Un articolo da leggere, dal blog di liberali per Israele.
Alla fine, alcune righe da diffondere, se potete. Grazie.

Haifa. A volte, vittime sconosciute racchiudono nelle loro vite e nella loro
fine il senso delle guerre. E’ la storia di Andrej Ze-linskj, e dei fratelli
Rabia Abed e Mahmoud Talusi. I loro nomi verranno presto dimenticati, e forse
non ci si è fatto neppure caso, nel vortice delle notizie: il mondo pensa a come
fermare il fuoco, e bada poco agli ustionati. Guardata da lontano, adesso, può
sembrare la guerra tra il forte e i deboli, tra una macchina militare potente e
un esercito straccione. Dunque, Davide contro Golia, come sempre e per sempre.
No, per niente. Questa non è una guerra tra impari, è una guerra, un atto della
guerra, tra democrazia e terrorismo. E non lo diciamo per un rovesciamento
ideologico delle simpatie, o per una qualche dietrologia – il sequestro dei due
soldati, a Moshav Zarit, il 12 di luglio, AVVENNE ESATTAMENTE NEL GIORNO IN CUI
L’IRAN AVREBBE DOVUTO RENDERE NOTO IL PROPRIO PIANO PER L’ARRICCHIMENTO
DELL’URANIO. Non lo fece, e la questione fu sottoposta al Consiglio di sicurezza
delle Nazioni Unite: sapete con quale esito? No, e neanche noi lo sappiamo. E
neppure per una disamina attenta del contenzioso, e della sua cronologia: siamo
rimasti alla risposta del generale canadese McKenzie, dopo una battaglia attorno
a Sarajevo, a chi gli chiedeva chi avesse sparato il primo colpo: “Il primo
colpo qui è stato sparato quattrocento anni fa”. Sono i fatti, e le storie, a
rivelarlo, a dire che questa è una guerra tra democrazia e terrorismo, oltre che
tra Israele e Hezbollah. Prendi la vita e la morte di Andrej Zelinskj, 37 anni.
Al suono delle sirene, l’altro giorno, ha spinto la moglie e la figlioletta di
quattro anni verso il rifugio, a Naharya – vuol dire “il fiume di Dio”, se aiuta
a superare la diffidenza verso suoni stranieri – sei chilometri dal confine
libanese, una cittadina di meno di 60 mila abitanti, dove già una donna era
morta sul balcone di casa, il 13 luglio. Ma a un certo punto Andrej è tornato
indietro, verso casa, per prendere del latte per la bimba. Era a venti metri dal
rifugio quando il missile l’ha dilaniato. Le cronache, anche qui convulse e
avare, raccontano che era immigrato dall’Ucraina qualche anno fa, e che era
considerato un gran lavoratore. Sono le guide turistiche, adesso inutili, a
dirci che la moderna Naharya è stata fondata nel 1934 da ebrei provenienti dalla
Germania. Poi è servita ad accogliere chi fuggiva l’antisemitismo dell’Est
europeo, gli unici migranti al mondo che non sollevano solidarietà. Il loro
arrivo nega una patria ai palestinesi ? Una patria, magari matrigna, Rabia, tre
anni, e suo fratello Mahmoud, nove anni, ce l’avevano. Arabi israeliani, della
città più araba d’Israele, Nazareth. Dove non c’è terrorismo, né anti-
terrorismo, e dove l’unica tensione, qualche anno fa, fu tra arabi cristiani e
arabi musulmani per la costruzione di una moschea a ridosso della basilica
dell’Annunciazione, con un permesso che qualcuno pensò rilasciato a bella posta
dal governo israeliano, per mettere gli uni contro gli altri. “Era di
pomeriggio, ed è stagione di vacanza, dove altro potevano giocare?”, ha detto un
vicino. Giocavano in strada, e sono stati uccisi da un missile hezbollah. E’ la
povertà della tecno-ogia militare degli oppressi a uccidere, sotto fuoco amico,
due bambini arabi? No, i missili sono sparati a caso, non importa dove
colpiscono. Perché, importa al terrorista se tra i clienti di un ristorante o di
una discoteca c’è qualche arabo? No, si colpisce nel mucchio, sempre, che si
tratti di Israele, di passeggeri di una metropolitana o di fedeli sciiti in una
moschea. La guerra non tra arabi ed ebrei, tra islamici e cristiani, tra i
terroristi e gli altri. E’ tra un’idea del mondo e un’altra idea del mondo. I
libanesi sono lo scudo umano dell’Iran Prendete Haifa: il sindaco dice che
soffre doppiamente, perché è il sindaco di una città che era chiamata la
“rossa”, operai e sinistra (“Gerusalemme prega, Tel Aviv si diverte, Haifa
lavora), e si è battuto, con Yossi Beilin, per il ritiro unilaterale dal Libano,
sei anni fa. Il vicesindaco, che è un arabo cristiano, dice che la convivenza
reggerà la prova. Qualche pacifista manifesta contro la guerra, e i pochi
passanti, nella città paralizzata e vuota, gli urlano: “Andate a vivere a
Gaza!”. Ma c’è un sergente della riserva, 28 anni, producer televisivo che ha
rifiutato la chiamata, primo obbiettore di coscienza. Vive in un posto, Sderot,
sotto tiro, che è anche il collegio di Amir Peretz, il ministro della Difesa.
Dice di essere pronto a pagare il prezzo, è già stato obiettore, rifiutando la
chiamata nei Territori, e ha trascorso 28 giorni in prigione. Non importa qui se
abbia ragione o torto, conta che esista, che sia indizio di un mondo e di un
modo di vivere, anche in guerra. Metti dall’altra parte. Non sappiamo dove siano
trattenuti ostaggi i due militari israeliani, riservisti anche loro,
sequestrati. Non ci interessa discutere con il pacifismo o il cessatefuochismo
se siano sequestrati o legittimi prigionieri. Ci stanno a cuore quelle migliaia
di libanesi che scesero in piazza, smascherando gli assassini di Rafiq Hariri, e
rivendicando un destino libero, e mostrando al mondo che anche la piazza araba
può sventolare bandiere, invece di bruciarle, e gridare la libertà, invece che
la morte. Sono o non sono ostaggio della guerra privata degli Hezbollah, della
guerra sottotraccia di Damasco e di Teheran, sono o no lo scudo umano
involontario di una guerra che non è loro? Certo, li si può dimenticare. Come i
più dimenticati di tutti: i duemila baschi blu delle Nazioni Unite che già
servono in Libano. Facile fare dell’ironia, adesso, sulla loro inutilità, in
quasi trent’anni di missione, o ricordare che le spiagge di Naharya erano un
appuntamento popolare, nei loro weekend, prima dei missili. Hanno avuto più di
duecento morti, nel trentennio. Ma far finta che non esistano, sperando nella
bacchetta magica di Kofi Annan, è nascondersi la natura di questi giorni, e la
posta della partita.


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