OMNIA SUNT COMMUNIA


L'attacco degli Hezbollah? È l'unico atto di solidarietà per Gaza


Tanya Reinhart (Docente di linguistica alle università di Tel Aviv e di
Utrecht, ha pubblicato per Marco Tropea «Distruggere la Palestina»)

Fonte: Il Manifesto (http://www.ilmanifesto.it)
16 luglio 2006



È l'offensiva di Israele a Gaza che ha scatenato la nuova guerra in Libano.
Da quando, nel 2000, si era ritirato dal Libano, gli Hezbollah avevano
accuratamente evitato di scontrarsi con l'esercito israeliano in territorio
di Israele (limitandosi a confronti nell'area di Shaba in Libano, che lo
Stato ebraico continua a occupare). Il momento scelto dai guerriglieri
sciiti per il primo attacco, e la retorica successiva, indica che la loro
intenzione era ridurre la pressione sui palestinesi aprendo un nuovo fronte.
La loro azione dunque può essere vista come il primo atto militare di
solidarietà con i palestinesi nel mondo arabo. Qualunque cosa si pensi di
ciò che hanno fatto gli Hezbollah, è importante capire la natura della
guerra di Israele contro i palestinesi a Gaza.
L'offensiva delle forze armate israeliane nella Striscia non riguarda il
soldato lì prigioniero. L'esercito preparava un attacco da mesi e premeva
per passare all'azione, con lo scopo di distruggere l'infrastruttura di
Hamas e il suo governo. Perciò ha avviato l'escalation l'8 giugno, quando ha
assassinato Abu Samhadana, membro del governo di Hamas, e ha intensificato i
cannoneggiamenti sui civili nella Striscia di Gaza. Già il 12 giugno il
governo aveva autorizzato un'azione più ampia, rinviata però a causa delle
reazioni internazionali suscitate dall'uccisione di civili palestinesi nei
bombardamenti aerei del giorno seguente. Il rapimento del soldato è servito
a «togliere la sicura»: l'operazione è cominciata il 28 giugno con la
distruzione di infrastrutture a Gaza e la detenzione in massa della
dirigenza di Hamas in Cisgiordania, altra cosa che era stata pianificata con
settimane di anticipo.
Nel discorso pubblico israeliano, Israele ha messo fine all'occupazione di
Gaza quando ha evacuato i suoi coloni dalla Striscia, e il comportamento dei
palestinesi sarebbe dunque «da ingrati». Ma nulla è più lontano dalla realtà
di questa descrizione. Nei fatti, come era previsto dal Piano di Disimpegno,
Gaza è rimasta sotto il totale controllo militare israeliano, dall'esterno.
Israele ha impedito l'indipendenza economica della Striscia, e non ha mai
applicato neppure una delle clausole degli accordi sui valichi di frontiera
del novembre 2005. Ha semplicemente sostituito la costosa occupazione di
Gaza con un'occupazione più economica, che dal suo punto di vista lo esenta
dalla responsabilità dell'occupante a garantire la sopravvivenza del milione
e mezzo di residenti della Striscia, come dettato dalla quarta Convenzione
di Ginevra.
Israele non ha bisogno di questo pezzo di terra, uno dei più densamente
popolati al mondo e sprovvisto di risorse naturali. Il problema è che non
può lasciar andare Gaza se vuole mantenere la Cisgiordania. Un terzo dei
palestinesi sotto occupazione vive nella Striscia di Gaza. Se liberi,
diverranno il centro della lotta di liberazione palestinese, con libero
accesso al mondo arabo e a quello occidentale. Per controllare la
Cisgiordania, Israele ha bisogno del pieno controllo di Gaza. E la nuova
forma di sottomissione che ha ideato è trasformare l'intera Striscia in un
campo di prigionia isolato dal mondo. Persone occupate e assediate, con
nulla in cui sperare, e nessun mezzo alternativo di lotta politica,
cercheranno sempre di combattere il loro oppressore. I palestinesi
prigionieri a Gaza hanno trovato un modo per disturbare la vita degli
israeliani nelle vicinanze della Striscia lanciando missili artigianali
Qassam contro le città israeliane che circondano la Striscia. Questi razzi
rudimentali non hanno la precisione necessaria a colpire un obiettivo, e di
rado hanno fatto vittime israeliane; causano però danni fisici e psicologici
e disturbano la vita dei quartieri israeliani su cui si abbattono. Agli
occhi di molti palestinesi, i Qassam sono una risposta alla guerra che
Israele ha dichiarato loro. Come ha detto uno studente di Gaza al New York
Times, «Perché dobbiamo essere solo noi a vivere nella paura? Con questi
missili anche Israele ha paura. Dobbiamo vivere in pace insieme, o vivere
insieme nella paura» ( Nyt, 9 luglio 2006).
L'esercito più potente del Medio Oriente non ha risposte militari a questi
razzi fatti in casa. Una risposta possibile è quella che Hamas ha sempre
proposto, e il suo premier Haniyeh ha ripetuto questa settimana: un cessate
il fuoco complessivo. Nei 17 mesi trascorsi da quando ha annunciato la
decisione di abbandonare la lotta armata a favore della lotta politica, e
dichiarato un cessate-il-fuoco unilaterale ( tahdiya, calma), Hamas non ha
preso parte al lancio dei Qassam, salvo sotto grave provocazione israeliana
come nell'escalation di giugno. Hamas però continua a lottare contro
l'occupazione di Gaza e Cisgiordania. Dal punto di vista di Israele, il
risultato delle elezioni palestinesi è un disastro, perché per la prima
volta hanno dei dirigenti che insistono nel rappresentare gli interessi
palestinesi invece di limitarsi a collaborare con le richieste israeliane.
Poiché finire l'occupazione è la cosa che Israele non vuole considerare,
l'opzione seguita dall'esercito è spezzare i palestinesi con una forza
devastante. Devono essere affamati, bombardati, terrorizzati con ordigni
assordanti per mesi, finché capiranno che ribellarsi è futile e accettare la
prigione a vita è la loro unica speranza di vita. Il loro sistema politico
eletto, istituzioni e polizia vanno distrutte. Per Israele, Gaza dovrebbe
essere governata da gangs che collaborano con i secondini della prigione.
L'esercito israeliano ha sete di guerra. Non si lascerà fermare da
preoccupazioni per i soldati rapiti. Dal 2002 i militari sostengono che
anche a Gaza è necessaria un'operazione tipo lo «Scudo difensivo» di Jenin.
Esattamente un anno fa, il 15 luglio (prima del Disimpegno da Gaza),
l'esercito aveva concentrato le forze sul confine della Striscia per
procedere a un'offensiva di quel tipo a Gaza. Gli Stati uniti però opposero
il veto. Il segretario di stato Usa Rice arrivò per una visita d'emergenza
descritta come acrimoniosa e tempestosa, e l'esercito fu costretto a
ritirarsi. Ora finalmente il suo momento è arrivato. Con l'islamofobia
nell'amministrazione Bush giunta all'acme, sembra che gli Usa siano pronti
ad autorizzare l'operazione, a condizione che non provochi l'indignazione
globale con attacchi troppo pubblicizzati ai civili (sulla posizione attuale
dell'amministrazione Usa vedi Ori Nir, «Us Seen Backing Israeli Moves to
Topple Hamas», The Forward, 7 luglio 2006, www.forward.com/articles/8063).
Ricevuto il via libera alla sua offensiva, l'unica preoccupazione
dell'esercito è l'immagine pubblica. Fishman ha riferito martedì scorso che
per l'esercito «ciò che rischia di far deragliare questo imponente sforzo
militare e diplomatico» sono le notizie di crisi umanitarie a Gaza. Perciò,
avrà cura di lasciar entrare del cibo a Gaza. E' necessario nutrire i
palestinesi perché sia possibile continuare indisturbati a ucciderli.

--------

(http://italy.peacelink.org/palestina/articles/art_17554.html)


TUTTO E' DI TUTTI