Benny Morris
Vittime
Storia del conflitto arabo-sionista 1881-2001
Rizzoli, 2001
di Sandro Viola
Quando anni fa presero a riscrivere molte pagine di storia patria custodite da mezzo secolo (e mai una volta ridiscusse) nei tabernacoli della storiografia filocomunista, i nostri storici cosiddetti revisionisti dimostrarono un certo ardire. Perchè certo non ignoravano che i sacerdoti e le vestali di quei tabernacoli gli avrebbero sparato contro a mitraglia, e senza risparmiare le munizioni. Immaginiamoci quindi il coraggio di cui ha avuto bisogno il professor Benny Morris, storico israeliano all'università Ben-Gurion di Beersheba, quando s'è posto a scrivere Vittime, il suo vasto e appassionante affresco dei centovent'anni del conflitto arabo-sionista (Rizzoli, 880 pagg., 52.000 lire). Un coraggio da leone, dato che si trattava di passare al pettine stretto le versioni ufficiali della storia di Israele. E in particolare la condotta tenuta dai primi coloni sionisti, poi dai "padri" dello Stato ebraico, quindi dai governi israeliani e dai loro eserciti, nei confronti del popolo palestinese. Centovent'anni durante i quali molti, per non dire innumerevoli, sono stati i soprusi e le ingiustizie che quel popolo ha subìto. Come tutte le epopee nazionali, anche quella israeliana gronda di belletti. Anche in Israele la politica e addirittura la propaganda si sono infatti mischiate alla storiografia con l'intento di mascherare i "buchi neri", espungere gli episodi disonorevoli, mettendo invece in risalto l'eroismo dei fondatori, la saggezza e chiaroveggenza dei primi governanti, la generosità verso amici e nemici. Quanti ritocchi e manipolazioni, quindi, nella storiografia ufficiale israeliana. Il sionismo descritto come inerme, pacifico e non espansionista, gli arabi e i palestinesi ritratti come avversari irriducibili che nessuna benevolenza, mano tesa, ragionevolezza politica, è mai riuscita a distogliere dal proposito di "rigettare gli ebrei a mare". E che avversari, poi: cento milioni di arabi tutt'attorno al "piccolo Israele", antisemiti implacabili, maestri d'inganni, e con grandi eserciti armati sino ai denti. Non sono andate proprio così, le cose, nel secolo e più del conflitto. E sarebbe stato facile, per chiunque avesse un po' studiato lo svolgersi di quella vicenda, dimostrarlo. Ma la storia del moderno Israele è una storia molto particolare: alle spalle c'era l'Olocausto, e di fronte c'era il rifiuto arabo. Sicché ad un paese emerso in modo tanto drammatico s'era indotti a perdonare molte cose. Anche un'abbondante cosmesi dei fatti realmente accaduti: compresa la rimozione delle prepotenze e violenze, delle crudeli mutilazioni del vecchio mondo palestinese, su cui è nato lo Stato ebraico. Finché anche in Israele non s'è affacciata una storiografia revisionista, accolta com'era prevedibile da reazioni scalmanate, accuse di tradimento, insulti. Ma quel baccano è senza importanza. Importante, invece, è che i libri di Morris e degli altri "new historians" (come vengono chiamati i revisionisti in Israele) abbiano costretto la società israeliana a ripensare senza più tante indulgenze il proprio passato. Poiché copre un secolo e più d'eventi, riassumere Vittime sarebbe impossibile. Ai suoi possibili lettori conviene quindi indicare i passaggi cruciali del conflitto che Morris ha scrostato di tutti gli orpelli che vi aveva aggiunto la vulgata nazionalista. I punti che, ricondotti alla verità, consentono di farsi un'idea meno lacunosa e confusa di come siano andati i fatti in Palestina tra la fine dell'Ottocento ed oggi. Tali punti sono essenzialmente quattro. Le intenzioni, l'animo, gli scopi riposti con cui il movimento sionista guidò il "ritorno" in Palestina, e i contraccolpi sul popolo che abitava quelle terre. Le guerre arabo-israeliane del '48-'49, del '56, del '67, del '73 e dell' 82. L'occupazione della Cisgiordania e di Gaza nel '67,e il mancato ritiro degli israeliani di cui oggi vediamo le ultime (solo in ordine di tempo, purtroppo) terribili conseguenze. I vari tentativi di riportare la pace tra i due popoli, e il loro fallimento. Qui è però necessaria una premessa. Il libro di Morris non scagiona, ci mancherebbe, i palestinesi. Non ne tace gli errori politici, le fasi di ferocia ("Berremo il sangue degli ebrei" si gridava al tempo delle prime rivolte), il pervicace rifiuto della presenza sionista in Palestina. Ma il suo interesse, la sua utilità stanno evidentemente nella critica ai primi sionisti e alla classe dirigente d'Israele, in quanto qui - su questo terreno - il libro dice cose che gli israeliani usavano tacere. Ed è perciò a questo versante dell'opera di Morris che conviene dare il giusto spicco. Lo slogan del primo sionismo, "Una terra senza popolo per un popolo senza terra", non nasceva - come s'è letto tante volte - dalle scarse conoscenze che l'Ostjudentum aveva della Palestina ottomana. Quell'immagine d'una terra disabitata o quasi fu invece costruita ad arte, al fine d'incoraggiare l'immigrazione ebraica dall'Europa Orientale. Ma i capi sionisti sapevano perfettamente che si sarebbe dovuta strappare la terra, in un modo o nell'altro, al popolo che l'abitava da tempo immemorabile. Né pensavano ad una piccola porzione di quella terra. La loro fu da principio una visione espansionista, con al centro l'idea della cacciata (o trasferimento forzoso che dir si voglia) dei palestinesi. Idea da cui scaturì in due fasi, 1948 e 1967, una massa cenciosa di 600.000 profughi. Nella descrizione di Morris, il rapporto tra i primi immigrati e la popolazione locale è sin dall'inizio, infatti, carico di tensioni. Gli ebrei non avevano stima né fiducia degli arabi, verso i quali provavano anzi "un sentimento di profonda ostilità". Né i palestinesi potevano mostrarsi amichevoli, visto che l'immigrazione ebraica aveva letteralmente stravolto la loro esistenza. Espulsi dai terreni agricoli che i grandi proprietari stavano vendendo agli ebrei, impossibilitati ad acquistarli essi stessi (il prezzo dei terreni aumentò tra il 1910 e il '40 del cinquemila per cento),in molti casi vittime dell'usura praticata dai nuovi venuti, essi assistevano impotenti al crollo del loro mondo. Qualcuno tra i capi sionisti, Ytzhak Epstein o Ben-Gurion, aveva certo capito a cosa si stesse andando incontro. "Noi, in quanto nazione", scriveva Ben-Gurion, "vogliamo che il paese sia nostro: e gli arabi, in quanto nazione, vogliono che sia loro. Non ci sono soluzioni...". Ma la politica ufficiale del movimento e dell'Agenzia ebraica non era così comprensiva. Sicché le prime reazioni violente dei palestinesi vennero etichettate - pur sapendo che la realtà era diversa - come manifestazioni d'antisemitismo, nuovi "pogrom" dopo quelli subiti nell'Est Europa. E il concetto d'una identità nazionale arabo-palestinese fu sempre rifiutato (ancora alla fine dei Sessanta, Golda Meir diceva che "i palestinesi non esistono"),così da accampare con più forza la pretesa d'una terra ebraica "tout court". Sarà questo l'atteggiamento dinanzi alla grande rivolta palestinese del 1936-'38, spacciata per un hitlerismo mediorientale, un odio razzista verso gli ebrei. Mentre se è vero che gli agenti nazifascisti cominciavano a bazzicare la Palestina, è anche certo che quella sollevazione ebbe aspetti e carattere di risveglio nazionale. Al solito, Ben-Gurion fu tra i pochi a capirlo: "Se fossi un arabo, non esiterei ad insorgere contro un'immigrazione che prima o poi metterà il paese nelle mani degli ebrei". Della rivolta nella seconda metà dei Trenta, c'è un'altra cosa da dire. E cioè chi sia stato ad innestare il terrorismo moderno sul ceppo del conflitto in Palestina. Gli arabi attaccavano infatti i kibbutz isolati, sparavano sui coloni ebrei al lavoro nei campi, a volte pugnalavano il nemico nei vicoli di Haifa o Gerusalemme. Ma la scienza del terrore - "la bomba camuffata nel mercato o nell'autostazione, l'autobomba e l'autocarro-bomba, le raffiche dalle auto in corsa" - ,vale a dire le tecniche e i metodi che portavano al massacro indiscriminato di uomini donne e bambini, questi furono invenzioni degli ebrei dell'Irgun e dell'Lhi. Una cultura o tradizione attecchita poi sul versante palestinese, con la sola variante - discesa questa dal fanatismo islamico - dell'attentatore suicida. Quanto alle guerre arabo-israeliane, anche qui Benny Morris corregge alcuni assunti della versione ufficiale sostenuta negli anni da Israele. Tranne che nel '48, quando le forze armate israeliane avevano sopravvalutato la capacità degli avversari, e quindi dovettero prendere in considerazione anche l'idea d'una possibile sconfitta, la superiorità militare dello Stato ebraico fu sempre assoluta. Del resto fu Israele ad attaccare (questo non è Morris a dirlo, sono io) nel '56, nel '67 e nell''82: non gli arabi. Forte d'una struttura militare che dalla fine dei Sessanta comprendeva anche l'arma atomica. Beninteso, la superiorità bellica non toglie nulla al dramma vissuto ad ogni guerra dalla popolazione israeliana, la quale dovette legittimamente pensare che "l'alternativa fosse tra la vittoria e il possibile annientamento". Ma resta che l'immagine del "piccolo Israele" tra gli artigli delle orde arabe era pura propaganda. "Benchè fragile demograficamente", scrive Morris "Israele fu sempre in grado di mobilitare le sue risorse umane in modo da risultare numericamente superiore agli arabi in termini globali (come nel '48), o su tutti i campi di battaglia importanti". Il 1967, la vittoria israeliana nella guerra dei sei giorni, rappresenta un nodo cruciale nella storia del conflitto: il punto da dove israeliani e palestinesi avrebbero potuto muovere verso un compromesso, se mai da parte d'Israele - che a quel momento aveva i territori conquistati da usare come "merce di scambio" in una trattativa di pace - ci fosse stata la necessaria lungimiranza. Non andò così, invece. "La guerra dei sei giorni", sostiene Morris, "fece risorgere in Israele lo spirito espansionista e l'avidità territoriale, ben presto tradottisi nella proliferazione degli insediamenti, allontanando ulteriormente la pace". S'arriva così alla situazione da cui sarebbe scaturito il fiume di sangue che scorre oggi in Palestina: vale a dire i trentaquattro anni dell'occupazione israeliana di Gaza e della Cisgiordania, venticinque dei quali (sino al negoziato di Oslo) trascorsi senza che mai un governo israeliano pensasse di restituire ai palestinesi la loro terra. Anzi, badando a intasarla di colonie ebraiche: di quei coloni che avrebbero formato la destra nazional-religiosa, il segmento di società israeliana più forsennatamente avverso allo scambio tra i territori e la pace, dal quale segmento è uscito non a caso l'assassino di Rabin. Nel suo libro, Morris descrive così il clima nei territori occupati: "Israele amava credere, e far credere al mondo, che la sua occupazione fosse "illuminata","benevola", qualitativamente diversa da quelle esistite in precedenza. Così non era. Come tutte le occupazioni, quella israeliana si basava sulla forza, sulla repressione e la paura, il collaborazionismo e la delazione, i pestaggi e le torture, l'intimidazione, l'umiliazione e la disinformazione quotidiane". Qui sta il merito dell'autore di Vittime. Nel non tacere ciò che una gran parte degli israeliani, e il versante pro-israeliano dell'opinione pubblica internazionale, continuano ancor oggi a negare. Quel che succede in Palestina, l'orrore delle bombe di Hamas, il vicolo cieco in cui il conflitto sembra irrimediabilmente ficcato, tutto questo non deriva soltanto dall'impulso di distruggere Israele che oggi pervade le masse palestinesi. Israele ha fatto molto poco, e molto tardi, per avere la pace. E coloro che adesso guardano soltanto alla barbarie delle stragi commesse dai fondamentalisti palestinesi, commettono l'errore di trascurare i precedenti della tragedia. Ben-Gurion, che quei precedenti li conosceva bene, ha lasciato scritto: "Quando diciamo che gli arabi sono gli aggressori e noi quelli che si difendono, diciamo solo una mezza verità. Per quanto riguarda la sicurezza e la vita, noi siamo quelli che si difendono... Ma questa lotta è solo un aspetto del conflitto, che nella sua essenza è politico. E politicamente, noi siamo gli aggressori e loro quelli che si difendono".