come da noi, durante la guerra, il ministro della guerra fu Sidney Sonnino, ebreo.




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  2. #2
    kalashnikov47
    Ospite

    Predefinito

    Introvigne (ex-Alleanza Cattolica), da quando si è riciclato, è uscito dall'anonimato ed è uno dei giornalisti più gettonati.

 

 

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