Domani, 10 agosto 2006, ricorrono cinque anni dalla morte di Gianfranco Miglio, una delle figure più autorevoli e originali espresse dal pensiero politico italiano nel Novecento.
Nato a Como nel 1918 e allievo di illustri pensatori quali Alessandro Passerin d’Entreves e Giorgio Balladore Pallieri, Miglio seppe ridare vigore, innanzitutto, alla tradizione italiana dell’“elitismo” nel momento in cui era in voga la grande scienza politica all’americana ed empirista. Gli aspetti più originali del suo pensiero, l’approdo all’idea federalista e la sua breve ma intensa attività politica sono costante oggetto di dibattito, prova indiscutibile del fatto che il Profesùr ha lasciato un segno indelebile nella politologia nazionale e che la sua opera resta di eccezionale attualità.
Peccato che tale vivacità di trattazione sia confinata nell’ambito accademico mentre la classe politica, con poche eccezioni, sembra aver dimenticato in fretta la lectio migliana. Prova ne sia che l’unico contributo alla celebrazione di Miglio nel primo lustro dalla scomparsa arriva dall’editoria, con una biografia del politico comasco che intende anche tracciare un bilancio del suo pensiero. Gianfranco Miglio. Scienziato impolitico (in uscita a settembre per Rubbettino editore, 298 pp., e 14,00, prefazione di Giancarlo Galli) è stato scritto da Giovanni Di Capua, presidente dell’Istituto per la storia della democrazia repubblicana e autore di numerose opere di storia politica contemporanea. Testo utile ma «largamente lontano dal raggiungere l’obiettivo» l’ha giudicato sul Giornale Davide Gianluca Bianchi, che vi ha visto una sorta di «controcanto» a Gianfranco Miglio, storia di un giacobino nordista (Liber internazionale) scritto nel 1993 da Giorgio Ferrari, «tanta è l’insistenza dell’autore nel mettere in evidenza gli addentellati democristiani del Miglio preleghista».
Pubblichiamo alcune considerazioni sull’opera di Gianfranco Miglio espresse da intellettuali, studiosi e politici che ebbero modo di confrontarsi con l’uomo e con le sue idee.
«EBBE IL CORAGGIO DI CAMBIARE IDEA»
«La peculiarità del pensiero politico di Miglio è stata sicuramente il fatto di aver introdotto in Italia alcune analisi politiche originali - spiega al Velino il filosofo Carlo Lottieri, direttore dell’Istituto Bruno Leoni -. Mi riferisco alle sue riflessioni sul parassitismo, sulle maniere in cui il sistema statale salvava relazioni e complicità, tanto che coniò il neologismo “aiutantato”, alle riflessioni demistificatrici sui meccanismi della politica. Ma soprattutto ha avuto il coraggio di modificare profondamente le sue stesse visioni. Miglio, infatti, fautore inizialmente del presidenzialismo e del decisionismo come rimedi per la cronica debolezza del parlamentarismo italiano, approdò in seguito, ribaltando tutte le sue analisi precedenti, a una prospettiva neofederalista a vocazione libertaria.
«Il federalismo che propugnava Miglio - prosegue Lottieri - era un federalismo spinto, tanto che arrivò a definire falsi e degenerati gli Stati federali attuali, proprio perché nella realtà politica non individuava nessun modello di Stato federale conforme alla sua visione. Il suo concetto di federalismo prevedeva una comunità sociale organizzata non sulla base di un organismo politico “mitico” e valevole per sempre, ma su una società aperta e liberale dove i cittadini potevano autonomamente di volta in volta scegliere. «L’eredità più forte lasciata dal pensiero politico di Miglio è un realismo politico che nasce da una forte riflessione su temi quali l’obbligazione politica, la sovranità, la decisione e che arriva a cogliere la superiore legittimità e capacità di soddisfare le esigenze della società civile non di un ordine basato sul comando, bensì di un ordine basato sulla negoziazione, più spontaneo, imperniato su tanti attori, policentrico. Questo pensiero ha portato Miglio molto vicino alle posizioni libertarie, al modello americano che conosceva meno, ma verso il quale ha sempre nutrito una certa simpatia».
«GRANDE MAESTRO ANCHE A SINISTRA»
Per Francesco Enrico Speroni, europarlamentare della Lega Nord, «la Lega deve a Miglio il fatto di aver trovato con lui una sponda assai autorevole che ha combinato la forza popolare con la cultura accademica. Attraverso questa sinergia tra Bossi e Miglio, o se vogliamo tra Lega e Miglio, siamo riusciti a portare le idee dell’autodeterminazione e del federalismo all’attenzione dei cittadini, e non solo del mondo politico».
Riconoscimenti dei meriti di Miglio arrivano anche da certi ambienti intellettuali di sinistra. «Miglio è stato un grande maestro per molti politologi e filosofi della politica - prende atto Massimo Cacciari, esponente di punta della Margherita veneta e preside della Facoltà di Filosofia all’università San Raffaele di Milano -. È stato colui che ha introdotto in Italia, fra i primissimi, autori come Carl Schmitt e tanti altri. È stato poi fra i primi che tra gli anni 70 e 80 si sono impegnati per una rivisitazione della tradizione federalistica europea, internazionale e anche italiana, da Carlo Cattaneo in poi. Non solo: ha cercato di definire questa prospettiva federalistica nell’ambito di una riforma complessiva dell’ordinamento e del sistema costituzionale italiano, cioè non un federalismo che si riducesse a semplice decentramento dei poteri, tanto meno a semplice regionalismo, ma che comprendesse anche la riforma in parallelo di parlamento e governo. Questo è stato un grande insegnamento per molti di noi, anche per molti della sinistra critica degli anni 70».
«COLSE I LATI DEBOLI DEL SISTEMA ITALIA»
«Gianfranco Miglio - è il ricordo di Ettore A. Albertoni, docente di Storia delle dottrine politiche all’università dell’Insubria e presidente del Consiglio della Regione Lombardia - fu, da un lato, uno studioso molto attento delle istituzioni e fortemente critico dello Stato come si è realizzato in Italia; dall’altro, uno scienziato della politica molto capace di cogliere i lati deboli del sistema politico italiano, e quindi di diventare anche costituzionalista».
Ma Albertoni attribuisce a Miglio anche il merito di essere stato «un formidabile organizzatore di cultura»: «Aveva una enorme capacità - spiega - di ricavare collaboratori dalle università e dal mondo degli studi. In più, ha avuto un grande successo politico: era anche molto popolare, la gente lo sentiva vicino. E tutto questo gli ha procurato molte invidie. Teniamo anche conto che Miglio era un uomo di carattere, non dico cattivo, ma diceva pane al pane e vino al vino, e questo disturbava un po’ l’ambiente accademico ufficiale».