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    Predefinito Cosa c'è da negoziare ancora?

    La fortezza inglese

    Londra. Voleva essere la versione europea dell’attacco alle torri gemelle, hanno detto la polizia di Londra e i servizi segreti annunciando di avere sventato un attacco terroristico in progetto da tempo. Un enorme numero di vittime tramite esplosioni coordinate su aerei in partenza da Heathrow, Glasgow e Manchester, diretti negli Stati Uniti, a New York, Boston, Washington e Los Angeles. Le compagnie nell’obiettivo principale erano americane: Continental, United e American. Dopo lunghe indagini, in collaborazione con l’intelligence pachistana, dopo il via libera del premier, Tony Blair, e del ministro dell’Interno, John Reid, è scattata l’operazione che ha portato all’arresto di 24 musulmani tra Londra, la Thames Valley e Birmingham. Tutti cittadini britannici. Altri cinque sono ricercati.
    Paul Stephenson, vicecapo della polizia di Londra, ne è sicuro: “Abbiamo sventato un attentato di dimensioni inimmaginabili, parliamo di una vera e propria strage, ne siamo certi”. Reid ha spiegato che l’attacco terroristico sarebbe avvenuto tramite esplosivo liquido di diversa natura per far esplodere simultaneamente tre aerei per volta, per un totale di almeno dieci apparecchi.
    Aerei in volo dalla Gran Bretagna verso gli Stati Uniti che esplodono.
    Un modo per simboleggiare la volontà dei fondamentalisti di spezzare l’asse politico tra questi due paesi che in modo compatto affrontano oggi la lotta al terrorismo.
    Un attacco a quel pezzo di Europa che è oggi al fianco degli Stati Uniti. Tutte le principali forze politiche inglesi sono unite nell’esprimere sostegno all’operato delle forze dell’ordine e dei servizi segreti.
    Peter Clarke, vicecapo della divisione antiterrorismo, ha detto che si è trattato di un’indagine di “dimensioni globali” che ha coinvolto anche le autorità americane. E’ stato lo stesso Blair, appena partito per le vacanze con la famiglia ai Caraibi, a informare George W. Bush nella notte sull’operazione antiterrorismo: i due leader mantengono contatti con i rispettivi staff che si scambiano informazioni di intelligence. E ieri il presidente americano ha usato parole durissime per condannare l’attacco sventato: “Gli Stati Uniti sono in guerra contro i fascisti islamici e questo attentato sventato ce lo ha ricordato in modo netto. La nostra nazione deve continuare a combattere il fascismo islamico perché i fascisti islamici usano ogni mezzo per distruggere chi ama la libertà”.

    Reid e coloro che “non capiscono”
    Anche Reid, che guida il ministero dall’Interno da pochi mesi, è stato molto duro. Ha detto che questo è un messaggio per chi “don’t get it”, per chi non capisce qual è la vera minaccia del terrore. La lista è lunga, Reid ha citato i politici che si oppongono a tutte le misure antiterroristiche, i giudici europei che hanno pronunciato il “Chahal judgment”, che non permette di far sapere all’Home office se coloro che sono stati espulsi hanno raggiunto o no i loro paesi d’origine e i mass media che “apparentemente danno più importanza alle opinioni dei terroristi islamici più che ai musulmani eletti democraticamente, come Karzai in Afghanistan e Maliki in Iraq”. Se Reid è sicuro che le “menti del possibile attentato siano già nelle mani della giustizia” è anche vero che nulla vuole essere lasciato al caso. E alla domanda se fosse giusto mettere al massimo stato d’allerta il paese nonostante i principali sospetti terroristi siano già stati arrestati, Reid spiega che è importante che la popolazione sia informata e “vogliamo che i cittadini cooperino con le forze dell’ordine comunicando loro qualunque situazione sospetta”.
    William Hague, già leader del partito conservatore, oggi ministro ombra degli Esteri, chiede ai leader musulmani in Inghilterra di combattere ogni forma di sostegno al terrorismo. La piaga degli attentatori cresciuti in casa inglese non è affatto risolta. Sir Iqbal Sacranie, portavoce del Muslim Council of Britain, organizzazione ombrello delle comunità musulmane del paese, ha detto al Foglio che c’è bisogno di fatti e prove: “Certamente condanniamo atti di terrorismo, ma vogliamo che, al posto delle tante speculazioni dei mass media, siano portati alla luce i fatti e le prove in possesso della polizia e dei servizi segreti”. Non molto tempo fa, l’eccentrico commentatore conservatore Boris Johnson, ha scritto sul Daily Telegraph che è necessario capire cosa non sta funzionando in Gran Bretagna oggi. Quello che sembrava un modello multiculturale ha al suo interno giovani “nati negli ospedali di questo paese, educati nelle scuole britanniche, abituati a mangiare ‘fish and chips’” e poi progettano di mettere bombe, e una volta ce l’hanno già fatta, “nella capitale del proprio paese”.

    Da il Foglio del 11 agosto

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    Predefinito L'unità d'Israele

    Gerusalemme. “Connettete i punti” e tutto sarà chiaro. Benjamin Netanyahu, leader del Likud, ha commentato ieri l’attacco sventato a Londra durante una conferenza stampa a Gerusalemme, mettendo in chiaro – come ha già fatto molte volte in passato – che la guerra in corso non è un problema di Israele, ma di tutto l’occidente. “Un anno fa, pachistani cui era stato lavato il cervello hanno attaccato Londra.
    Erano sunniti. Oggi sunniti e sciiti radicali si sono messi in competizione per vedere chi uccide più infedeli. Se Israele scompare dalla faccia della terra, non soltanto questi fanatici non cambieranno i loro obiettivi, ma andranno persino più veloci”.
    La guerra è globale. Come scriveva ieri Victor Davis Hanson, columnist e saggista americano, “preoccupatevi per tutto l’occidente”, perché non è la guerra di Israele, è la guerra di tutti.
    “L’unica domanda – ha detto Netanyahu, ieri particolarmente ispirato nel suo colloquio con i giornalisti – è se coloro che chiacchierano tanto in occidente riusciranno a capirlo, e supereranno le loro assurde preoccupazioni su Israele e cominceranno a essere preoccupati per la loro sopravvivenza”.
    Quando la minaccia si fa vicina, il problema ritorna di tutti, ma questa attenzione che va e che viene non riguarda molto chi sott’attacco ci sta da sempre.
    Per questo le operazioni militari sono andate avanti anche ieri, pur se il governo ha detto che per l’ampliamento dell’offensiva di terra cerca di aspettare le decisioni diplomatiche.
    Ieri sono continuati i raid su Beirut, negli scontri a terra ci sono stati molti feriti tra i soldati di Tsahal, mentre il lancio di razzi di Hezbollah, ininterrotto come tutti i giorni dal 12 luglio, ha ucciso una madre e un bambino in Galilea. Gli israeliani, che fin dall’inizio di questa crisi hanno capito di che sfida si trattasse, sono a favore della guerra, sia a destra sia a sinistra, nonostante le perdite, nonostante i costi, nonostante gli spettri del passato che riappaiono, soprattutto d’estate. Amir Peretz, ministro della Difesa, e Shimon Peres, ex premier e oggi nel gabinetto di Ehud Olmert, entrambi laburisti, sono stati i più strenui difensori della legittimità di Israele a reagire all’“atto di guerra” di Hezbollah, e anzi hanno espresso il rammarico di fronte alle urla sproporzionate dell’Europa. Yuli Tamir, ministro dell’Educazione, nota come la più colomba del governo di Israele e addirittura nel Partito laburista, dice al Foglio con sicurezza: “Sì, certo, sono a favore di questa guerra. Non c’è altra alternativa se vogliamo almeno togliere dal raggio d’azione dei katiuscia il nostro territorio”. Le critiche non mancano, ci sono diverse teorie su come sono state condotte le operazioni, i tempi militari sono diversi da quelli della diplomazia, ma molti sottolineano che il confronto è meglio farlo subito, ogni settimana che passa va a vantaggio dell’arsenale di Hezbollah. E’ una questione di sopravvivenza, non di scelta. Come ha scritto Steven Erlanger sul New York Times, “destra o sinistra non conta, tutti sono a favore della guerra. Più il conflitto con il partito di Dio diventa duro, più gli israeliani vogliono andare avanti, e con più forza”. Le ipocrisie restano quasi tutte sul continente europeo, che si preoccupa di trovare sinonimi politically correct al jihad.

    I laburisti e Peace Now
    Charles Krauthammer ha scritto sul Washington Post che il governo americano è un po’ frustrato dalla performance non brillante dell’ultimo mese.
    Netanyahu dice al Foglio che “l’obiettivo finale è in comune. E’ nell’interesse degli Stati Uniti, di Israele, dell’Europa e anche del Libano che Israele abbia successo. So bene che l’orologio sta ticchettando, ma se si dà più tempo per raggiungere l’obiettivo, allora che l’orologio continui a ticchettare, in modo che il tempo sia usato nel modo più saggio rispetto alle mete che si vuole raggiungere”. Su Haaretz è comparsa una vignetta in cui si mostrava un membro di Peace Now che diceva: “Non ci fermeremo finché Beirut non sarà cancellata dalla mappa”, parafrasando le parole d’odio pronunciate dal leader iraniano, Mahmoud Ahmadinejad, sulla distruzione di Israele.
    Yariv Oppenheimer, che di Peace Now è segretario generale, ha spiegato che l’unico dibattito all’interno del gruppo riguarda le tattiche e i tempi, non il diritto di Israele a difendersi.
    Anche Yossi Beilin, leader di Meretz, partito pacifista, ha scritto sul Jerusalem Post che tutti si devono rendere conto che Israele ha diritto a “uno stato sicuro e democratico”, anche se ha sottolineato che Hezbollah, molto più equipaggiato di quanto si pensasse, rischia di portare Israele nella trappola della guerra lunga.

    Da il Foglio

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    Predefinito Il volontario ucciso

    Gerusalemme. Un ragazzo di venticinque anni, Angelo Frammartino, militante di Rifondazione comunista e volontario italiano a Gerusalemme impegnato in un progetto di solidarietà della Cgil-Arci, è stato ucciso ieri sera con tre coltellate alla schiena da uno sconosciuto che, secondo le prime informazioni, aveva tratti somatici di un arabo. Il ragazzo, residente a Monterotondo vicino a Roma, stava passeggiando assieme ad alcune donne nei pressi delle mura della Città vecchia di Gerusalemme.
    La notizia è stata data da Shmulik Ben Rubi, portavoce del locale distretto di polizia, ed è stata poi confermata dal nostro ministero degli Esteri. Secondo le prime ricostruzioni dell’accaduto, il giovane volontario è stato aggredito proprio vicino alla Porta dei fiori da uno sconosciuto che poi è riuscito a fuggire. Sempre secondo le prime indiscrezioni che trapelano dalle indagini, l’attentatore “è un giovane palestinese”.
    Le forze dell’ordine israeliane hanno inoltre arrestato tre persone che potrebbero essere coinvolte nell’assassinio. La motivazione politica del gesto è stata la prima pista scelta dalle forze dell’ordine, visto che in passato sono successi analoghi episodi a Gerusalemme. Il portavoce della polizia ha parlato esplicitamente di “un attacco terroristico”. Il gruppo stava percorrendo la strada intitolata al Sultano Solimano, quando l’uomo li ha presi alle spalle, pronunciando alcune parole e colpendo alla schiena l’unico maschio.
    L’attentatore, nel fuggire, ha lasciato sul luogo dell’omicidio l’arma utilizzata. Sono subito giunti sul posto i soccorritori della Croce rossa israeliana (Magen David Adom), ma il loro intervento non è servito a salvare la vita del ragazzo italiano, morto per la gravità delle ferite riportate.
    Un infermiere che ha prestato i primi soccorsi ha detto che la vittima è stato colpita tre volte, due alla schiena e una alla nuca. L’area è stata recintata da posti di blocco e i controlli hanno subito riguardato tutta la città, concentrandosi soprattutto nella zona in cui vive la popolazione palestinese. Soltanto tre settimane fa, un analogo attentato: l’accoltellamento di uno studente di una Yeshiva, cioè di una scuola ebraica, rimasto però ferito soltanto in modo lieve. In quel caso l’aggressore, arrestato poco dopo l’assalto, aveva spiegato di essere stato spinto al gesto dalla rabbia per
    l’intervento israeliano in Libano.

    Da il Foglio

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    Predefinito Il ponte iracheno

    Baghdad. In Iraq si è svolta la più grande manifestazione a favore di Hezbollah di tutto il mondo islamico. L’ha organizzata Moqtada al Sadr, il leader radicale sciita che ha una sua milizia – l’esercito del Mahdi – e un suo ruolo politico: cinque ministri al governo e un gruppo di trenta parlamentari. Uno stato dentro lo stato, che Dan Senor, ex consigliere dell’Amministrazione Bush in Iraq, ha definito, per l’appunto, il prossimo Hezbollah.
    Il legame tra Sadr e l’Iran è da sempre stretto, ora ancora di più: viaggi a Qom, aiuto militare, condivisione delle strategie.
    All’indomani della strage di Samarra, alla fine di febbraio, mentre l’ayatollah Ali al Sistani lanciava un appello agli sciiti, chiedendo di non reagire in modo violento contro i sunniti, Sadr ignorava indisturbato sia l’appello sia il coprifuoco del governo e i suoi uomini – almeno diecimila uomini – inondavano le strade.
    Così, per la prima volta, è stata formata una milizia sunnita “di difesa”: l’ha costituita il vicepresidente iracheno, Tareq al Hashemi, “per difesa personale e del quartiere”. All’inizio della settimana, un’operazione militare congiunta di americani e iracheni a Sadr City, roccaforte degli sciiti radicali – due ore di combattimenti, un raid aereo due guerriglieri uccisi - ha fatto infuriare Moqtada, che ha rivendicato il suo ruolo politico.
    Anche il premier, Nour al Maliki, ha condannato l’incursione: impedisce il dialogo di unità nazionale, ha detto, ma sa bene che gli uomini di Sadr sono il principale elemento di destabilizzazione, anche per la costituzione di un unico, ufficiale apparato militare.
    Ieri ci sono stati scontri tra gli abitanti del quartiere sunnita di Salam, nel nord di Baghdad, e i miliziani di Sadr, dopo che un attentato nei pressi del mausoleo di Ali, nella città santa di Najaf, ha causato almeno 35 morti.
    I terroristi legati ad al Qaida attaccano gli sciiti e i loro luoghi di culto, Sadr mobilita il suo esercito. Il suo finanziatore è l’Iran, il suo punto di riferimento è Hezbollah.
    Crea uno stato nello stato iracheno, mostrando la consueta ambiguità del movimento a doppia testa, armi e politica. Ex ambasciatori ed ex generali di ritorno dall’Iraq dicono che la guerra civile è realtà e che gli americani hanno fatto un bel disastro laggiù.
    Ma non sottolineano che Sadr è il ponte in Iraq della volontà jihadista dell’Iran.

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    Predefinito Il corno di al Qaida

    Mogadiscio. Nel Corno d’Africa gli estremisti avevano ottenuto un’importante vittoria conquistando Mogadiscio, con le Corti islamiche che avevano sconfitto i signori della guerra della capitale, due mesi fa.
    Ora la frangia talebana delle milizie, guidata da sheik Hassan Dahir Aweys, presidente di una sorta di parlamentino dei fondamentalisti, vorrebbe impadronirsi di tutta la Somalia applicando la legge coranica.
    Ma gli islamici “moderati” del capo dell’esecutivo delle Corti, sheik Sharif Ahmed, hanno convinto gli europei, a cominciare dall’Italia, a trattare con i nuovi padroni di Mogadiscio.
    Intanto il presidente, il Parlamento e il governo somalo rischiano di scomparire di fronte all’avanzata delle Corti. Così in soccorso alle istituzioni di Baidoa, sede dell’esecutivo, sono arrivati i militari del governo etiope.
    Proprio contro i “crociati” etiopi i falchi come Aweys hanno scatenato la propaganda per la guerra santa, auspicata anche da al Qaida che sogna un califfato in tutto il Corno d’Africa.
    L’Eritrea, pur di contrastare l’Etiopia, rivale storica dopo una lunga guerra d’indipendenza, appoggia le Corti inviando aerei pieni di armi e addestrando i miliziani.
    Le milizie contano su un contingente “straniero” composto da 3.200 uomini.
    Duemila sono guerriglieri addestrati da consiglieri eritrei, il resto è composto da volontari della guerra santa internazionale legati ad al Qaida.
    Aweys è ricercato dagli Stati Uniti per collusione con il terrorismo internazionale ed è un vecchio nemico del presidente Yusuf. Ma anche l’Eritrea ha una spina nel fianco composta da un variegato fronte jihadista cresciuto dopo il 2001 con l’arrivo dei veterani dello sconfitto fronte talebano in Afghanistan.
    La principale formazione è conosciuta come Jihad islamica eritrea guidata da sheik Khalil Mohammed Amer, con il quartier generale a Khartoum, la capitale sudanese. Amer, in una delle sue rare interviste, ha difeso la lotta armata in nome “del diritto di praticare la sharia”. Anche il Sudan, ex rifugio di Osama bin Laden, è nelle mire di al Qaida che predica il jihad contro il piano di pace dell’Onu nel Darfur. Gli Stati Uniti dal 2002 hanno una task force nel Corno d’Africa e negli ultimi tempi hanno lanciato diversi raid segreti in Somalia per catturare latitanti di al Qaida.

    Da il Foglio

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    Predefinito Operazione Bojinka

    Roma. Ieri – a poche ore dall’annuncio di Scotland Yard sulla serie di attentati sventati in Gran Bretagna – un giovane eritreo avrebbe tentato di dirottare un aereo della Qatar Airways in volo dalla capitale giordana, Amman, a Doha. Secondo quanto raccontato ad al Jazeera da testimoni, cinque minuti dopo il decollo si sarebbero sentiti colpi di arma da fuoco e l’uomo sarebbe stato visto dirigersi verso la cabina, ma sarebbe stato sopraffatto da assistenti di volo e passeggeri. Il governo giordano minimizza. Per il portavoce Nasser Joudeh l’incidente “è stato soltanto il risultato di una lite, e l’uomo non era armato”. I resoconti di chi c’era parlano però con certezza di un contenitore con del liquido sospetto dentro che ha costretto il pilota a compiere per cautela un immediato rientro.
    Passano proprio per i contenitori di liquido sospetto i nuovi sforzi – e le ansie – dei responsabili della sicurezza contro i piani dei terroristi.
    Ieri negli aeroporti americani è entrato in vigore d’urgenza il divieto di portare a bordo bevande, gel per i capelli, profumi, shampoo, creme abbronzanti e oggetti simili.
    Il piano appena andato a vuoto in Gran Bretagna è la riedizione, undici anni più tardi, dell’“operazione Bojinka” (Bojinka è un termine onomatopeico che i veterani del jihad afghano contro l’Armata rossa usavano per dire “grande botto”), il primo tentativo di al Qaida di compiere un attentato con i suoi marchi di fabbrica: attacchi multipli e con il massimo numero di vittime.
    La sola differenza è che gli aerei americani presi di mira nel 1995 erano quelli in partenza da scali del sud-est asiatico. Secondo uno dei terroristi arrestati all’epoca nelle Filippine, il pilota commerciale Abdul Hakim Murad, Ramzi Yousuf, l’“artificiere” del gruppo, responsabile anche dell’attentato al World Trade Center del febbraio 1993 e ora detenuto negli Stati Uniti, era diventato un esperto nel confezionamento e nell’uso di esplosivi liquidi, che passano più facilmente i controlli all’aeroporto. E intendeva viaggiare in Egitto, Francia e Algeria per condividere la sua competenza con altri compagni del jihad.
    Quanto Yousuf fosse già abile l’ebbe a scoprire un businessman giapponese sul volo Manila-Okinawa, saltato in aria assieme al sedile sotto cui era stata piazzata una carica minore.
    Erano le prove generale dell’operazione Bojinka, un’azione simile a quella sventata ieri.

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    Predefinito Il sonno europeo

    Roma. “Per fortuna è stato sventato l’attentato, ma è un bel ‘reminder’ che la minaccia terroristica c’è”.
    Emma Bonino, ministro per il Commercio internazionale e per le Politiche europee, dice al Foglio che però il campanello d’allarme suona soltanto quando la minaccia è vicina: “Qualche settimana fa, ci sono stati più di trecentocinquanta morti in un attacco terroristico a Bombay, ma a parte la notizia data il primo giorno tutti se ne sono dimenticati”.
    Eppure anche quell’episodio fa parte della guerra al terrore. “Il fatto che sia stato evitato l’attacco agli aerei da Heathrow significa che c’è stata più sinergia e più coordinazione nelle varie intelligence, e questo è un passo positivo”, dice Bonino con un certo ottimismo, visto che proprio il ruolo dei servizi segreti in Europa ha scatenato molte polemiche, soprattutto per quanto riguarda i voli della Cia. Ma la tendenza a sottostimare la potenza del fondamentalismo è comune nel nostro continente: “In Sinai, in India e poi in medio oriente: ci sono stati tanti episodi. C’è uno schieramento esplicito, che dichiara il suo obiettivo, e poco importa che lo faccia per interposta persona, che sia Hezbollah o Hamas”. Proprio per questo Marco Pannella e il Partito radicale transnazionale hanno convocato per domani una “grave conferenza stampa”: “Sproporzionata apparve per il nostro ministro degli Esteri la ‘reazione’ di Israele, ma sproporzionata a che, di grazia?”. La risposta, secondo Pannella, è che “la replica delle due torri gemelle di New York sarà Israele. Il 22 agosto, come ipotizza Bernard Lewis, l’11 settembre”.
    Ma la capacità dell’Europa di reagire è poca. Il Vecchio continente non sa parlare con una voce sola, subisce le derive nazionaliste, “un contro l’altro armato”, dice Bonino. Che porta l’esempio della miopia europea sul tema dell’energia. “A giugno dell’anno scorso, durante la presidenza dell’Inghilterra, era stata fatta la richiesta di una Authority per l’energia, ma non è neppure arrivata al Consiglio. Poi un giorno ci svegliamo e ci accorgiamo che la Russia, da cui dipendiamo, si è fatta un bell’accordo sul gas con l’Algeria e cominciamo a preoccuparci”. In questo modo non si va molto avanti, ma certo molto dipende anche dalla possibilità di diventare interlocutori credibili, in tutti gli ambiti. Bonino ricorda una frase che le piace molto, la pronunciò John F. Kennedy: “L’America non negozia per paura, ma non ha mai paura di negoziare”.
    Gli elementi di negoziazione devono essere chiari, e sono a maggior ragione importanti quando – come nel caso dell’energia, ma anche sulla questione del nucleare iraniano – si deve trattare con un colosso come la Russia, che ha un potere contrattuale alto e che ha una sua politica nei confronti di Teheran e del medio oriente affatto trasparente.
    “L’ipotesi dell’isolamento è impossibile, anzi, quasi è Mosca che isola noi, ma ci vogliono strumenti che facciano sentire i russi ‘stakeholder’ reponsabili”, cioè coinvolti. L’adesione alla Wto è uno di questi elementi, ma lo stallo nei negoziati di Doha ne ha adombrato l’efficacia.

    “Ma Gerusalemme si dia un progetto politico”
    Le istituzioni internazionali sono, secondo Bonino, una variabile importante per conseguire molti obiettivi politici. Lo stallo al Consiglio di sicurezza con la risoluzione per il Libano non è un bel vedere. Per chi, come il ministro per il Commercio internazionale non ama le soluzioni puramente militari, il silenzio della diplomazia lascia un po’ d’amarezza. “Ma Israele non ha altra scelta. Attaccati da nord e da sud, noi che faremmo? – chiede – Come ha detto anche Hillary Clinton, che cosa farebbe l’America se il Messico entrasse nel suo confine e facesse quel che ha fatto Hezbollah?”.
    Certo, ci vuole cautela nella tattica, “ma loro (gli israeliani, ndr) stanno già attenti, non è certo un governo guerrafondaio”.
    Dopo aver espresso la sua solidarietà, Bonino però pone una domanda al governo di Gerusalemme: “Qual è il suo progetto politico? Qual è il soft power di un paese che vive in un contesto tanto ostile? Come pensa di sopravvivere?”.
    Bonino una risposta ce l’ha da tempo: Unione europea, o Nato. Un’inclusione che potrebbe salvare Israele dalla solitudine. “Potrebbe essere diverso per tutti se a essere sotto attacco fosse un membro dell’Europa”, dice, ed è rassicurante credere alle sue parole.

    Da il Foglio

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    Predefinito I simboli iraniani

    Roma. In Iran i simboli non sono coincidenze.
    Quando l’ayatollah Khomeini annunciò “se i divoratori del mondo (le potenze occidentali, ndr) combatteranno la nostra religione, noi combatteremo loro e tutto il loro mondo e non ci fermeremo fino al loro annientamento” era l’anniversario della nascita del profeta. Lo stesso giorno, il 31 marzo, scelto dal presidente Ahmadinejad per la sua lettera a George Bush: quale data più propizia per inveire contro la politica imperialista e invitare il presidente americano alla conversione, mettendolo in guardia dalla fine inevitabile dei governi crudeli?
    Non è un caso che il primo anno di Ahmadinejad sia stato elevato ad “anno del profeta”, né che per le sue più virulente invettive contro Israele il presidente abbia scelto date particolari: la “settimana della sacra difesa”, in cui si commemorano i martiri della guerra Iran-Iraq, il giorno di al Quds, eletto da Khomeini per testimoniare la solidarietà alla causa palestinese o il
    ventisettesimo anniversario della Rivoluzione islamica.
    L’11 febbraio, quando la Repubblica islamica ricorda la vittoria della sua rivoluzione inondando“spontaneamente” le piazze, Ahmadinejad ha chiesto all’occidente di “rimuovere quello che ha creato sessant’anni fa” perché in caso contrario “se ne occuperanno la nazione palestinese e altre valorose nazioni”. Ed è il 3 giugno, anniversario della morte di Khomeini, che Ahmadinejad torna a premere sul tasto dell’orgoglio nazionale sottolineando, a proposito del nucleare, che “negoziare un diritto inalienabile è equivalente a negoziare la propria indipendenza”.

    C’è poco da sorprendersi dunque che Teheran abbia scelto di rispondere alla comunità internazionale a proposito del pacchetto di incentivi europei il 22 agosto. Ahmadinejad, assurto a simbolo della lotta panislamica contro Israele e Stati Uniti, è più forte tanto più internazionalizza la sua crisi. Replicare all’“arroganza delle grandi potenze” il 22 agosto, il ventisettesimo giorno del mese di Rajab, quando i musulmani commemorano l’ascensione di Maometto al cielo, significa rievocare una dimensione etica e apocalittica.
    Con la sua insistente retorica panislamica Ahmadinejad sembra cercare di elevarsi da semplice rasoul (messaggero) a nabi (profeta) e rendersi ancora una volta protagonista proprio il giorno del viaggio celeste di Maometto non potrà che consolidare la sua aura di condottiero.

    “La gloriosa nazione al suo posto nel mondo”
    Se l’ayatollah Khamenei sposa la politica dell’apocalisse – descritta da Bernard Lewis (sul Foglio del 9 agosto) – e l’8 agosto, durante la rievocazione della nascita dell’imam Ali, dichiara che “è un dovere dell’intera comunità islamica difendere Hezbollah”, l’ala pragmatica teme l’avventurismo di Ahmadinejad. Hassan Rowhani, ex negoziatore nucleare dell’era Khatami, ha criticato l’“espansionismo islamico” della nuova amministrazione. “Smetti di contemplarti. La situazione diventerà molto dura”, ha detto rivolto al presidente iraniano Said Hajarian, ideologo del moribondo Partito riformista che ha paragonato Ahmadinejad all’ultimo re sassanide Yazdgerd. Yazdgerd perse la guerra decisiva contro gli arabi: travolto dalla superbia non si accorse che il suo impero si stava sbriciolando, il suo esercito si arrese e lui fu ucciso da un mugnaio. Esortazioni che non hanno voce al Kayhan. L’ala dei conservatori più duri, rappresentata da questo quotidiano e dal suo direttore Hussein Shariatmadari, non teme ma plaude alla linea del presidente. Secondo Kayhan, da quando Ahmadinejad è entrato in gioco “la gloriosa nazione iraniana ha ripreso il suo posto nel mondo”. Kayhan abbraccia tutte le minacce verso Gerusalemme.
    Per i falchi l’Iran non dovrebbe rispondere alla comunità internazionale dopo la “scandalosa” e “illegale” risoluzione 1.696. Teheran invece onorerà il suo patto, ha chiarito il portavoce del governo Gholamhossein Elham, dopo che voci dal ministero degli Esteri e il caponegoziatore Ali Larijani avevano ventilato una chiusura definitiva. Lo fa, secondo fonti vicine al Consiglio per la sicurezza nazionale, perché interagire fa comunque guadagnare tempo decisivo agli esperimenti nucleari e perché Mosca e Pechino devono ancora scegliere da che parte stare. Intanto la vulgata iraniana resta la stessa.“La tecnologia iraniana è pacifica. Continueremo con perseveranza.
    Svilupperemo le nostre potenzialità e sarà solo il loro (delle potenze occidentali, ndr) comportamento a obbligarci a limitare le ispezioni dell’Agenzia atomica”, ha detto Larijani lasciando intendere che, se sanzioni infine saranno, il processo sarà più doloroso per l’occidente che per l’Iran.

    Da il Foglio

    saluti

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    Predefinito Fascisti islamici

    “Gli Stati Uniti sono in guerra contro i fascisti islamici e questo attentato sventato ce lo ha ricordato in modo netto. La nostra nazione deve continuare a combattere il fascismo islamico perché i fascisti islamici usano ogni mezzo per distruggere chi ama la libertà”.
    George W. Bush
    (10 agosto 2006)

    saluti

  10. #10
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    Predefinito La quinta colonna di al Qaida

    Una parte dell’occidente è letteralmente impazzita. Si comporta nella guerra al terrorismo islamista precisamente come si comporterebbe il cosiddetto e fatale “nemico interno”, la quinta colonna di al Qaida.
    Ecco alcuni casi probanti.
    -Il vicepresidente del Consiglio italiano, Francesco Rutelli, sostiene che la colpa della cospirazione per ammazzare nei cieli o sulle città americane due, tremila persone, è della guerra in Iraq (2003). ---Gli fanno eco numerosi commentatori, alcuni dei quali aggiungono che qualche seria responsabilità è nella guerra di autodifesa di Israele contro gli Hezbollah e i loro mandanti siriani e iraniani.
    Un progetto islamista, identico, era stato sventato nel 1995 nelle Filippine, regnante Bill Clinton su una politica estera e di sicurezza disattenta, negazionista, che ha reso possibile la tragedia dell’11 settembre.
    Questo solo fatto, che dimostra la lunga gittata e la spietata risolutezza dell’assalto maomettano alle carovane, ridicolizza i giudizi di Rutelli e degli altri appeasers in Europa e nel mondo, ma induce a pensare e a domandarsi: sono tonti o lavorano consapevolmente per una resa, magari in base a considerazioni opportunistiche di politica interna?
    Dietro questi giudizi di inaudita stupidità c’è un’insufficienza di cultura politica o la deliberata volontà di sfruttare la rendita di posizione pacifista, costi quel che costi? Buona fede o cinismo?
    Il risultato è lo stesso, ma sarebbe interessante sapere su quale delle due leve, entrambe destinate a pesare sulla pelle degli altri e sul nostro comune destino, si appoggiano gli smemorati banditori della “pace per il nostro tempo”, i nuovi Chamberlain.
    -Un altro caso. Il giornale italiano che ha fatto di più per smantellare la rete efficiente dei servizi segreti militari italiani, in collaborazione con la procura e con il tribunale di Milano, che i tipetti come quelli del complotto di Londra li libera in quanto “guerriglieri” e non “terroristi”, mentre dà la caccia agli agenti del Sismi e della Cia, è Repubblica. E non si contano le polemiche aspre, ostinate, contro la deriva illiberale di Blair e di Bush, accusati, d’intesa con la sinistra laburista e con l’ala frivola o demente del partito democratico americano, di voler trasformare le nostre società in una grande Guantanamo o in un Grande Fratello orwelliano.
    Ora che i servizi di Blair e Bush hanno sventato con i loro metodi l’apocalissi dei cieli prevista quattro giorni fa dal vecchio saggio di Princeton, quel Bernard Lewis delle cui tesi sul grande attentato del 22 agosto abbiamo riferito su queste colonne per tempo, Repubblica elogia la capacità e l’efficienza dei servizi occidentali ma solo per dannare di nuovo la politica di guerra ai dispotismi canaglia che promuovono il terrorismo, per la democrazia e la libertà in medio oriente.
    I fatti dimostrano che bisogna intercettare le reti del terrore islamista, che occorre agire con una robusta dose di intelligente e scaltra durezza nella caccia alle fonti e negli interrogatori, e che nella nuova situazione determinata dalle politiche di Blair e Bush, compresa la mobilitazione generale nella guerra al terrorismo islamista, qualche risultato di vita e di libertà è possibile ottenerlo, nonostante il colossale effetto di intimidazione che la strage mancata produce comunque sulle nostre vite e sul nostro sistema di vita. I fatti ancora una volta ridicolizzano i sofismi sghembi di questi strenui costruttori di un’opinione pubblica antioccidentale, che essi vogliono piena di odio di sé e di spirito di rassegnazione di fronte alla guerra di civiltà che è in corso contro i fascisti islamisti. Di nuovo la domanda: perché stravolgono i fatti, perché parteggiano per il nemico?
    -Un altro caso, Israele.
    Lasciamo stare il letterato antisemita norvegese che chiede lo scioglimento dello stato d’Israele come entità sionista o razzista, confermando la incredibile e incresciosa regola per cui da noi è possibile dannare l’eredità giudaica e quella cristiana, ma la cultura della morte islamista non si può toccare nemmeno con le vignette o con gli articoli di giornale, pena processi pubblici e ostracismo per il reato di islamofobia. Veniamo al senso della politica europea e liberal dopo l’inizio della guerra autodifensiva di Israele contro gli Hezbollah. Il paese che si è ritirato dal Libano sei anni or sono, che si è ritirato da Gaza un anno fa, che ha formato un governo di centro sinistra impegnato al ritiro dalla Cisgiordania, che ha dovuto subire morti, feriti e profughi interni per un milione e mezzo di persone in seguito ai bombardamenti dei guerriglieri mantenuti dall’Iran e dalla Siria nel Libano del sud; il paese che è apertamente minacciato di annientamento da un potere rivoluzionario e fanatico incontrollato, da un uomo profetico e allucinato come Mahmoud Ahmadinejad, bene, questo paese si è sentito rivolgere nell’ultimo mese solo appelli a fermarsi, a cessare il fuoco, a negare il proprio diritto di difendersi di fronte a un nemico che si è trincerato, riarmato fino ai denti e tragicamente rafforzato in sei anni di indifferenza o di complicità dell’opinione dominante nelle classi dirigenti europee. Siamo di fronte all’ipotesi della prima vera sconfitta militare e politica di Israele contro un nemico peggiore del nazionalismo panarabista, contro un nemico islamista che dopo gli ebrei vuole affrontare i “crociati” cristiani occidentali, e invece di lavorare con passione e intelligenza per evitare questo sconcio risultato i leader europei e i pacifisti di tutto il mondo dannano Olmert e lo sproporzionato uso della forza da parte di Tsahal.
    Che cosa c’è dietro quello che Angelo Panebianco ha chiamato “il rifiuto europeo di Israele”, sulla scorta del “rifiuto arabo” che è costato sessant’anni di guerra e di instabilità e di lutto nella regione e nel mondo?
    L’espressione “nemico interno” è impronunciabile, non è culturalmente, politicamente, storiograficamente corretta.
    Ma prima di impiccarci alla corda della nostra colpevole stupidità, del nostro comodo negazionismo, delle nostre buone maniere, prima di salire su un aereo (come dice l’editoriale del WSJ che pubblichiamo in seconda pagina), mandiamo un pensiero grato ai nemici interni.
    Sono molto pericolosi.

    Ferrara

    saluti

 

 
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