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Discussione: Le brame allo specchio

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    Predefinito La concupiscenza ai tempi di David, ....

    ....Yusuf e Shahrazad

    di Siegmund Ginzberg

    Da che mondo è mondo ci raccontano storie di concupiscenza sessuale che hanno a che fare con la politica e col potere. E spesso la cosa su cui si concentra l’attenzione del narratore non è il fatto in sé – normale e banale – quanto il rischio che si venga a sapere, “finisca sui giornali o in tv” diremmo oggi, l’eco che può suscitare. Nella Bibbia, uno dei fatti più gravi riguarda un re – e che re! David “vide una donna che faceva il bagno”, “la donna era molto bella”, “mandò dei messi a prenderla”, “ella venne da lui ed egli giacque con lei” (Samuele, 11). Il peccato non è la concupiscenza. E’ quello che il re, approfittando della sua posizione, fa per mettere a tacere lo scandalo, quando lei gli fa sapere che è rimasta incinta. Il suo problema è che il marito, impegnato di giorno in guerra, si ostina a non giacere con la moglie anche quando il re lo richiama apposta dal fronte e gliene dà la possibilità. Passa la notte all’addiaccio. “L’Arca di Dio, Israele e Giuda bivaccano sotto le tende…, ed io dovrei andare a casa mia, per mangiare, bere e dormire con mia moglie?”. Al re, per mettere a tacere le voci che non mancheranno, non resta che mandarlo a morire, scrivendo al suo comandante: “mettilo in prima linea, dove il combattimento è più aspro, poi abbandonalo… che muoia”. Quanto a Betsabea, non ci viene detto se poteva dire di no, se ci sia stata volentieri o di malavoglia, sappiamo solo che, rimasta vedova, si fa sposare, gli dà un primo figlio su cui si abbatte la vendetta del Signore per l’adulterio, poi, perdonati tutti, un secondo, che viene chiamato Salomone, dandosi molto da fare perché venga riconosciuto come erede al trono. Se è vittima della concupiscenza dei potenti, è anche abbastanza astuta per trarne un vantaggio personale e politico.
    La Bibbia è un testo sacro denso di concupiscenze carnali ed erotismo. Concupiscenze simmetriche, come nello splendido Cantico dei Cantici, forse il più sensuale testo di tutti i tempi, oppure asimmetriche, e quindi fonte di guai. David concupisce Betsabea, i secchioni concupiscono la giovane e bella Susanna, Giuseppe viene concupito dalla moglie di un potente d’Egitto, Putifarre. Donne concupite da uomini, uomini concupiti da donne, uomini concupiti da uomini, angeli di sesso incerto concupiti dai sodomiti. Ma a parte quest’ultimo episodio, dove l’offesa, contrariamente all’interpretazione corrente, potrebbe non avere niente a che vedere col sesso ma riguardare la xenofobia nei confronti dello “straniero”, a bene vedere però tutte le concupiscenze asimmetriche hanno qualcosa a che fare con il potere, anzi con l’immagine del potere, quel che del potere diranno la voce del popolo oppure i media.
    Sesso, potere e pettegolezzo sono il sottofondo anche dell’assai più erotica e sensuale versione della storia di Giuseppe (Yusuf) concupito fornitaci da un altro testo sacro, il Corano. C’è molto sesso e desiderio carnale nel Corano, forse quanto e più che nella Bibbia. Ma c’è chi ha sostenuto che “in nessun altro punto il Corano è ricco di erotismo come in questo”. Bello è Giuseppe, bella e affascinante la sua padrona. Tra i due potrebbe anche nascere una storia d’amore, un banale adulterio. Quel che li separa è che lui è un sottoposto, un servo raccattato in fondo al pozzo in cui l’avevano gettato i suoi fratelli, lei la moglie di uno degli uomini più potenti d’Egitto, una che potrebbe fargli fare carriera, o distruggerlo. “Ora la donna, nella cui casa egli abitava, gli chiese che si desse a lei, e chiuse tutte le porte, e disse: ‘Vieni qui!’” (Corano, XII, 22 e seguenti). E lui ci starebbe anche, non fosse che la cosa è sconveniente per il tipo di rapporto sociale che c’è tra i due, e per l’impatto che la cosa potrebbe avere se fosse risaputa. Ad uno che verrà nominato (sarebbe troppo dire “eletto”) viceré d’Egitto, insomma è destinato ad un’importante carica pubblica, non si addicono peccatucci che potrebbero essere veniali per altri. “Ed essa lo desiderava, e la avrebbe desiderata egli pure…”. Una delle principali differenze nella narrazione della Bibbia e in quella del Corano è che, mentre nel testo sacro degli ebrei non c’è la minima traccia della possibilità che Giuseppe ceda alla tentazione, e il suo rifiuto è categorico, in quello dei musulmani è molto più “umano”, ha bisogno di un aiuto divino per resistere alla più banale delle tentazioni, non perché abbia un senso particolarmente forte del peccato, ma perché cedere lo priverebbe della possibilità di svolgere il ruolo a cui è predestinato, far valere le sue capacità manageriali e politiche. “Allontana da me la loro astuzia, altrimenti cederò per giovanile impulso alle loro voglie, e sarò fra gli ignoranti”, prega il suo Dio Giuseppe insidiato. Ad un certo punto arriva persino a “confessare” che un pensierino gli sarebbe potuto passare per la mente: “Ma non voglio dichiararmi del tutto innocente, ché l’anima appassionata spinge al male” (Corano, XII, 53).
    Nella Bibbia non c’è traccia di “quel che la gente avrebbe potuto pensare”, la resistenza di Giuseppe appare puramente morale. Un’intera parte della sura di Yusuf e Zulàika è invece dedicata al diffondersi delle voci, al ruolo della chiacchiera (anche senza ancora tv e giornali) e ai possibili effetti sull’opinione pubblica. La signora Putifarre sente il bisogno di giustificarsi di fronte al pubblico, prima ancora che di fronte al marito. “E dicevano certe donne per la città: ‘La moglie del principe è presa d’amore per il suo garzone! Egli l’ha infiammata d’amore: a noi sembra che si stia chiaramente traviando!’. E quando essa udì le loro dicerie segrete, andò a invitarle, e preparò loro un banchetto, diede a ciascuna di loro un coltello, poi disse a Giuseppe: ‘Esci e mostrati ad esse!’. Quando quelle lo videro, grandemente lo ammirarono, e si tagliuzzavano le mani (coi coltelli, per l’emozione). E dicevano: ‘Dio ce ne guardi! Costui non è un uomo, costui è un angelo sublime del cielo!’.
    E la donna disse loro: ‘Ecco, questo è colui pel quale mi biasimavate; sì io ho bramato ch’egli si desse a me, ma costui ha rifiutato. Ma se non farà quello che voglio, sarà imprigionato e sarà tra i miserabili!”.
    Un caso bell’e buono di sexual harassment. Ma con un tocco in più. Nella versione del Corano, il bel Giuseppe diventa oggetto di concupiscenza collettiva, non più solo individuale. E’ l’antesignano di tutti i sex-symbol che fanno sognare i concupiscenti senza speranza della nostra epoca sugli schermi, sulla carta patinata e i cartelloni pubblicitari. Inaccessibile, da guardare ma non toccare. Ed è (oltre, e ancora prima di essere oggetto di desiderio) anche uno status symbol, alla portata solo di chi ha abbastanza potere da permettersi di voler incarnare una concupiscenza che per i più, per le altre e gli altri che tanto potere non ce l’hanno, rimarrà solo una fantasia erotica.
    Giuseppe ha a che fare anche con la moda. Altra differenza, nella storia come viene presentata nella Bibbia e nel Corano, riguarda un capo di abbigliamento. Nella Genesi (39,7, seguenti), Giuseppe, per sottrarsi alla signora che lo concupisce scappa nudo, lasciandole in mano la tunica cui lei si era aggrappata. Lei la conserva come prova per giustificarsi col marito, anticipando di molti millenni quello che la mamma di Monica Lewinsky fece col famigerato vestito della figlia concupita (o concupiente) Bill Clinton.
    Nella versione coranica, assai più vivace e più ammiccante, questa si trasforma invece proprio nella prova per scagionare Giuseppe. Sembra una detective story: “Se la tunica è stata strappata pel davanti, essa ha ragione e lui è un mentitore. Se invece la tunica è strappata per di dietro, è lei che mente ed egli è un uomo sincero”.
    Putifarre, capo delle guardie di Faraone, non dovrebbe avere più dubbi
    “quando vide che la tunica era stata strappata da dietro”. O comunque la cosa dovrebbe acquietare le sue preoccupazioni circa la propria immagine pubblica. Nella Bibbia, libro di un popolo abituato alle maldicenze senza fondamento ai propri danni, Putifarre crede senz’altro a quel che gli dice la moglie: “Quel servo ebreo, che tu ci hai messo in casa, è venuto da me, per divertirsi con me. Ma appena alzai la voce e cominciai a gridare, mi ha lasciato qui la veste ed è fuggito”. Nel Corano è meno credulo, meno portato a farsi suggestionare dalla propaganda antisemita corrente. Distingue, verifica, accerta, scagiona. Ma poi, stranamente, fa mettere in prigione Giuseppe anche se la conclusione delle indagini lo scagiona:
    “In seguito decisero di imprigionarlo, malgrado i segni che avevano visto, per un certo tempo” (Corano, XII, 34-35).
    Che fosse costretto anche lui, da politico qual’era, a seguire i venti che tiravano, dare addosso all’israelita per accontentare gli estremisti?
    Le variazioni sul tema sono infinite.
    Non si contano sequel e interpretazioni. Sia nella tradizione letteraria islamica che in quella occidentale, l’episodio è stato riscritto innumerevoli volte. Via via esaltando la purezza e la dirittura morale di Giuseppe, denunciando la perfidia della sua aspirante seduttrice, o, al contrario, difendendo la sincera passione di lei. La storia è stata letta, riletta e rifatta in chiave ancora più esplicitamente erotica, o addirittura di amore mistico per Dio, come nei poeti persiani; di tradizionale moralismo o di eterna messa in guardia contro la “donna demoniaca”, oppure, all’estremo opposto, di universale umanità, senza distinzioni di genere, della concupiscenza e del desiderio sessuale. Ci si è divisi, in occidente come in oriente, in simpatizzanti e antipatizzanti di Giuseppe e della donna che lo desidera. Nel secondo volume della trilogia Giuseppe e i suoi fratelli di Thomas Mann, la vera protagonista cui vanno tutte le simpatie dell’autore non è il giovane ebreo che resiste eroicamente alle avances, ma la sua appassionata padrona, che ha avuto la disgrazia di infatuarsi di lui. Non saprei dire se ci siano interpretazioni più autentiche di altre. Per una lettura molto dotta e femminista, che spacca il capello in quattro, del testo biblico di Genesi 39 e delle sue interpretazioni nella cultura occidentale, da quelle ellenistiche bizantine alla più aggiornata critica letteraria psicanalitica potrei rimandare al Women, Seduction, and Betrayal in Biblical Narrative di “Alive Bach” (quasi metà libro è dedicato alla figura della signora Putifarre, o Mut-emenet, come la chiama Mann), anche a rischio che il lettore ci si perda come mi sono perso io. Per le molte letture islamiche mi sono avvalso del saggio, ricchissimo di citazioni, di Erdmute Heller e Hassouna Moshabi: “Dietro il velo: amore e sessualità nella cultura araba”. Alla storia di Yusuf e seguiti dedica un intero capitolo, quello intitolato “L’eterna seduttrice”. Tra le ipotesi: quella per cui il successo della Sura di Yusuf nella cultura islamica possa essere legato al desiderio nascosto di essere tutti nei panni di Giuseppe; quella per cui uno dei messaggi dominanti, non solo in questo passo, ma in tutto il Corano, sarebbe l’invito ad assicurare la soddisfazione sessuale delle donne, non solo quella del maschio.
    Sarà anche forzato. Ma non ditemi che non lo trovate anche voi sorprendente e divertente. C’è chi nel Corano è arrivato persino a scorgere un diffuso “alito di femminismo”.
    Ho letto di Maometto interpretato come “liberatore” delle donne. Può non convincere lo sforzo di dimostrare che l’islam delle origini faceva molta più attenzione alla donna e alla sessualità di quanto lascino ad intendere le proibizioni che si sono poi accumulate e le sessuofobie dei fondamentalisti e puristi dell’ultima ora. Il riconoscimento dell’ineluttabilità della concupiscenza nella natura è sempre a doppio taglio: porta all’accettazione o, inversamente, all’inasprimento delle proibizioni. L’islam sciita iraniano, quello che ci siamo tanto abituati ad associare al ciador, alla punizione delle adultere e alla sessuofobia, è anche quello che ha inventato, in riconoscimento della forza della concupiscenza e del desiderio sessuale, una sua “legge del desiderio”: il matrimonio temporaneo (sigheh), a termine per contratto, di durata variabile, da un’ora soltanto a 99 anni.
    Molto dipende dal come un testo viene interpretato e tradotto. Sono sicuro che il lettore troverà esilarante un capitolo di “Middle Eastern Fragments”, straordinaria seppure caotica accolta di citazioni, frammenti e appunti messi insieme da uno dei massimi islamisti americani, Bernard Lewis (unico difetto: la mancanza di richiami alle fonti, che forse avrebbe portato a raddoppiare la dimensione del volume). Vi sono presentate, una dopo l’altra, una dozzina di differenti traduzioni, interpretazioni e commentari della famosa sura (Corano IV, 34) in cui Maometto tratta la relazione tra uomini e donne, datate dal 1734 al 1987, quasi tutte da parte di esegeti islamici. Sarete sorpresi dal come uno stesso testo possa venire letto, tradotto, interpretato e commentato in modo così variegato.
    Tanto per dare un’idea, il discusso “daraba”, il termine arabo che normalmente viene inteso come una contraddittoria esortazione del Profeta a “picchiare” le donne pur rispettandole, diventa “andate a letto con loro” associato a “non cercate scuse per prendervela con loro”.
    Molto di più dipende da chi racconta.
    Il resto da chi ascolta o legge il racconto. Tra i più avvincenti narratori di tutti i tempi, in fatto di concupiscenza, desiderio sessuale, avventure erotiche, e dintorni, c’è una donna islamica: Shahrazàd.
    Sarebbe estremamente riduttivo, anzi stupido ridurre a questo le “Alf Layla ve Layla”, le “Mille e una notte”. In quei trecento e passa racconti (mille sta semplicemente per tanti, il titolo in turco, “Bin bir”, è ancor più suggestivo che in arabo, anche i numeri hanno una loro magia, come il quaranta dei quaranta ladroni, sul suono e le suggestioni di “kirk” (40) in turco si potrebbe scrivere un intero saggio), c’è di tutto e di più. La si potrebbe considerare un’enciclopedia che contiene i fili di quasi tutto quello che è stato narrato in letteratura, prima e dopo.
    Ma se c’è un tema onnipresente, che prevale su tutti gli altri, è quello del sesso, in tutte le forme, dal platonico al tragico, dal boccaccesco al pornografico, ma anche nelle molteplici forme in cui può essere associato al potere. Il sultano cui Shahràzad racconta, notte dopo notte, le sue storie e storie nelle storie, non la concupisce in quanto donna. E’ sessuofobo, disgustato, terrorizzato dal sesso, odia le donne. Ha magari anche le sue ragioni. Delle molte possibili letture della storia di Giuseppe gliene hanno ficcata in testa solo una: “Fai tesoro della storia di Giuseppe, guardati dai loro inganni”. “Da allora… ogni notte prendeva con sé una fanciulla vergine, le toglieva la verginità, e la notte stessa la uccideva”. Finché “il popolo, tra grida d’orrore, era fuggito portando via la sue figlie, e ben presto in quella città non era restata una sola ragazza da marito”.
    Mi viene da pensare che succede ancora, in altra forma: 100 milioni di donne in meno in Asia, probabilmente a causa degli aborti selettivi, e quindi 100 milioni di maschi senza sposa, evocano una “geopolitica della frustrazione sessuale” non meno preoccupante della geopolitica del petrolio o dei conflitti di civiltà.
    Quando il vizir non riesce più a trovargli una nuova sposa, si offre volontaria sua figlia Shahrazàd. Potrebbe scappare anche lei, magari in occidente.
    E invece gli dice: “Padre mio, fammi sposare questo re. O vivrò, o servirò, sacrificandomi, da riscatto alle figlie dei musulmani”.
    E riesce ad averla vinta, raccontando al re, notte dopo notte, molte storie che trattano proprio dell’argomento che gli fa così disgusto e paura.
    Di sesso, nelle “Mille e una notte”, c’e n’è in effetti per tutti i gusti. Si continua a discutere molto se sia stato tutto questo sesso a farne o disfarne le fortune in oriente, o se se invece il problema fosse la politica, quel che vi si trova di imbarazzante per il potere, detto con argomenti che meglio facevano audience nei bar e nei bazar della Umma di allora. Più assodato è che il sesso ha avuto molto a che fare con la sua fortuna in occidente, sin da quando un diplomatico francese in missione in oriente, Antoine Galland, portò Shahrazàd in Europa e cominciò a tradurla agli inizi del 1700.
    Il capitano Richard Burton, l’orientalista enciclopedico e molto imperialista che l’introdusse nel mondo anglosassone, ne era tanto ossessionato che le sue note sugli aspetti erotici delle “Mille e una notte” sono una trattato a sé di erotologia esotica. Nel “Tempo ritrovato” Proust non nasconde il fascino subito, e racconta che sua madre gliene aveva regalato, lui già adulto, due copie, una nella traduzione, di Galland, ancora parecchio castigata benché (o forse proprio perché) la nicchia di audience cui era rivolta erano le signore della Versailles di Madame Pompadour, l’altra in quella posteriore, che pretese di essere “letterale”, senza censure, di Mardrus. “Gettato un colpo d’occhio alle due traduzioni, mia madre avrebbe preferito quella più castigata, ma non voleva interferire”. Pare di capire che all’autore della “Recherche du Temps perdu” piacesse più l’altra. Nelle versioni Disney magari no (o non così esplicitamente), ma nelle versioni integrali il modo in cui le “Mille e una notte” parlano di sesso va dall’estremamente raffinato, talvolta sublime, all’estremamente esplicito, o addirittura osceno, dal mistico allo sboccato, dal moralismo più trito e misogino alla pura gioia del sesso. Erotismo da postribolo e bassifondi, o da entertainers d’alto bordo, virtuose o furbissime matrone di buona famiglia, ninfomani, prostitute e ragazzi di vita, travestiti e pedofili, maniaci e pervertiti, adulteri e amori tragici, pulsioni di morte che richiamano Tristano ed Isotta, persino una storia tribale che anticipa Romeo e Giulietta. Tra le righe si possono volendo trovare evocazioni dell’Aids, dell’ingegneria genetica e della procreazione assistita. Vi si parla di concupiscenza del potere e concupiscenza sessuale, di sesso per il potere e poteri del sesso, in tutte le varianti immaginabili. C’è solo l’imbarazzo della scelta.
    Forse nemmeno Rabelais, che colle parole giocava senza rete, avrebbe osato mettere in prosa una pagina licenziosa, tutta giocata sulle parole, come quella della “Storia del facchino e delle tre ragazze”:
    “La fanciulla si alzò, si spogliò dei vestiti rimase completamente ignuda, poi si gettò nella vasca e cominciò a giocare con l’acqua, prendendone in bocca delle sorsate ed aspergendo il facchino, indi si lavò le membra e fra le cosce, e, uscita dall’acqua, si buttò tra le braccia di lui dicendo: - amore mio, come si chiama questo? – … Il facchino ne disse un nome, ma quella fece: – Oh, oh! Non ti vergogni? – e afferratolo per il collo si mise a batterlo; egli allora disse un secondo nome, poi un terzo e un quarto ancora, ma sempre con ugual risultato…”. La scena e il gioco continua con la seconda ragazza, poi con la terza, e poi ricomincia a parti invertite, con l’uomo che chiede a turno alle ragazze di dare un nome al suo attributo. Un pio religioso islamico del XV secolo, lo sceicco Al-Nafzawi avrebbe poi provveduto a stendere un elenco dettagliato, che si prolunga per pagine e pagine, dei vari nomi della cosa e del coso, nonché dei modi di dire riferiti al loro incontro. E’ riportato estesamente in “Dietro il velo” di Heller e Moshabi (pagine 163-167).
    Pedanteria pornografica fine a sé stessa? Per la versione delle “Mille e una notte”, c’è chi sostiene che anche queste pagine così osée, al limite dell’oscenità, conterrebbero un “messaggio politico”: gli schiaffoni al facchino gli ricorderebbero che è pura idiozia la pretesa da parte degli uomini di dare loro anche dare un nome a qualcosa il cui controllo spetterebbe solo alla donna: il suo sesso. Questa l’interpretazione di Fatima Mernissi, nel suo S”cheherazade goes West: different cultures different harems”, tradotto da Giunti col titolo “L’Harem in Occidente”.
    La tesi di questo libro dell’insigne femminista islamica e docente all’Università di Rabat è che almeno da tre secoli a questa parte l’occidente ha fantasticato, si è eccitato ad un’idea di harem di pura invenzione. L’harem immaginato dalla letteratura occidentale, o dipinto dagli orientalisti è un luogo che racchiude donne totalmente alla mercé dei desideri sessuali dei loro padroni, quasi sempre nude, spesso schiave, pronte ad appagare qualsiasi voglia. Ci sono, beninteso, le eccezioni, gli harem musicali, affollate di donne tutt’altro che sottomesse, su cui scherzano Mozart e Rossini. Ma sono eccezioni che potrebbero essere considerate una conferma della regola. Gli harem di Shahrazàd e delle sue storie sono invece popolati da donne che sanno dare del filo da torcere ai loro partner padroni, sanno competere in astuzia con loro, li scombussolano nelle loro certezze (o insicurezze) fanatiche, riescono a confondere anche califfi e sultani, a concupire e non solo a farsi concupire, talvolta a comandare loro. Le odalische di Ingres, le schiave portate al mercato nei quadri di Gerome sembrano conoscere solo il linguaggio languido dei loro corpi d’alabastro al bagno. Le donne delle “Mille e una notte” invece non sono affatto solo “specialiste del piacere” sensuale. Sanno suscitare concupiscenza intellettuale, della mente prima ancora che della carne.
    Gli orientalisti dipingevano, mettendo in posa le modelle nei loro studi parigini, harem in cui non avevano mai messo piede.
    Fatima Mernissi in un harem c’è invece nata. Ricorda che le storie di Shahrazàd gliele raccontava sua nonna Yasmina, introducendo piccole modifiche, eresie che le rendevano ancora più sovversive.
    Yasmina, ci fa sapere, era analfabeta. Come mia nonna, che, come molte delle sefardite di Istanbul fino al secolo scorso inoltrato, parlava solo ladino (il castellano viejo degli ebrei espulsi dalla Spagna nel 1500), non sapeva scrivere né in turco né in caratteri latini, non parlava ebraico, ma scriveva lo spagnolo in caratteri ebraici. Ho sentito dire che da ragazza veniva considerata una delle donne più belle di Costantinopoli, si spettegolava a non finire delle sue avventure amorose. Di harem d’oriente doveva sapere qualcosa: suo padre, il mio bisnonno, faceva il maestro di liuto per le dame del Serraglio del Sultano.
    In comune con Shahrazàd aveva l’arte di raccontare favole. Shahrazàd e le sue compagne non sono invece analfabete come le nostre nonne. Sono in grado di competere con i dotti dell’islam, riescono a far prevalere la propria “immaginazione” sulle loro “verità”, la propria astuta e variopinta fantasia sul grigiore rigoroso della shari’a, la legge islamica. “Signore, conosco la grammatica, la poesia, il diritto, l’interpretazione del Corano, la filologia; conosco l’arte musicale, la dottrina religiosa, l’aritmetica, la geometria, geodesia, le leggende degli antichi. So a memoria il sublime Corano, e l’ho letto secondo le sette, dieci e quattordici scuole di lettura; conosco il numero dei suoi capitoli e dei suoi versetti, delle sue sezioni, metà, quarti, ottavi e decimi… Mi sono occupata di scienze esatte, geometria, filosofia, medicina, logica, retorica, composizione; ho imparato a memoria molti testi scientifici, sono dedita alla poesia, suono il liuto, so accompagnarlo col canto, e conosco la tecnica del pizzicare le corde. Se canto e ballo seduco, se mi adorno e mi profumo uccido…”, è il modo in cui si presenta la schiava Tawaddud (amorevolezza) al califfo che la interroga su cosa sappia fare. E così va avanti, a confrontarsi con i dotti in ogni campo dello scibile, ogni professione e ogni gioco, per pagine e pagine. Finché “Tawaddud si pose il liuto in grembo e vi appoggiò il seno, inclinandovisi sopra come una madre che allatta il bambino, poi eseguì dodici melodie, mandando in visibilio i presenti”. Come resisterle?
    Non è da meno Shahrazàd, che “aveva letto i libri, le storie, le gesta dei re antichi, e le notizie dei popoli passati, tanto che si dice che avesse raccolto mille libri…”, sa discutere con competenza di tutto, qualche interprete è arrivato a dire: sin dalle prime righe delle “Mille e una notte”, ci viene presentata con credenziali quasi da ayatollah, al femminile. Shahrazàd, non fa lo strip-tease, e neppure balla come le faranno fare, in occidente, Diaghilev e Nijinsky. Giace tutta la notte col sultano, ma non è il suo sex appeal a salvarle il collo. La sua è una capacità di seduzione che va ben oltre: il sultano è la sua audience, ne appaga la concupiscenza raccontandogli, in continuazione, favole di ogni genere, per ogni gusto, qualcuna anche di cattivo gusto. Le “Mille e una notte” avevano anticipato i poteri di seduzione della narrazione, entertainment, di Hollywood e della televisione. Curioso che sia stato uno dei più grandi scrittori americani, Edgar Allan Poe, a inventare, a metà Ottocento, una “Milleduesima notte di Scheherazade”, in cui questa profetizza al suo sultano molte delle magie tecnologiche a venire, compresi il cinema e la radio, “voci tanto potenti da farsi sentire da un capo all’altro del mondo”, una lettera “scritta in qualsiasi parte del mondo” e istantaneamente “recapitata a Baghdad”. E quello, che pure aveva tollerato le altre 1001 notti di favole sul sesso, questa sulla modernità non riesce a sopportarla e finalmente la strozza.
    Che sia questo il vero problema?

    Da il Foglio del 8 luglio

    saluti

  2. #12
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    Predefinito Volere e non toccare

    di Paola Mastrocola

    Concupire significa desiderare molto, fortissimamente, oltremodo. E’ implicito un eccesso, un’idea di troppo. Tutta colpa di quel cum iniziale che rende intensivo il verbo cupio, di per sé innocuo, naturale, lecito: il desiderio è la molla stessa del nostro essere e di tutte le nostre azioni qui sulla terra. Desidero, dunque sono.
    Va bene. Ma oggi desideriamo troppo, non abbiamo limiti. Ci hanno abilmente educati a questo, almeno dagli anni Settanta: edonismo, consumismo, quel che Pasolini definiva “laicismo consumistico”. Siamo abituati ad avere tutto e a consumare per puro piacere, senza orizzonti metafisici, tutto piatto, presente, terreno. E senza limiti. Il nostro attuale problema è soprattutto un’assenza totale del limite. Ci manca un freno. O meglio, possediamo ancora qualche freno, ma ben misero, strettamente oggettivo, tecnico: alcuni piccoli deterrenti senz’anima. Ad esempio, se desideriamo dieci vestiti nuovi, probabilmente riusciremo a comprarne solo due in base a considerazioni di tipo economico: il nostro stipendio non ce lo permette, fine. Allo stesso modo, se desideriamo due piatti di pasta e tre dolci, potremo agevolmente limitarci a un solo primo e un solo dessert in nome della nostra linea e della tanto agognata taglia 42. Ci autoimponiamo un rigore che però non ha nulla di morale o ideale. E’ un finto rigore, in realtà è l’altra faccia del nostro opportunismo: è opportuno, è più conveniente (per le nostre tasche e per il nostro peso) comprare pochi abiti e mangiare poca pasta, tutto qui.
    Con il sesso la questione si complica.
    Se incontriamo una persona che fortemente ci attrae, quale freno mai dovremmo invocare per non cedere al naturale impulso di possederla hic et nunc? Perché potrebbe essere più opportuno e più conveniente farne a meno? Tutte le immagini da cui siamo quotidianamente bombardati, tivù e pubblicità in testa, ci invitano a non porci dei limiti. Forse ci resta, ma non a tutti noi, qualche remora di carattere salutistico, una sottile paura del contagio infettivo… Ma nulla di più alto, credo.
    Ha vinto un’ottica laica non religiosa che riconosce nella felicità personale l’unico diritto per cui valga la pena battersi. Il solo principio riconosciuto è che il nostro piacere non leda la libertà altrui. Il famoso principio del danno a terzi.
    Così, ci capita di vedere persone gentili e compìte chiedere se possono fumare una sigaretta e se la cosa disturba o no. E contemporaneamente quelle stesse persone non farsi il minimo problema, pur essendo sposate o stabilmente conviventi, a intrallazzarsi amenamente con altri partner. Chiediamo il permesso di fumare, ma non di avere un amante. Evidentemente riteniamo che il fumo passivo sia un grave danno per il nostro prossimo, mentre non lo sia per niente l’infedeltà coniugale. Bizzarro. Riusciamo a limitare il nostro piacere del fumo, ma non il nostro piacere sessuale.
    Pensiamo inoltre all’educazione che stiamo impartendo in questo campo ai nostri figli.
    Noi genitori oggi non siamo più in grado di contenere le loro esperienze sessuali almeno al di sotto di una certa età; di fronte alla figlia quindicenne che si fa il coetaneo di turno, non sappiamo come reagire. Oscuramente sentiamo che non è bene, che dovrebbe astenersi, ma fino a dove, fino a quando, e in base a quali principi noi possiamo onestamente dirle di soprassedere?
    Fino alla maggiore età?
    Fino a che abbia concluso il ciclo di studi liceale o universitario?
    E perché? Non è forse naturale che abbia un ragazzo?
    Vogliamo forse reprimerla, inibirla, traumatizzarla, fino a mandarla un giorno in analisi?
    Ci blocchiamo di fronte alla definizione di ciò che è bene e ciò che è male, o meglio, abbiamo la certezza che nulla sia veramente male.
    E allora? E allora vedo intorno a me genitori che nel weekend ospitano il ragazzo della figlia offrendo loro la camera matrimoniale, mamme che fanno personalmente il letto alla giovane coppia scegliendo le lenzuola migliori. Se ne parliamo un po’ inquieti tra di noi, subito ci troviamo splendidi alibi: meglio che lo facciano qui in casa che per strada o chissà dove, almeno sono al sicuro. Ineccepibile.
    Mi viene da pensare al nostro attuale atteggiamento verso l’uso delle droghe: le stanze del buco non appartengono forse alla stessa filosofia del limitare il danno?
    * * *
    Abbiamo oggi un semplice problemino di freni. Non sappiamo frenare. Siamo impotenti e incapaci di trovare le ragioni di un qualsiasi freno. L’antico motto “est modus in rebus” è lontano mille miglia. Noi, il modus, non sappiamo nemmeno più cosa sia.
    In realtà il concetto di moderazione è un concetto difficile e, se vogliamo, assurdo. Non si tratta di non soddisfare un desiderio, ma di soddisfarlo poco, non del tutto, non… smodatamente. E’ una sorta di sordina, la moderazione, un sentire la radio ma a basso volume e non a tutte le ore. Con dei limiti. Non è la rinuncia. La rinuncia è ascetica, metafisica, assoluta. Non ammette compromessi o mediazioni. Rinunciare vuol dire scegliere di non avere, farne a meno del tutto e per sempre. Mettersi su un altro piano, in un altro mondo, dove i valori, le qualità e i premi sono altri. Un altro pianeta. Il pianeta dei mistici, degli artisti, dei santi, dei poeti… La moderazione invece è più umana, fa parte di quella medietas – o aurea mediocritas, di cui parlava Orazio –che sarebbe un felice stare in mezzo. Essere medi. Né alti né bassi, né poveri né ricchi, né belli né brutti. Il regno dell’un po’, dell’in parte, del moderatamente. Può ancora essere proponibile tale medietà? Risulta ancora un valore o l’epoca oraziana è finita per sempre? Perché limitarci nei desideri, premere sul freno, moderarci dovrebbe essere un bene? Perché avere poco invece che tanto, comprare due invece che dieci, avere un uomo e non tre?
    * * *
    Perché tutto ciò sia considerato un valore, noi dovremmo dare valore ad alcune altre cosucce che mi par di vedere piuttosto latitanti nel nostro mondo. Ad esempio Dio.
    Quand’ero piccola, mangiavo poco cioccolato non solo perché, mi diceva mia madre, il cioccolato fa male alla pancia, ma anche perché inconsciamente dentro di me mi nasceva il pensiero che avrei fatto un po’ dispiacere a Dio. Perché la cioccolata era un puro piacere, e del puro piacere, fine a se stesso, gratuito, in fondo immeritato, io dovevo render conto a Dio. Cosa gli davo in cambio? Ecco, c’era l’idea di uno scambio. Se mangiavo tanta cioccolata, dovevo in qualche modo riparare facendo qualcosa di meno piacevole, di doveroso e necessario, possibilmente utile agli altri.
    Potevo pulire casa, lavare i piatti, andare a letto alle nove senza guardare Carosello, aiutare la compagna a fare i compiti, fare la spesa all’anziana vicina di casa. Doveri autoimposti, se non vere e proprie autopunizioni. Sì, ci si autopuniva. Ci si autoregolava, ovvero ci davamo personalmente regole: in noi abitava un’autorità sconosciuta ma imperiosa, era dentro di noi, eravamo forse noi stessi, miracolosamente la stessa persona colei che comandava e colei che obbediva. Un capolavoro di disciplina morale! Restando sul cioccolato, va detto che noi lo mangiavamo insieme al pane. Particolare non di poco conto. Il pane rallentava l’eros. Annacquava, diminuendo il piacere, il fuoco della passione. In una parola riequilibrava, immetteva un segnale di equilibrio.
    Se, da una parte, eccedevi nel piacere con il cioccolato, dall’altra frenavi con il pane. Quando da piccola andavo in colonia, ci davano di merenda pane e cioccolata solo la domenica e lì ho potuto agevolmente studiare il ventaglio di possibili comportamenti psicologici che si apriva tra di noi: c’era chi, ingordo, mangiava prima il cioccolato e poi si purificava con il pane; chi mangiava prima il pane e poi il cioccolato secondo l’antico detto “prima il dovere poi il piacere”; chi tutt’e due insieme, dando prova di formidabile fermezza emotiva; chi, futuro politicante,
    mangiava solo il pane e si conservava la barretta di cioccolato per futuri e più vantaggiosi scambi con amici; chi infine faceva il cosiddetto “fioretto”: faccio il fioretto di non mangiare cioccolato
    per tre mesi, così Dio mi aiuta apassare un esame, così Dio mi fa guarire, così mia nonna non muore. Avevamo una grande fiducia in Dio, ma ancor di più nel nostro “pagamento” a Dio. C’era l’idea che dovessimo qualcosa per avere qualcos’altro. Forse i sacrifici dei popoli antichi non ci erano così lontani: in fondo loro sacrificavano sull’altare pecore e buoi per le stesse ragioni… Sacrificium: rendere sacro qualcosa.
    Oggi ci è difficile riconoscere una sacralità a qualche nostra azione…
    Oggi, che non immoliamo più capretti agli dei e non andiamo più in colonia, cercherei comunque di frenare un po’. Per noi stessi e per i nostri figli. E’ solo più difficile, ma ci proverei a mettere dei limiti. In fondo, a ben guardare, Dio aveva vietato solo una mela a Adamo ed Eva, per il resto potevano mangiare una infinità di altri frutti; probabilmente, anche per Lui, era solo il tentativo di porre un limite: quella mela no.
    Certo, il problema oggi è trovare una ragione che spieghi il perché di un limite. Facile con i limiti di velocità: non andare oltre i 100 se no ti schianti contro un muro. Più difficile dire al figlio: non cambiare ragazza tutte le settimane; e alla coppia di giovani sposi: cercate di non farvi troppi amanti. Se ci chiedono perché, siamo sicuri di saper rispondere? Complicato aver tolto Dio dalla nostra vita. Arduo vivere in un mondo disertato dalla divinità. Vorrei comunque tentare di trovare una ragione ai limiti e dunque fare un elogio della moderazione, anche senza tirare in ballo Dio.
    Proporrei la sospensione, l’epoché. Almeno di tanto in tanto.
    Faccio un esempio. Stare davanti a un uomo, metti in un bar, al ristorante, in un salotto, e lasciarsi prendere dal piacere della sua presenza, arrivare anche a gustarsi mentalmente un’aria di reciproca seduzione, e stop, fermarsi lì.
    Non agire, non richiamare il giorno dopo, non accettare l’invito a cena. Lasciar cadere, sorridere. Il sorriso è un gesto sospeso per eccellenza. Non per rinuncia o per paura o per viltà. Ma perché il mondo mentale raggiunga la sua massima potenza. Per esaltare un incontro senza sprecarlo in vili commerci, in immediati consumi. Lasciare che agisca nella mente, anche inconsapevolmente, e che assuma le fattezze di un pensiero e basta. Non tutto deve sempre e per forza diventare carne. Abbiamo anche la mente: esercitiamo anche quella, perché no? Può essere una valida alternativa, fa parte della rosa delle infinite possibilità che l’essere umano ha a disposizione. Perché appiattirci su un’unica modalità di rapporto con il reale…? Si tratta solo di ridare valore al pensiero, alla nostra potenza immaginifica, che sa creare altri mondi. Non accontentarci di questo mondo. Troppo ristretto, solo materiale.
    E’ per ignoranza, per povertà intellettuale che consumiamo gli amori.
    Davvero non sappiamo far altro che toccarci, vederci in camere d’albergo, prenotare i nostri poveri incontri per telefono (col rischio d’essere intercettati…)? La concupiscenza, come unico approccio al reale, diventa la nostra condanna.
    Prendiamo, acquistiamo, possediamo. Come prendiamo dallo scaffale del supermercato il vasetto di tonno, il pacco di biscotti, l’ennesima confezione di noccioline sottovuoto. Prendiamo tutto quel che ci attrae e anche quello di cui non abbiamo veramente desiderio, così, per il puro gusto di prendere.
    Afferrare, consumare, avere. Tutto questo è la negazione della mente, di un mondo superiore e astratto dove vale esattamente la regola contraria: dove nulla si può prendere e dove le cose, anzi, perché continuino a esistere, non devono essere mai né toccate né prese.
    Avere la forza di non toccare e non prendere. Astenersi, avere un modus, una medietas: stare in mezzo, che non vuol dire non stare, non essere, non esistere; vuol dire mettere uno spazio, sospendere l’azione. Questione di equilibrio, anche...
    A poker diciamo: passo, quando non giochiamo quella mano. Passare, astenersi. (Che strano, astensione e astinenza hanno la stessa radice in un verbo che significa “tenersi lontano”, mettere distanza. Astinenza sessuale come astensione elettorale…? mah!).
    Lasciar passare, lasciar cadere, lasciar perdere.
    Lasciare che non accada: sospendere, tenere in sospeso un incontro, una storia, un amore. “Le rose che non colsi” di gozzaniana memoria, “quel che poteva essere e non è stato”. Ebbene sì, possiamo anche non coglierle le rose. Non stiamo parlando di frustranti e patetici ascetismi, bensì di sublimazione. Sospendere è sublimare. Tornare al mondo delle idee; riappropriarsi della funzione immaginativa.
    Michelangelo diceva: “Amore è una bellezza immaginata o vista dentro al cuore”. Prima di lui secoli di platonismo e secoli di poesia lirica, dall’amor de lohn dei poeti provenzali, ai siciliani che parlavano dell’immagine di lei dipinta nel cuore, fino alla Laura-lauro-l’aura di Petrarca.
    Tutto a partire da quel mitico Orfeo che canterà ancor meglio la sua Euridice proprio quando l’avrà persa per sempre nel mondo di Ade.
    L’altezza della nostra letteratura nasce lì: da una mancanza, da un’assenza. Da una concupiscenza frenata e dirottata. Credo che tutto questo oggi andrebbe rivalutato, contro l’attuale abnorme e volgare potere della presenza, della concretezza, del corporeo e della totale e costante (e spossante!) realizzabilità del desiderio.
    Sarei per lasciare, qualche volta, irrealizzato il desiderio: perché si espanda e tragga più forza dal suo rimanere sospeso. Un desiderio che diventa aria invade l’universo: è più potente. Non è dunque la società di massa, la televisione o la civiltà dei consumi il nostro vero nemico. E’ la nostra povertà culturale, l’insipienza intellettuale, la nostra ormai irreversibile incapacità di immaginazione. Non abbiamo più una vita mentale – laica o religiosa che sia, non importa –, non sappiamo più immaginare la vita e non ci resta quindi che toccare, palpare, mordere, comprare, possedere. Qualche ora con la fanciulla compiacente di turno e via: abbiamo mangiato ancora una volta la mela (ovvero la barretta di cioccolato). Così ogni volta ci autocacciamo dall’Eden.
    * * *
    Mi è capitato, giorni fa, di andare in barca a vela. Zigzagare tra un bordo e l’altro senza meta, assecondando il vento. Andare a vela è un assoluto mentale: se metti su le vele, di colpo smetti di avere una meta, non importa più, ti lasci portare e basta; se rimetti il motore, torni ad avere una meta precisa, che vuol dire volerla raggiungere: desiderarla, possederla.
    Andare a vela è decidere di non possedere, volere altro, senza un fine perché il fine è già tutto lì, nell’andare a vela.
    Accanto mi è passato un gommone, uno di quegli enormi e velocissimi gommoni neri pieni di sub semivestiti delle loro tute nere e bombole. Sfrecciavano a supervelocità (inferendo un’evidente ferita al mare, che noi chiamiamo serenamente scia…). Perché vanno così veloci? mi sono chiesta. Semplice, perché hanno una meta da raggiungere: il punto di immersione. Vorrei che andassimo di più a vela.
    E leggessimo di più i poeti provenzali (piccolo consiglio di lettura che mi permetto di dare a tutti, ma soprattutto ai Vittorioemanuele e ai Salvosottile di questo mondo). Non per riconquistare
    l’Eden (quello è perduto per sempre, ahimè), ma per riposarci dalla terribile fatica di questa nostra perenne e forzata concupiscenza, da questo continuo dover essere che il nostro piacere individuale ci impone. Siamo circondati da una marea di cioccolato (senza pane!) e da una giungla di rose, non ne possiamo più; vorremmo non dovere mangiare di continuo né dover cogliere infinite rose; vorremmo la libertà di poter dire no grazie, non ne ho voglia, ho altro da fare.
    Sospesi, stare in mezzo. In mezzo al mare, per esempio. Un mare sgombro di mete, senza terre, boe… o sirene di plastica, da raggiungere a ogni costo.

    saluti

  3. #13
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    Predefinito Eretti e contraddetti

    di Ottavio Cappellani

    Ma quando fu che i discorsi sulla concupiscenza, sulla sua negazione come via per raggiungere il libero arbitrio, furono espulsi dalla cultura popolare? Come fu che lo “scandalo sessuale” divenne qualcosa della quale accorgersi a intermittenza, magari seguendo la cronaca giudiziaria, magari con magniloquente e indignata sorpresa, e non più il semplice, vecchio, risaputo, e anche un tantino noioso “stato di natura”, nel quale siamo immersi fin dalla nascita, e dal quale l’intelletto dovrebbe, a fatica, liberarci?
    Come accadde che ci dimenticammo che lo “scandalo sessuale” non avviene ogni tanto, ma ogni giorno che Dio manda in terra, e dentro tutti noi?
    La riflessione cristiana sulla concupiscenza nasce sin dall’inizio, dalla Prima lettera di San Giovanni (II, 15, 16, 17): “Non amate il mondo, né ciò che è nel mondo, l’amore del Padre non è in lui; perché tutto quello che è nel mondo, la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi, la superbia della vita, non viene dal Padre, ma dal mondo. E il mondo passa con la sua concupiscenza; ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno”.
    Ma le origini sono ancora più antiche. Il termine, nel suo significato di costrizione della (e dalla) natura, viene usato per la prima volta da Aristotele, nell’Etica Nicomachea (I, 5, 15): “Si pensa, non a torto, che gli uomini ricavino dal loro modo di vivere la loro concezione del bene e della felicità. Gli uomini della massa, i più rozzi, l’identificano con il piacere, e per questo amano la vita di godimento. Sono tre, infatti, i principali tipi di vita: quello or ora menzionato, la vita politica, e, terzo, la vita contemplativa”.
    Aristotele, a scanso di equivoci, aggiunge subito dopo:
    “Orbene, gli uomini della massa si rivelano veri e propri schiavi, scegliendosi una vita da bestie, e pur capita che se ne parli per il fatto che molti individui altolocati hanno le stesse passioni di Sardanapalo”.
    Dopodiché sia Aristotele che i cristiani impugnano il bisturi operando le dovute distinzioni. Aristotele con la teoria della “temperanza”, passata alla storia con la fastidiosa frase “in medio stat virtus” (L’Etica Nicomachea è popolata di pazzi furiosi che abbisognano di temperanza per gestire i propri eccessi, non di uomini e donne dalle medie passioni).
    I cristiani con un’opera di ammorbidimento dell’ascetismo estremo dei Santi Padri della Chiesa, secondo la quale la concupiscenza della carne diventa buona nel matrimonio, la superbia della vita si santifica nel produrre azioni buone agli altri, e la concupiscenza degli occhi trova il suo giusto compimento nella vita contemplativa quando essa non cade nell’ozio o nell’eresia
    “quietista” (fondata da Miguel de Molinos, che intendeva passare la vita
    “perinde ac cadavere”, come un cadavere).
    Ma su una cosa tutti erano d’accordo: bisognava quotidianamente strappare, anche a morsi, il cervello dell’uomo e della donna, o la loro “anima intellettiva”, dalla orripilante natura e dalle grinfie delle sue meccaniche necessità mediante le quali la natura deve perpetuare se stessa: prima fra tutte l’erezione, l’erezione “in sé”, un’erezione che non ha più cause, tranne appunto quella della perpetuazione della specie.
    La lotta contro la concupiscenza è sempre stata, in primo luogo, una lotta contro l’erezione, questa demente alterazione del corpo (laddove non è nobilitata da altro) che riguarda l’organo erettile per eccellenza: la clitoride, della quale l’organo maschile non è che una pallida imitazione. Genesi, III, 16: “Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà”. L’organo sessuale maschile è la parte femminile di ogni uomo.
    Contro questo “istinto”, contro quest’ “alien” (in effetti gli somiglia), installato nel nostro organismo, e che a volte mettendo fuori la testolina pare vivere di vita propria rubandoci la nostra, il tentativo di infibulazione del pensiero è stato il più alto grado di civiltà raggiunto dall’uomo. Attenzione: del pensiero.
    Ibn Rushd, noto come Averroè, il più grande studioso di Aristotele del mondo arabo, “colui ch’el gran commento feo” (Dante, Inf. IV, 144), fu processato nel 1194, esiliato a Cordoba e i suoi libri bruciati. A proposito di Averroè, Bertrand Russell scrisse che la sua opera fu più utile al cristianesimo che all’islamismo. Ci crediamo: egli parlava di “anima intellettiva” mentre i compaesani affilavano i coltellacci. L’infibulazione del pensiero fu quella Teoria (fortunatamente, da queste parti, non si praticano pratiche) che lasciava tutte le cosine al posto “naturale”, tranne, appunto, il pensiero.
    Di tutto questo si è persa traccia. Nel 1937 Karl Rahner, a Innsbruck, tenta di riprendere il discorso con un “programma di teologia della predicazione”, ma lo fa con l’atteggiamento manifesto di chi deve, in qualche maniera, ricominciare daccapo, lo fa con l’obiettivo esplicito di risollevare il cristianesimo dall’“arido abitudinario” al quale si era ridotto, lo fa con l’atteggiamento di chi è costretto a scoprire l’acqua calda eppure sa che deve farlo.
    Non interessa entrare qui nel merito della teologia rahaneriana (ancora ci litigano sopra a causa del Concilio Vatiano II), interessa notare invece come la concupiscenza sia diventata una materia per iperspecialisti, per teologi raffinati e di potere, quando invece immaginiamo un’epoca non troppo lontana in cui questi discorsi si potevano fare all’osteria. Oggi viviamo invece tra “aridi abitudinari” che hanno perso ogni idea di “percorso”, che tendono a salvarsi l’anima esclusivamente attraverso la confessione, e tra laicisti che ritengono sano il sesso se fatto tra “adulti consenzienti”, tranne poi scavare all’inverosimile sulle cause di questo consenso: che è cosa impossibile da fare, tu puoi prendere un uomo, frustarlo, gettarlo in carcere se la tua epoca lo consente, umiliarlo, sputargli, metterlo sopra il cavalletto spagnolo, ma non potrai mai conoscerlo al punto da indovinare le cause di ogni suo consenso, una conoscenza di questo genere è riservato ai più alti gradi dell’amore e della compassione. (“Adulto consenziente”? Ascoltane il suono. Non sembra anche a te una malattia della ragione? Io ho archiviato l’“adulto consenziente” tra la categoria dell’“anziano incontinente” e quella del
    “giovane imbecille”).
    Come è accaduto tutto questo? Mi piace farne risalire le cause a Jacques-Bénigne Bossuet, giusto perché, in qualche modo, è dalla “nostra” parte.
    Sono affezionato a Bossuet, gli sono affezionato per due motivi, due motivi opposti.
    Il primo motivo è che il suo “Trattato della concupiscenza” è l’ultimolibro sistematico apparso sulla faccenda.
    Il secondo motivo è che è senza dubbio il più brutto. Non c’è più traccia di quella tensione tra teologia e filosofia, ma anche tra teologia e religione, che avevano caratterizzato le questioni sulla concupiscenza, da San Tommaso Sant’Agostino ad Averroè. Come se la riflessione sull’argomento avesse trovato in quel momento, il 1731, data di pubblicazione postuma dell’opera, il suo punto più basso. Bossuet restituisce alla concupiscenza un linguaggio così semplice da risultare stolido, soprattutto in un’epoca, come quella del Re Sole, alla corte del quale Bossuet fu chiamato come precettore del Gran Delfino (si sostiene che i trent’anni più illuminati di questo re siano stati influenzati da Bossuet).
    Una corte dove la nobiltà della tradizione veniva sostituita dalla nobiltà del censo, creata appositamente da Luigi XIV perché gli fosse più fedele; dove tutta Versailles fu traforata da passaggi segreti perché il Re potesse raggiungere le sue amanti (Madame de Montespan e Madame de Maintenon); dove Bossuet intraprese una lotta senza esclusione di colpi contro il “quietismo”, e da dove, infine, si scagliò contro la Chiesa in nome del suo Monarca e della sua azione politica. Eppure Bossuet, che non lesina, nel suo “Trattato”, attacchi feroci contro la bella scrittura (“Se ne vedono tanti che trascorrono la loro vita a tornire un verso, a pulire un periodo”), chiude il libro (invero tutto scritto in un mirabile francese) con delle elegantissime quanto incomprensibili frasi, incomprensibili, ovviamente, in quanto scritte da Bossuet:
    “Mio Dio, soltanto il tuo spirito Santo può operare questo prodigio; fa ch’esso sia dentro di me come un carbone ardente, che purifichi le mie labbra e il mio cuore in tal sorta che non vi sia in me più nulla di mio, e che l’incenso ch’io brucerò al tuo cospetto, nel momento stesso che verrà deposto in questo braciere ardente che accenderà nel profondo della mia anima, esali tutti i suoi fumi al cielo senza che me ne resti nulla, per mandarti un grato profumo. Ch’io non mi compiaccia che in te, che in te soltanto io trovi la mia felicità e la mia vita, adesso e nei secoli dei secoli. Amen, Amen”.
    Cosa vuol dire questa vulgata in brodo? Si tratta di un tardo pentimento? Non sappiamo, non possiamo sapere, e non importa più di tanto. Quello che importa è che “Il Trattato della concupiscenza”, l’ultimo libro sistematico sull’argomento, è un libro inutile: a causa della biografia del suo autore, e a causa della maniera nella quale è trattato l’argomento (buono speriamo almeno a salvargli l’anima). L’incoerenza, che in altri possiamo ammirare comprendendola, in Bossuet non è spiegata da nessuna parte, neanche per frasi sibilline, neanche intuibile come conseguenza del suo “sistema”. Bossuet non ha un “sistema”. Non stupisce che di lì a poco vi sia stata la rivoluzione francese.
    Così cerco di darmi una risposta alla domanda che m’ero posto all’inizio: quando fu che i discorsi sulla concupiscenza scomparvero? Come fu che persero ogni idea di percorso di liberazione diventando un’indignazione a intermittenza? E in cosa si sono tramutati i discorsi sulla concupiscenza?
    Stabilendo arbitrariamente quella data, il 1731, e osservandone quello che ne seguì, posso darmi risposte altrettanto arbitrarie.
    Come molti altri fenomeni, le teorie sulla concupiscenza diventarono
    “concupiscenza politica”, o, come si dice oggi, “lotta di classe”: dall’alto verso il basso, dal basso verso l’alto, da destra a sinistra e viceversa. Il “moderno”, dopo avere spezzettato all’inverosimile la politica, si accingeva a spezzettare anche il pensiero, che, come testimonia l’opera e la vita di Bossuet, era già diventato parecchio deboluccio.

    saluti

  4. #14
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    Predefinito Morire di marzapane

    Franco Agnoli

    Ognuno affronta il tema della concupiscenza, credo, secondo il modo in cui la conosce e la sperimenta in se stesso. Ma dopo il peccato originale, dopo la rottura dell’armonia primigenia tra appetiti sensitivi e appetiti razionali, siamo tutti esseri concupiscenti, che desiderano, spesso più per istinto della carne che per conoscenza dello spirito.
    All’uomo infatti non basta conoscere il bene, per farlo e desiderarlo, checché ne dicano Socrate e i razionalisti di ogni tempo. “Veggio il meglio, ma al peggior m’appiglio”: lo scriveva Francesco Petrarca, riprendendo Orazio e san Paolo, ripensando alla sua storia personale, alla sua brama di onori, di gloria, di successo, e al suo amore, troppo carnale, per Laura.
    “E del vaneggiar vergogna è il frutto, e il pentirsi, e il conoscer chiaramente che quanto piace al mondo è breve sogno”: la brama dei frutti terrestri, per quanto forte, accidiosa o irascibile sia, finisce sempre lì, nel constatare il carattere effimero di ogni bene puramente mondano. Sfocia nella delusione, perché ci si accorge che l’infinito cercato non sta, così semplicemente, nel finito afferrabile.
    Eppure, in queste brame, cadono eroi pagani, come i compagni di Ulisse, trasformati da Circe in maiali, ma anche uomini forti, cristiani sinceri, come il Rinaldo di Torquato Tasso, e Tasso stesso, che fa dire a un pappagallo variopinto, riedizione della lussuriosa lonza dantesca:
    “Così trapassa al trapassar d’un giorno/ de la vita mortale il fiore e ’l verde/…/ Cogliam la rosa in su ’l mattino adorno/ di questo dì che tosto il seren perde;/ cogliam d’amor la rosa: amiamo or quando/ esser si puote riamato amando”.
    Cogliere la rosa del giardino è un po’ come cogliere la mela nell’Eden: è affermare il valore assoluto del giardino e dei suoi fiori, di tutto ciò che è terrestre, pur avendo compreso chiaramente la brevità della vita mortale.
    Nella nostra letteratura, questo atteggiamento concupiscente è sempre una Caduta, o meglio una ricaduta, come conseguenza della prima sconfitta, e della prima disobbedienza. Solo con Giambattista Marino, e col suo Adone che vive felice nel giardino dei sensi di Venere, quest’idea religiosa perde la sua importanza. Adone è uomo concupiscente, ma senza più alcuna drammaticità, senza alcuna forza, senza alcuna grandezza. Per questo non è un eroe anti-cristiano, quanto un personaggio per nulla cristiano, e per nulla vero.
    La storia cristiana infatti è cosparsa di uomini vigorosamente concupiscenti: nella stessa genealogia di Gesù, come ha notato qualcuno, vi sono personaggi moralmente piuttosto deprecabili.
    Del resto l’elenco degli uomini concupiscenti che hanno fatto grande la cristianità, è lunghissimo: da Costantino a Carlo Magno, a sant’Agostino, da Dante a Gilles de Rais, l’amico della Vergine di Orleans, attratto a un tempo dalla santità e dalla perversione più totale, passando per i vari Boccaccio, con la sua decisione di concludere la vita in un convento, Huysmans, Oscar Wilde e i tanti altri uomini che hanno provato l’imbestialimento dei sensi, che si sono arrotolati nella loro concupiscenza, sino a rigettarla.
    Persino nei Fioretti di san Francesco, di questo uomo tutto purezza e povertà in spirito, la tentazione della carne si fa viva e terribile: e il santo si butta nei rovi, per placarne i bollori, e i rovi divengono rose.
    Oppure si immerge nell’acqua gelida, perché è più facile sopportare il freddo del corpo, che vincere il fuoco della concupiscenza.
    Anche i padri del deserto, quelli che fuggivano il mondo, non fuggono dalla propria bramosia, che li scova dovunque vadano: non che desiderino una moglie, una famiglia, semplicemente sognano la carne di donne bellissime, compiacenti, e combattono dentro di loro il fuoco del desiderio, memori che la vita dell’uomo sulla terra è una milizia…
    L’uomo moderno fa fatica a capire questi personaggi, che si cibano di locuste, che vivono di ascesi, che rifuggono qualsiasi ingannevole riedizione dell’Eden, qualsiasi giardino di rose fugaci, e che combattono per conservare la propria libertà, la propria libera scelta razionale, la scelta della verginità. Fa fatica perché vive ogni giorno nel giardino di Circe e di Armida: “frate asino”, come Francesco chiamava il corpo, tiranneggia e insegna anche all’anima a ragliare. Il diletto dei sensi è infatti il nostro corto orizzonte. Stare comodi, in tutto, avere l’ultimo modello di cellulare, l’ultimo servosterzo, che riduca a zero la fatica, il condizionatore e il ventilatore per non sudare; persino inginocchiarsi, se proprio si deve, in chiesa, con il morbido cuscino che attutisca la durezza del legno… In ogni minima cosa siamo così attenti al nostro corpo, a ogni suo segnale, che ne siamo divenuti schiavi: vi sono coppie che litigano, sino magari a lasciarsi, perché vogliono fare le vacanze in posti diversi, perché vogliono accessori diversi, macchine diverse, comfort diversi… Vogliono, vogliono, vogliono… E magari nessuno sa fare un passo indietro, dirsi di no, perché non lo ha mai fatto prima… La concupiscenza è così attaccata alla nostra pelle, che a fatica ci sappiamo staccare dalle brame più piccole, anche da quelle che farebbero ridere un bambino, un po’ ben educato. Una volta usavano i fioretti, piccoli sacrifici volontari, i digiuni del venerdì e della Quaresima: tante piccole attenzioni, per riaffermare a se stessi la superiorità degli appetiti razionali su quelli istintivi, la superiorità dello spirito sulla carne, la libertà dell’io da tutti gli oscuri richiami della materia. “Si mangia tutto, non si lascia niente nel piatto”: sono le parole dei nostri nonni, secondo un antico modo di educare alla comprensione dei beni materiali, che oggi però non sono più ammissibili. Perché siamo nell’epoca in cui l’uomo vive al servizio delle sue brame senza neppure rendersene conto. A scuola, sino a pochi anni fa, si veniva con la propria merendina, un panino, o una mela, da mangiare durante la ricreazione: ora i ragazzi si portano gli euro, in abbondanza, e alle macchinette attingono dolci, patatine, biscotti, a ogni ora, e tengono la bottiglietta di Fanta o di Coca-Cola sempre sul banco. Li abbiamo lasciati crescere come bestioline: quando hanno un bisogno fisico, mangiare, bere, alzarsi, devono subito soddisfarlo, immediatamente, altrimenti entrano in panico.
    Si dice spesso che oggi i giovani sono più vivaci di un tempo, e che non sanno stare seduti. La realtà è l’inverso: molto meno vivaci, perché troppo sazi di tutto, ma se il loro corpo vuole, non c’è nulla, dentro di loro, che sappia governarlo.
    Ecco quello che la Chiesa chiama schiavitù della cupidigia, perdita della propria libertà, della capacità di emergere al di sopra della nostra meschinità e dei nostri desideri, anche dei più violenti. Un tempo la concupiscenza, quella che influisce sulla sfera razionale dell’intelletto e della volontà, dominandoli, era condannata, addirittura, con un comandamento: “Non desiderare la donna d’altri”. Oggi, alla concupiscenza naturale, si aggiunge quella indotta dalla televisione, dai giornali, dalla moda imperante: e la donna d’altri è presentata a tutti come un bene usufruibile, in qualche modo, chi più, chi meno. Siamo a tal punto inondati da donne poco vestite, che spesso non si provano più neppure sensazioni forti, nel vederle. Specie in estate, è tutta una mostra di carne, di parti più o meno intime, al punto che alla sera, o sopravviene il desiderio di farsi frate, di andare a vivere nel deserto, oppure viene da dire, alla propria moglie: “Per oggi basta, sono sazio così”. Come avviene in Inghilterra, dove si ricorre alla fecondazione artificiale, spesso, perché non si ha più il tempo, o la voglia, di avere rapporti con la persona amata. La concupiscenza, infatti, come ogni cosa, per esistere, per compiere la funzione che le è propria, va dosata: altrimenti si arrotola su se stessa, si avvinghia, ma poi svilisce, perde vigore, viene meno. Come giustificare, diversamente, la crescita continua, nella nostra società, dei disturbi sessuali, dell’impotenza, dell’anorgasmia, o dell’ansia da prestazione? Come giustificare quei mariti, che alla fine di un rapporto, chiedono alla moglie come è andata, che voto meritano? O quei ragazzi, ancora molto giovani, che si fanno di coca perché il rapporto sessuale, sperimentato e bruciato già troppo presto, diviene una prestazione, difficile e impegnativa, per dimostrare qualcosa a se stessi?
    Oggi una persona esce per strada e assiste alla “democrazia delle pance al vento”: per partecipare basta un ventre, di qualsiasi dimensione, un paio di pantaloni attillati, a vita bassa, e una maglia corta. Non c’è più differenza di volti, di caratteri, di modi di comportarsi: a tutte è assicurato lo sguardo furtivo del passante, che parte dal basso, sale pian piano, e forse arriva, già sazio, al viso. Così divengono tutte terribilmente uguali, a parte la scanalatura del sedere, l’unica sui cui i designer di moda hanno ancora un po’ di gioco, e che ha sostituito quella antica, un po’ più “nobile”, del seno.
    Anche se sui sederi all’aria, a cui ci siamo ormai abituati molto in fretta, compaiono già dei tatuaggi, che guidano l’occhio, fino a un certo punto: per riaccendere la concupiscenza, che in realtà sta morendo, come morirebbe la fame, in un mondo con case di marzapane.
    Dico tutto questo, a costo di apparire come un retrogrado della peggior specie, perché come uomo, cattolico, so benissimo cosa sia la concupiscenza: figlio di famiglia benestante, senza mai una lira in tasca, rubavo di continuo, nei supermercati e nei negozi, e persino in casa, perché i miei vizi dovevo pur pagarmeli, in qualche modo. Ma ricordo anche, con grande gioia, una coscienza viva, e la lotta interiore, senza la quale l’uomo vive una vita statica, già soffocata dal rigor mortis, per eliminare queste mie cattive abitudini.
    E conosco, come tutti, la concupiscenza della carne, con la quale si lotta, e si perde, molto spesso, per cercar di vivere da fidanzati cattolici, cioè castamente, ogni giorno del fidanzamento.
    Il fidanzamento casto, infatti, è una delle fatiche chieste dalla Chiesa al cristiano: perché la concupiscenza, in sé neutra, apprenda quale è il suo ruolo, e il suo posto nella gerarchia della vita affettiva, e perché in realtà, come scriveva Gustave Thibon, “gli amanti intenti a cercare l’amore nel piacere non riescono a scoprire l’anima sotto i colpi di scalpello dei loro baci”. “L’amore impuro, infatti, – continuava il filosofo francese – affama l’uomo perché vive di cupidigia, mentre l’amore puro lo nutre perché vive per donarsi”, al punto che libertini e donnaioli, servi del primo, “in fondo sono quelli che godono di meno i segreti dell’animo femminile”.
    Per questo e per molto altro, dunque, la Chiesa pone delle regole riguardo al sesso, e non come si dice spesso, perché sia sessuofobica: paradossalmente per il cristiano il rapporto sessuale, nel suo ambito, è così naturale, che considera annullabile un matrimonio non “consumato”, e che ritiene vi sia peccato mortale quando uno dei coniugi si astiene dai rapporti oltre una certa misura.
    Chi parla di sessuofobia della Chiesa, a mio parere, non ha mai colto la sessuomania dei tempi odierni: quando c’era il cilicio, sicuramente non esistevano i pedofili, né i partiti di pedofili, né i serial killer per motivi sessuali…
    Non c’era nessuno che tagliava a fette i seni delle donne, come gli innumerevoli mostri di Firenze sparsi per il mondo, e neppure maschi adulti che trovano piacere nel guardare, seviziare, violentare, incatenare e talora uccidere dei bambini con molestie sessuali. Perché la pedofilia non è che un esito estremo della concupiscenza “liberata”, a cui sia stato tolto ogni freno.
    Testimonia un cyber-pedofilo: “Per mesi non ho sfiorato mia moglie. Non ci riuscivo. Lentamente il sesso era andato progressivamente spostandosi dalla sfera dei miei interessi primari. Quelle fotografie che scoprivo in rete, i racconti che leggevo, il pensiero fisso, maniacale, di diventare come loro, allontanava sempre più dal vivere il sesso come qualcosa di gioioso, sano, importante per una coppia innamorata”.
    La pedofilia, in fondo, è una forma di concupiscenza pura, che svincola il sesso dal suo fine (come avviene anche con la contraccezione), e si impone sull’intelletto e sulla volontà: non questione di mostri, ma di uomini che ad una tentazione, magari persino “umana”, dicono tranquillamente, violentemente di sì, come lo hanno detto mille e mille altre volte, prima.

    saluti

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    Predefinito La fuga dal giardino delle delizie

    Edoardo Camurri

    La concupiscenza mi fa venire in mente qualcosa di brutto.
    L’altro giorno, mentre mi stavo appisolando in una spiaggia di Fregene, ho ascoltato il seguente dialogo. “Me rode er c**o”. “Te rode er c**o eh?”. “Ma me rode me rode”. “Eh, te credo che te rode, quella nun te l’ha data”. “Nun sai quanto me rode er c**o”. “Me roderebbe pure a me, er c**o, se nun me la dava, la zoc**la”.
    Il resto della conversazione è inutile riportarlo. Come avrete già capito si tratta della ripetizione pura e semplice della struttura a canone delle Variazioni Goldberg: il contrappunto “Me rode er c**o” ritorna sempre, circolarmente, all’interno di queste considerazioni balneari sulla fornicazione (ma senza uno sviluppo retrogrado, che Bach ci avrebbe invece senz’altro regalato, del tipo: “Oluc re edor em”).
    Dicevo, la concupiscenza mi fa venire in mente qualcosa di brutto. Circa un mese fa, la stampa riportava la seguente notizia: “Foreste del Borneo centrale (…). Una femmina di orangutan (…), tutta depilata, lavata e profumata, le labbra tinte di rosso, legata a un letto e messa a disposizione dei clienti. Fuori gli uomini facevano la fila”. E’ qualcosa che richiama, volendo buttarla in letteratura, quanto scriveva Paul Valéry nei suoi “Cattivi pensieri” (Adelphi): “La grande scimmia colombiana, quando vede l’uomo, fa subito i suoi escrementi e glieli getta a piene mani, il che prova:
    1. che è veramente simile all’uomo;
    2. che lo giudica rettamente.
    M. de Loys risponde a questi lanci di feci con dei colpi di fucile. La grande scimmia femmina cade. (Il maschio scappa). L’uomo sapiens la solleva, la osserva e misura il clitoride di straordinaria lunghezza, raddrizza il cadavere e gli fa una bella fotografia”.
    Tutto è abiezione. E la concupiscenza è ovunque. Non solo a Fregene, nel Borneo o in viale Mazzini 14 ma anche dove uno meno se l’aspetta, per esempio a Torino (anche perché, con rispetto parlando, Fregene, viale Mazzini e le foreste del Borneo, in un’ipotetica classifica mondiale della buona creanza, si posizionerebbero in quella che solitamente sarebbe la zona retrocessione).
    Se volete posso essere ancora più circostanziato.
    Era la notte del 31 dicembre del 2005 e mi trovavo in un appartamento mediamente borghese di Torino (arredato in stile chippendale) a festeggiare il capodanno con degli amici. Niente di strano. Ho degli amici (alcuni amici) che sono il massimo della noia (so che potranno sembrare dei luoghi comuni, ma giuro che è tutto vero: questi amici pensano quello che è giusto pensare; si sono laureati in tempo; votano progressista; nel momento opportuno, cioè dopo i dubbi adolescenziali, si sono convertiti al cattolicesimo; ognuno ha la sua brava bandierina della pace penzolante dal balcone; fanno la spesa equosolidale; a venticinque anni si sono sposati tutti; mangiano biologico, a Natale propongono regali di beneficenza; finanziano Emergency; bevono poco; fumano per niente; eccetera). Descritti così potreste pensare che tra loro e la concupiscenza ci possa essere lo stesso rapporto che intercorre tra gli asparagi e l’immortalità dell’anima. Ma vi sbagliereste.
    Perché a un certo punto, quella sera, subito dopo il cenone, i miei amici si sono messi a guardare la televisione. La scelta, con risolini starnazzanti, è finita su un programma che mostrava:
    1. Tecniche per il petting;
    2. Come fare un pompino con il risucchio;
    3. Come masturbare una donna e regalarle un orgasmo strepitoso in meno di due minuti.
    Mancavano soltanto le istruzioni su come infilare un preservativo con la bocca e la trasmissione sarebbe stata perfetta. Non nascondo il fatto che ero inorridito. Anzi, mentre li guardavo male, i miei amici mi avevano persino dato del bacchettone. Dico: loro a me. Insomma, non erano loro a essere squallidi (cazzo, dei trentenni che della noia hanno fatto la loro gioia di vivere) ma io che gli dicevo di farsi furbi, che non offrivano a se stessi un’immagine esteticamente (sottolineo: esteticamente) edificante. A questo punto sarebbe stato meglio fare un’orgia. Cioè, pensavo, loro avrebbero sì desiderato l’orgia, ma per via del super Ego, figurarsi se avevano il coraggio di proporla. Perciò eccoli lì, per salvarsi l’inconscio, a eccitarsi su come il dito medio può stimolare il clitoride di una bamboletta gonfiabile.
    E lo squallido ero io.
    Secondo voi, perché racconto questo episodio? Per mostrare come la concupiscenza, in quanto brama di piaceri sensuali, è ovunque tanto in una Torino chippendale quanto nelle foreste selvagge del Borneo. Si tratta solo di gradi diversi, ma l’abiezione, sotto sotto, è la medesima.
    D’altronde basta fare una riflessione etimologica. Se la tesi è che la vita è concupiscenza, allora si prenda la parola più neutra di questo assunto iniziale: “Vita”.
    “Vita” in tedesco si dice “Leben”; il termine è imparentato con “Bleiben” (“restare”; beleiben = den Leib geben, “dare il corpo”); l’affinità è con il greco “liparein” e, analogamente, con il latino “lippus” (gocciolante); la radice indoeuropea di “lippus” è “leip” (grasso, unto, sudiciume), “seme maschile”. Vita, sporco e attività sessuale sarebbero quindi la stessa cosa. Non so se questo ragionamento vi provochi un qualche rodimento di culo o meno, certo è che, in alcune sue conseguenze, porta a considerazioni di tipo universale. Ma prima di arrivare all’universo è meglio aspettare ancora un attimo.
    Non so voi, ma il male, volendo, si vede ovunque. Intanto, nei miei momenti schopenhaueriani, quando mi rendo conto che ogni cosa è volontà di riproduzione, di perpetuazione della specie e che tutto questo, in quanto tale, non è per niente una tragedia da poco; poi nel minimalismo con cui questa fame di esistenza s’incarna. In genere riguarda le coppiette che il sabato pomeriggio si prendono per mano, che guardano le vetrine con sguardo bovino, che si chiamano pallino e pallina e che ai passanti (tutti prevertiani) suscitano quel sentimento abominevole che è la tenerezza. Anche questa, benché mascherata, è concupiscenza vera e propria. Ma con una aggravante: è concupiscenza infelice, unicamente riproduttiva, di tipo famigliare. Da una concupiscenza di questo tipo non sono mai venuti fuori santi (San Francesco, Sant’Agostino e persino Gilles de Rais) ma semplicemente carne, carne per il disegno darwiniano del mondo.
    Appunto, il mondo.
    Ecco, quando si prende posizione su un argomento qualsiasi bisognerebbe avere ben chiaro il tipo di universo in cui viviamo.
    Prendiamo il caso della concupiscenza e formuliamo tre ipotesi.

    1: L’universo è infinito e uniforme.
    In questo caso è una verità matematica inconfutabile che in un universo siffatto tutto quello che può succedere succederà, e che succederà un infinito numero di volte. Se c’è una probabilità finita, anche minima, che una sequenza di eventi si verifichi, ed esiste un’infinità di luoghi dove può realizzarsi, il tentativo riuscirà necessariamente un infinito numero di volte. Tutto questo significa che la scimmia del Borneo è infinitamente violentata, che i due di Fregene stanno ripetendo all’infinito che gli rode il culo, che in televisione, da qualche parte, ci saranno sempre trasmissioni che raccontano come fare il pompino con risucchio, che tette, cazzi e culi saranno infinitamente intercettati, eccetera. Non c’è scampo. E soprattutto, in un universo infinito e uniforme, non ha alcun senso formulare giudizi di valore perché i valori sono sempre relativi a qualcosa; se l’universo è infinito, se l’essere è tutto, tutto quello che capita, unicamente per il fatto che capita, ha in sé la sua ragione.

    2: L’universo è finito ma il tempo in cui si trova è infinito. E’ la situazione famosa in cui una scimmia che batte a caso i tasti di una macchina da scrivere, se potesse disporre di un tempo infinito, comporrebbe senz’altro la Divina Commedia e ogni altra cosa scritta nella storia dell’umanità. E’ l’eterno ritorno dell’uguale: se il tempo non ha fine, un numero determinato
    di atomi si combinerebbe senza sosta in tutte le forme che le leggi della fisica contemplano come possibili.
    Anche in questo caso ci troveremmo in pieno irrazionalismo e verrebbe meno ogni concetto di giustizia umana. Insomma un Woodcock qualsiasi condannerebbe in eterno i concupiscenti e i concupiscenti si troverebbero eternamente condannati senza alcuna possibilità di redenzione. Se la pena dev’essere riabilitativa, nell’universo dell’eterno ritorno la pena sarebbe invece perpetua. Se l’umanità dovesse vivere in un universo siffatto occorrerebbe quindi abolire le carceri o rivedere completamente il concetto di giustizia. Le conseguenze per l’umanità sarebbero enormi. I delitti sarebbero accettati in quanto non punibili.

    3: L’universo, in tutti i suoi aspetti, è finito. E’ il caso più semplice perché questo sarebbe l’universo in cui tutti si illudono di vivere. Per un non credente la situazione è di poco interesse: si arrangia come può, vive la sua storia e decide come, di volta in volta, comportarsi (potrebbe essere libertino o casto, gentiluomo o delinquente ma ogni atteggiamento sarebbe unicamente un fatto privato di cui, rispetto agli altri, è soltanto in una certa misura responsabile). Per un credente invece tutto è più interessante: scommette infatti che ogni sua azione qui avrà una ripercussione là, in un mondo ultraterreno che trascende l’universo finito post-caduta.
    La sua vita dovrà essere improntata a quella successiva perché il mondo altro non è che una pista di decollo. In un universo di questo tipo sono quindi necessari i giudizi di valore e un esercizio arguto della razionalità. Nel caso della concupiscenza, il credente che se la ritrova tra le gambe dovrà saperla volgere a suo vantaggio.
    Ma anche qui c’è un inganno. Scriveva Flaubert nella “Tentazione di Sant’Antonio” (adottando, dalla parte del credente, l’ipotesi numero tre sull’universo):
    “Vorrei avere delle ali, un guscio, una scorza, una proboscide, soffiare fumo, attorcigliarmi, scompormi, essere in ogni cosa, esalarmi con gli odori, svilupparmi come le piante, scorrere come l’acqua, vibrare come il suono, brillare come la luce, acquattarmi sotto ogni forma, penetrare in ogni atomo, scendere fino al fondo della materia, essere la materia”.
    E’ la migliore definizione di concupiscenza che abbia mai trovato. La concupiscenza come possibilità di superare il mondo abbracciandolo per intero. Ma a leggere bene, più che un’esortazione alla salvezza, Flaubert descrive il mondo terribile di Hieronymus Bosch: un mondo in cui persino una femmina di orangutan violentata da una fila di uomini troverebbe qualcuno disposto ad amarla.
    Comunque la si metta, l’universo è tiranno.

    saluti

  6. #16
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    Predefinito Il piacere è narciso

    Saverio Vertone

    Non ho nessuna intenzione di parlare delle mie personali esperienze sul tema proposto da Giuliano Ferrara come compito per le vacanze.
    La concupiscenza infatti è teoricamente interessante negli altri, ma poco credibile nelle confessioni personali.
    Io, poi, mi esporrei al rischio di rendere sospetta la testimonianza perché troppo filtrata dalla memoria; oppure di apparire affetto dalla sindrome erotomaniaca senile di De Clairenbaudt (un medico della Salpetrière che, alla fine dell’Ottocento, descrisse le intemperanze di un signore ultraottantenne, cateterizzato da anni, al quale non si poteva far vedere una donna senza scatenare un putiferio).
    Del resto negli svolgimenti in prima persona più famosi (Casanova, De Sade) sembra prevalere quella particolare concupiscenza di sé che è il narcisismo, e cioè un desiderio opaco e ossessivo, accompagnato da piaceri statistici, aridi, e dalla prigionia nella solitudine.
    Io preferisco di gran lunga la concupiscenza esterna, quella che punta a ciò che sta fuori di sé e che in qualche misura si sublima in metafisica, perché fuori di me comincia un mondo che sta sopra di me. La via più ricca di sorprese per scivolare nel fondo di noi stessi e di lì spiare ciò che ci attira fisicamente e spiritualmente negli altri, passa a mio avviso attraverso la filologia, e cioè attraverso la spremitura a freddo delle parole per ricavarne il significato nascosto. Il frantoio da usare è quello dell’analisi etimologica. Lì c’è tutto quello che serve non già per esercitare la concupiscenza ma per evocarla e capirla.
    Tanto per cominciare, ammetterete che la parola concupiscenza ha a che fare con il verbo concupere e che il verbo concupere, della tarda latinità, rimanda a quello assai più fresco e giovanile di cupere. Né potrete negare che cupere (da cui Cupido, figlio di Venere) vuol dire semplicemente desiderare. Qui, però, casca il povero asino, perché: da dove viene allora desiderare? Credo che pochi lo sappiano, anche se è facile avvertire nel fondo del comune sentimento linguistico una strana risonanza con parole quali considerare e assiderare, dove si agita e scalpita la radice latina di sidus “astro” o meglio “metallo” (da cui “siderurgia”).
    Ed ecco il colpo di scena. Infatti sarete certamente sorpresi nell’apprendere che il verbo italiano desiderare è un prestito dal gergo militare romano. Negli eserciti degli Scipioni, dei Pompei e dei Cesari, organizzatissimi, stando a Polibio, una squadra di tribuni era incaricata di redigere, durante la notte, l’elenco dei soldati che non si presentavano all’appello dopo la fine di una battaglia.
    Per considerarli morti la prassi imponeva di aspettare il mattino seguente, quando si poteva sigillare l’accaduto nella formula rituale, che recitava testualmente: tot milia militum desiderati sunt.
    Con questo giro di parole si voleva semplicemente far sapere che quel dato numero di soldati era stato aspettato invano (e con trepidazione) fino al tramonto delle stelle.
    Appare così finalmente chiara la parentela tra considerare (osservare alla luce delle stelle), assiderare (perdere calore nella notte stellata) e desiderare. Il senso della mancanza e della trepidazione è dunque passato (chissà attraverso quali peripezie) dal gergo militare al linguaggio comune, e indica ormai l’attesa di una cosa che sfugge, e in generale l’impulso che ci porta fuori di noi stessi, con trepidazione e amore per ciò che ci aspetta. Nel termine, come nell’esperienza pratica, è rimasta conficcata la spina di quella attesa trepidante, di quella speranza di veder comparire qualcuno, di quel timore di perdere una percezione segreta della vita, che sono appunto la delizia ma a volte la croce e l’esasperazione del desiderio.
    Quando l’esasperazione prevale si passa appunto dalla leggerezza dell’amore alla pesantezza della concupiscenza, che è una forma, non priva di fascino, e però ossessiva, maniacale e spesso distorta del desiderio amoroso.
    C’è già tutto nella lingua, perché è evidente che concupere è un’esagerazione di cupere, cioè un’intensificazione del desiderio, che ci porta prima o poi a sbattere nella parola libidine. Strano destino quello riservato a libido, nell’area latina. La radice è così innocentemente apparentata al tedesco Liebe, al russo ljubov e all’inglese love (tutte parole legate all’aquilone trasparente
    dell’amore) da rendere poco credibile il significato losco che libidine ha assunto in latino e ancor più in italiano slittando verso il fondo melmoso, cupo, illuminato dai lampi sinistri del concupire, e cioè di un sentimento che non ha più nulla a che fare con il volo dell’aquilone.
    Al punto che, per colmare la lacuna, già i latini dovettero ricorrere a una radice etrusca (amu) o forse addirittura egizia (meri), da cui amor e quindi amore.
    Entrando finalmente in medias res, anticiperò qui, con un certo ritardo, il mio giudizio finale sulla concupiscenza.
    La quale è una forma estrema di desiderio, che si accanisce proprio là dove incontra la massima resistenza: per un ostacolo fisico o un divieto morale. E mi sembra che pochi uomini abbiano sperimentato fino in fondo questa condizione psicologica come sant’Antonio nel deserto al momento delle sue famose tentazioni, durante le quali pare che il diavolo lo abbia stimolato sia con la concupiscenza, e quindi con l’apparizione di corpi femminili in posizioni provocanti, sia con la cupidigia, attraverso la promessa di mettere nelle sue mani città e imperi del mondo (vedere in proposito Flaubert). Dobbiamo dunque al cristianesimo e alla Chiesa cattolica la preservazione di un modello addirittura ingigantito del più prezioso giocattolo (il culto mistico del sesso) di cui siamo stati forniti dalla natura o da Dio.
    Ed è interessante notare come questo giocattolo rischi di andare in frantumi proprio adesso, in seguito alla liberazione sessuale che, abbattendo l’ostacolo, ha abbassato la tensione (come capita ai bambini, quando smontano le loro macchinette per vedere cosa c’è dentro).
    In ogni caso l’abbattimento dell’ostacolo ha consentito la dispersione in rivoli sparpagliati di quella particolare energia che occorre per desiderare l’anima di un’altra persona attraverso il suo corpo. Del resto, anche le centrali elettriche producono watt solo se a monte è stata alzata una diga e sono state incanalate nella condotta forzata le acque che altrimenti sarebbero scese allegramente in ruscelli sparsi e deboli verso la pianura.
    Solo la condotta forzata fa girare a pieno ritmo le turbine. E questo è il Viagra dell’elettricità.
    Per parlare di me solo un momento, devo riconoscere che l’altissima diga che regnava ai tempi della mia giovinezza mi ha permesso di accumulare un capitale di interesse per i grembiuli bianchi delle mie compagne di scuola (ma non di aula), sufficiente per vivere a lungo di rendita, almeno sotto l’aspetto della curiosità, anche senza bisogno dei grembiuli. E, visto che ormai ho tralignato, non mi priverò a questo punto del miserabile piacere di dire una cosa sensata e cioè che tra repressione e liberazione, tra accumulo della diga e libero flusso dei ruscelli è tutta questione di misura: la diga ci vuole, ma ovviamente non deve essere troppo alta, altrimenti compaiono i talebani.
    Di Viagra in Viagra possiamo così approdare felicemente alla “seduzione” esercitata dalle vesti che ricoprono un corpo, il quale a sua volta nasconde quella cosa indefinibile che chiamiamo anima, soffio, alito, psiche. Ed è qui che incontriamo la parola “lascivia”, passaggio tanto gradito quanto obbligatorio. Secondo il vocabolario etimologico del Meillet, l’aggettivo lascivus vale il francese folâtre, joueur, pétulant. Meillet aggiunge: “Se dit des animaux, des enfants: lasciva capra, lasciva puella (Vergil). De là ‘provoquant’, ‘agaçant’, et par suite ‘qui provoque le désir, lascif, licencieux : lascivum femur (Ovide)”.
    Interesserà sapere en passant che il termine latino foemina viene appunto da femur. Questa ulteriore scorribanda nelle lingue suggerisce un’interpretazione speculare della parola concupiscenza, proprio attraverso la parola lascivia.
    Mi pare difficile infatti usare questa espressione per descrivere l’eccitazione sessuale di un uomo, mentre si adatta benissimo a quella di una donna, perché rimanda al desiderio di suscitare desiderio nel corpo altrui e ci permette di attribuire al piacere femminile il quadrato della sensualità in quanto piacere del piacere.
    Naturalmente questa provocazione non ha niente a che fare con l’esibizionismo maschile che è una millanteria stupida esercitata a spese del proprio stupidissimo organo (che non a caso i latini hanno deriso chiamandolo mentula, piccola mente, per la sua pretesa di fare di testa sua senza ubbidire a nessuno).
    Lascivia invece è alludere con intelligenza, scoprirsi coprendo, fuggire per farsi inseguire, accarezzare per essere accarezzate, non guardare per essere guardate, apparire eccitate per eccitare, chiudere e muovere gli occhi per farne rifulgere la luce, parlare usando la voce come uno strumento di richiamo, esprimere valutazioni, giudizi, sensazioni per attirare la curiosità su ciò che sta dentro l’involucro del corpo, il quale si muove attraverso il rivestimento simbolico e enfatico degli abiti che accentuano e interpretano le sinuosità femminili.
    Sarebbe però interessante capire che cosa significhi oggi l’esibizione dell’ombelico, a quale seduzione, tra le tante possibili, appartenga l’esposizione della pancia e dell’orlo delle mutande. Sicuramente c’è un logos anche in questo, perché per quanto effimera la moda esprime sempre movimenti assai più profondi di quelli che ostenta. C’è un senso in tutto ciò che sembra non avere senso. Ma per eliminare ogni dubbio sulla femminilità della lascivia, basta chiedersi chi può essere definito lascivo tra Marco Antonio e Cleopatra, o tra James Bond e Kim Basinger e ancora tra Paul Newman e Sharon Stone. E’ chiaro comunque che Cleopatra e anche Madonna (la cantante) eccellono nel meritarsi l’aggettivo. Il quale invece non si addice quasi mai alle veline, tuttalpiù procaci ma raramente seducenti (lascivus femur = coscia procace).
    E adesso basta con le parole. Continuerò a servirmi di vocaboli senza disturbare le loro viscere. E cercherò di trovare l’origine di ciò che chiamiamo sesso, attrazione sessuale, istinto, attraverso uno sforzo della mente (che spero non si comporti come una mentula).
    Non sono un biologo, ma so che chi studia la materia ha scoperto da tempo la presenza nel nostro organismo di sostanze chimiche in qualche modo imparentate con le droghe (si chiamano endorfine).
    Questi stupefacenti naturali ci aiutano ad attraversare momenti difficili o a esaltare quelli piacevoli. La cosa strana è che queste endorfine compaiono sia durante l’orgasmo (e si chiamano “orgasmine”) sia durante l’agonia (e si chiamano “agonine”).
    A quanto ne so la composizione delle orgasmine e delle agonine è identica.
    Le prime servono a esaltare il piacere durante l’accoppiamento, le seconde ad attenuare il dolore degli spasimi mortali e a stampare sul volto dei moribondi quell’indefinibile sorriso di riconciliazione con il mondo che si pietrifica poi nell’espressione dei defunti.
    Questa parentela chimica ci porta all’origine della materia vivente, della procreazione e della morte, e unifica questi tre aspetti della nostra esistenza (vita, riproduzione e decesso) facendoci intravedere il primo anello di quella lunga catena biologica alla quale siamo appesi anche noi come anello terminale. Gli organismi unicellulari, che sono stati i primi a comparire in questa catena, si riproducevano semplicemente morendo. Strangolandosi da sé, la cellula a poco a poco si spaccava a metà. A quel punto erano nati due nuovi esseri viventi, e la morte coincideva in termini immediati con la procreazione e con la nascita e dunque con la vita. E’ una singolare coincidentia oppositorum, che mi impone di tornare ancora una volta sulle parole, evocando dall’antichità greca il mito di Eros e Thanatos, e dalla lingua francese la definizione dell’orgasmo come “pétite mort”.
    Non so se le cellule, dividendosi, provino lo stesso piacere che noi proviamo accoppiandoci. Loro si dividono per sdoppiarsi e noi ci uniamo per raddoppiarci. Forse siamo più fortunati noi. Ditemi però se tutto questo non nasconde e allo stesso tempo non rivela un significato misterioso e inesorabilmente sfuggente di ciò che sappiamo del desiderio, dell’eros e del sesso. A me pare che proprio in questo punto preciso (come nella nascita dell’universo, il famoso Big Bang) la scienza si affacci sulla trascendenza dell’ignoto; e che con tutte le sue esagerazioni, la concupiscenza si riveli come l’esasperazione di un’insaziabile curiosità che tende a trascinarci fuori dei nostri limiti.
    Ci sono indubbiamente modi migliori per guardare fuori di noi. Ma questo è il più frequentato e comune, proprio perché combina strettamente impulsi materiali e spirituali, sensibili e mentali (mentula a parte).


    saluti

  7. #17
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    Predefinito Meglio perdersi nella passione....

    ....che perdere la propria passione

    Fabio Canessa

    La voglia di scopare è essenzialmente desiderio di fiction, brama di liberare l’immaginazione. “Solo la fiction può salvare dalla tremenda delusione di essere nati”, confida la nonna ad Alexander Jardin, figlio del Pascal sceneggiatore di successo del cinema francese anni Settanta, “la felicità appartiene a coloro che si raccontano storie gustose e che hanno la capacità – o il coraggio – di crederci”.
    Convinta che i romanzieri siano superiori ai geometri e che la lucidità sia una trappola, l’arzilla nonnina è la matriarca di quella che il romanzo autobiografico di Jardin definisce, fin dal titolo, “Una famiglia particolare”.
    Il cui unico insegnamento raccomandava di “amare in maniera irragionevole e, se possibile, rovinosa”. Per questo l’ingorda vecchietta dormì fino all’ultimo giorno con le finestre aperte, “nel caso in cui un ladro lubrico avesse avuto il buon gusto di restituirle le vertigini dei suoi sedici anni”, e consigliava ogni sera alle nipoti di fare altrettanto: “Non si sa mai!
    Perdersi un orgasmo le pareva l’inizio della decadenza morale. L’astinenza carnale sulla soglia della vecchiaia la scandalizzava”. Per questo, l’ex-convento in cui la famiglia Jardin ha vissuto e il piccolo Alexander è cresciuto, non solo ospitava ogni giorno stuoli di amanti di entrambi i sessi che servivano ad appagare i sensi di papà e mamma, spensieratamente adulteri al punto che definirli una coppia aperta suona come un pudico eufemismo, ma prevede come appendice un capanno riservato alle coppie illegittime, amiche di famiglia, sul tetto del quale i piccoli Jardin sbirciavano, fin dalla tenera infanzia, i più spericolati e perversi giochi erotici.
    Come quelli di due coniugi che, in forma clandestina, usufruivano separatamente del capanno per farsi frustare dai rispettivi amanti. Ricorrendo a “sotterfugi complicati” per “ottenere beatitudini identiche”, sono la prova di come le coppie non siano che “delle macchine destinate a non capirsi e a vivere di sogni”. Anzi, destinate a non capirsi proprio perché la concupiscenza si nutre di sogni, spesso incomunicabili e privatissimi, in quanto frutti dell’immaginazione più intima. “Strapieni di vitalità e avidi di contraddizioni”, i Jardin elevano l’erotismo a forma d’arte, per allergia al mondo borghese benpensante e “come un atto di resistenza contro l’afflosciamento contemporaneo”.
    La loro è una scelta di stile, aliena dal senso del limite e da ogni macchia che potrebbe contaminare con la moralità una spensierata adesione a tutte le forme di piacere. Un’“allegria tragica”, che non si arresta di fronte ai numerosi suicidi in famiglia, un “talento per ravvivare la quotidianità” che si compiace di incredibili bizzarrie.
    Il gustoso resoconto contiene una tenia che viene trasferita dal ventre della governante, amante del nonno, a quello della nonna, un amico di famiglia eroinomane che si accoppia more uxorio con una scimmia, che finirà uccisa da un’overdose, una caccia allo yeti stimolata “da inedite prospettive erotiche” per chi sogna “una seduta fornicatoria con la creatura neandertaliana”, uno zio pedofilo, un nudista integrale dall’età di dieci anni continuamente arrestato dalla polizia, la regola di battere i radiatori con le scarpe per comunicare le proprie copule ai familiari, il pappagallo dell’amante della nonna tumulato nella tomba di famiglia, sodomizzazioni improvvise, una poligamia diffusa come norma, una stanza foderata di riviste pornografiche che raccoglie “tutti i coiti d’Europa, tutte le perversioni impilate in fragili verticali” e altre delizie simili.
    Il motto, che potrebbe ergersi a stemma araldico dei Jardin, è “Chi si perde nella propria passione ha perduto meno di chi perde la propria passione”.
    Quest’orgia di “disordini affettivi” e “virtuosismi fellatori” appare come l’unico modo di “fare crepitare gli attimi, di tuonare per coprire gli accordi del quotidiano”. Per far sì che “la nostra vita immaginaria avesse lo stesso peso, se non maggiore, della nostra vita reale”. La fame di sesso si identifica con il bisogno di “romanzesco”.
    E per liberarsi di questa non-educazione, Alexander Jardin, oggi quarantenne, dopo che i bislacchi componenti della sua famiglia sono quasi tutti nella tomba e quel mondo appartiene ormai a un passato insieme inquietante e spassoso, regola i conti scrivendo appunto un romanzo, per serbare ricordo di quel “repertorio sentimentale strampalato” e contemporaneamente per liberarsene.
    Con un misto di affetto e repulsione che traspaiono da questo Bildungsroman alla rovescia, un romanzo di deformazione. Solo con “la santa follia della scrittura” è possibile esprimere la folle verità di un mondo costruito sulla menzogna, ebbro della propria sfrenata immaginazione, incapace di sottomettersi alle regole della normalità.
    Incantato dall’aver visto “per davvero il cinismo in azione” e al tempo stesso incredulo di essere uscito da quel bordello di follie senza essere passato dal manicomio, lo stesso Alexander si descrive come “un sognatore che detesta il reale e apprezza solo la verità”, definizione che calza a pennello anche per il dna dell’arte narrativa.
    Un buon romanzo è per l’appunto “una menzogna che dice la verità”.
    E nel finale di quello di Jardin arriva addirittura Alain Delon, figura che incarna alla perfezione una natura ibrida fra vita reale e dimensione da fiction, per ammonire lo scrittore a non aprire il diario che contiene la storia vera della famiglia Jardin e di scegliere al contrario quell’affascinante impasto di ricordi e immaginazione di cui è fatto il nostro sguardo sulle cose, ma, prima ancora, di cui si alimenta ogni nostra esperienza erotica.
    La concupiscenza diventa così misura dello stare al mondo, metafora sperimentabile quotidianamente dell’essenza stessa della vita.
    Stendhal, più pessimista nei confronti della capacità umana di relazionare con il reale, delegava la sfera erotica interamente all’immaginazione: “L’uomo – scrive in “De l’amour” – ama soltanto ciò che è amabile, ciò che è degno di essere amato. Ma non esistendo - a quanto pare – nella realtà, deve immaginarselo. Le perfezioni immaginarie sono quelle che suscitano l’amore”.
    Ne consegue che amare significherebbe di per sé cadere in errore.
    Ariosto e Proust sarebbero d’accordo.
    Non certo José Ortega y Gasset, fine esegeta del desiderio amoroso, al quale ha dedicato pagine illuminanti. Senza approvare le scatenate depravazioni dei Jardin, ne condividerebbe però l’assunto di base, cioè la stretta parentela tra erotismo e letteratura, entrambi figli delle fantasticherie private. Anzi, Ortega y Gasset va oltre, dimostrando come l’unico modo per svelare l’intimità decisiva del carattere di ognuno sia analizzare la scelta dell’amata. Partendo dal presupposto che “siamo, innanzi tutto, un sistema innato di preferenze e rifiuti”, e che la “commedia delle buone intenzioni”, formata dalle azioni e dalle parole che recitiamo, in buona fede, per gli altri e per noi stessi, è solo una pantomima sociale frutto di idee ricevute, individua nella “scelta in amore” lo smascheramento dell’essenza della personalità.
    L’unica crepa che ci consenta di sondare in profondità il nostro animo più autentico. E’ naturale che “l’uomo si senta attratto, trascinato verso la donna che ancheggia davanti a lui”: senza questa pulsione non esisterebbero né il vizio né la virtù. Già Beaumarchais aveva scritto che “bere senza sete e amare in qualsiasi momento è l’unica cosa che distingue l’uomo dall’animale”.
    Colpa, o merito, ancora una volta, dell’immaginazione, altra caratteristica peculiare della razza umana. “Se l’uomo – argomenta Ortega y Gasset – non possedesse un’immaginazione così generosa, non riuscirebbe ad ‘amare’ sessualmente, come invece fa, ogni volta che se ne presenta l’occasione”.
    Ed è ingenuo liquidare la faccenda, raccontandoci che si tratta di istinto: “La maggior parte degli effetti che si attribuiscono all’istinto non deriva da esso. Se così fosse, si manifesterebbero anche nell’animale. Per i nove decimi quanto viene attribuito alla sessualità è opera del nostro magnifico potere di immaginazione, che non è un istinto, ma il suo esatto contrario, ossia una creazione”. Chissà se le femministe sarebbero d’accordo con le conseguenze che Ortega y Gasset ne trae, affermando che la maggiore moderazione sessuale della donna deriverebbe da un minore potere immaginativo. In ogni caso la scelta d’amore non è mai veramente libera, ma dipende “dal carattere innato del soggetto”.
    C’è chi si innamora solamente di un corpo e chi di un’anima, a seconda della “propria specifica essenza”: ma, in entrambi i casi, la scintilla scocca dalla visione esteriore. Dalla quale è un luogo comune pensare che si scorgano solamente le caratteristiche fisiche: “Quando ci confrontiamo con una creatura della nostra specie ci si svela immediatamente la sua intima condizione”.
    La conoscenza visiva è fondamento di ogni tipo di concupiscenza. Ma, poiché niente accade senza motivo, la fonte dell’attrazione è originata dalla razionalità che presiede alla tessitura delle nostre relazioni, cioè della nostra vita. Si potrebbe perfino ripercorrere la storia del mondo, analizzando la “storia dei tipi femminili che man mano sono stati preferiti”. L’amore dunque non è cieco. Anzi, ci vede benissimo. E se gli capita di sbagliare, condivide l’errore con gli occhi e le orecchie. Ma, al contrario di quanto pensava Stendhal, l’amore ha sempre bisogno di un oggetto che mostra “qualche motivo di affinità che ci porti a supporre che quella donna, e non un’altra” sia “substrato e soggetto di quelle grazie affascinanti” che sembrano accordarsi perfettamente ai nostri desideri. Avete mai fatto caso che le persone, per tutta la vita, perseverano “all’interno di un invariabile schema di scelta amorosa”, rappresentato magari da donne diverse?
    Occorre certo distinguere tra l’arrapamento effimero e l’amore, che tende a essere esclusivo e “implica un’intima adesione a un certo tipo di vita umana che ci sembra il migliore e che troviamo già formato, incarnato in un altro essere”.
    Mentre l’impulso sessuale può scattare dieci volte al giorno, nell’arco di un’esistenza non si contano più di tre o quattro amori. Tutto però dipende “dal carattere innato del soggetto”.
    E tutto è innescato da quella prodigiosa capacità immaginativa che ci rende avidi di fiction. Per questo i grandi amori della letteratura sono inappagati, dalla Beatrice di Dante e dalla Laura del Petrarca in poi: condannati a sublimare il desiderio, i poeti non possono cantarne la realizzazione.
    “L’amore puro è amore che non si realizza, tutto tensione, affanno, anelito” e “il desiderio muore automaticamente quando si realizza, finisce quando si appaga”.
    Insomma, l’appagamento è la morte della concupiscenza. La lussuria è allora l’esatto contrario dell’istinto, è “una creatura specificamente umana”.
    “Come la letteratura – chiosa José Ortega y Gasset – in entrambe, il fattore più importante è l’immaginazione”.
    Bisognerebbe quindi studiare la lussuria “come un genere letterario che possiede origini, leggi, evoluzione e limiti propri”.
    Che errore affidarla agli psichiatri!

    saluti

  8. #18
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    Predefinito La verità degli esseri umani è che….

    ….siamo i soli a ridere

    di Giulio Meotti

    Ludwig Wittgenstein il 19 settembre 1916 scriveva nel suo diario: “L’umanità ha sempre mirato a una scienza nella quale simplex è sigillum veri”. L’aspirazione alla semplificazione è una delle energie intellettuali che hanno fatto progredire la scienza. Ma il tentativo di trovare simmetria e semplicità nel tessuto vivente ha anche prodotto una minaccia dirompente quanto l’islamismo: il biologismo. La realtà serve a confermare previsioni e, se non è in grado di farlo, viene sostituita da una nuova realtà. Si parla di “informazione biologica”, maestosa ipostasi di biologi diventati meccanici delle cellule. La biologia si accontenta di essere “una nota in calce alla teoria dell’evoluzione”, come vorrebbe il fanatico Richard Dawkins, restando muta sull’“inaudito e inspiegabile miracolo della bellezza” di cui parlava nel 1967 il cardinale Joseph Ratzinger.
    Ciò che in materia si considera profondo ci conduce sempre più all’odio verso ciò che è vivente. E la nostra epoca finisce per aderire a un celebre motto faustiano: “Eritis sicut diaboli, scientes bonum, facientes malum”.
    Il nuovo libro di Roger Scruton, “A political philosophy. Arguments for Conservatism” (Continuum), è una ripresa del cuore del conservatorismo inglese attraverso un pamphlet delle questioni non negoziabili.
    Il seduttore di Wiltshire, l’elegante visitatore di lazzaretti che si è inventato un genere letterario, il lamento, torna su molti temi che mettono in discussione la categoria del “vivente”, al centro delle sue opere più significative, a cominciare da “Sexual Desire”. Si va dalla scienza del sesso (e dell’uomo) al darwinismo alla legalità biologica, dal matrimonio all’aborto, dall’islamismo all’idea di persona, attraverso le suggestioni di uno stilista della morale che rimpiange il tempo in cui la filosofia si sforzava ancora di indicare delle “stelle di senso”.
    Docente di estetica all’università di Londra, visiting professor a Princeton e Stanford, raffinato critico della cultura e della modernità tecnica, thatcheriano per vocazione, Scruton ci racconta le tracce di questa ricerca su l’homme de l’homme e l’homme de la nature.
    Il premio Nobel James Watson ha detto che la scoperta del Dna ha posto fine a un dibattito vecchio quanto la specie umana: “La vita ha qualcosa di magico, un’essenza mistica, o è come qualunque altra reazione chimica? C’è qualcosa di divino al cuore della cellula? La doppia elica risponde alla domanda con un no definitivo”.
    “Tutte le forme di riduzionismo infettano –spiega Scruton al Foglio – E’ vero che il feto è un collage di elementi chimici, ma solo nel senso che la Quinta sinfonia di Beethoven è solo una collezione di suoni, la Monna Lisa di colori e i Promessi Sposi di parole. Creazione significa invece creare un ‘significato’. Se gli esseri umani cominciano a scomporre il tutto nelle parti, si ritroveranno in un mondo senza significato di atomi disconnessi in cui niente sembra prendere parte al presente”.
    La parete cellulare e le membrane, il citoplasma con i mitocondri, il nucleo cellulare con i cromosomi… E poi?
    “L’animale è il materiale grezzo su cui è costruita la ‘persona’. La nostra vita e la nostra morte sono processi biologici. Abbiamo bisogni biologici, tra cui quello di riprodursi, che si manifesta nella nostra vita emotiva in modo tale che ci ricorda il potere che il corpo ha su di noi. Siamo creature territoriali, come gli scimpanzé. Rivendichiamo il territorio e lottiamo per esso. Ma lo facciamo in nome di alti ideali: giustizia, liberazione, sovranità nazionale, Dio. Forse creiamo Dio a nostra immagine, ma è un’immagine che ci redime, lavorando all’immagine ricreiamo noi stessi. Non conosciamo Dio in sé, sebbene la fede per alcuni ne assicuri l’esistenza. Arriviamo a Dio attraverso le immagini che idealizzano l’uomo stesso. L’autosacrificio che spinge una donna a mettere tutto da parte per il figlio, il coraggio che rende un uomo in grado di far fronte a pericoli per un bene che egli ritiene tale; virtù come la temperanza, che ci chiedono di agire contro i nostri appetiti, tutto questo sembra avere controparte negli animali”.
    Ma non la tristezza, così come “l’ho incontrata nelle parole di Rilke, nei folli dipinti di Van Gogh e negli spazi infiniti di Beethoven. La civiltà occidentale ha fatto della perdita il tema dominante dell’arte e della letteratura. La perdita ci insegue per tutta la vita: la perdita dell’infanzia, degli amori, dell’innocenza, la perdita della sicurezza.
    La pietà è l’attitudine attraverso cui richiamiamo in vita ciò che abbiamo perso, come tesoro interiore. La pietà è la garanzia offerta ai non nati”.
    La tristezza del genere umano deriva dal pensiero che “saremmo potuti non esistere”. L’affezione personale è spiegata biologicamente, a cominciare dalla “screditata teoria di Freud sulla libido, capace di abbandonarci in un regno di eccitamento nichilistico. Le più importanti questioni legate al sesso non sono scientifiche, ma morali”.
    Anche l’altruismo, che a differenza della carità per Scruton ha esiti sadici, viene ridefinito su base genetica. “Non solo, virtù e moralità sono state ‘spiegate’ come conseguenza della competizione per scarse risorse. Richard Dawkins, come il filosofo Ludwig Feuerbach, sostiene che la verità della condizione umana è la sua verità biologica. Nelle mani di questi divulgatori la scienza cerca di farci credere che tutte le peculiarità della nostra condizione hanno la loro origine nel makeup genetico”.
    Si inserisce qui uno dei temi centrali del lavoro di Scruton.
    “La verità degli esseri umani è che siamo i soli a ridere. Solo un essere con ideali può ridere. Il riso è espressione di una ‘comprensione’. Omero ci parla del ‘riso degli dei’ e John Milton del ‘riso degli angeli’. Qui è l’inizio di un profondo problema metafisico. Il riso esprime la capacità di accettare ogni inadeguatezza umana. Ci sono comunità in cui il riso è percepito come una minaccia, pensiamo all’islam, al quale manca il beneficio dell’idea di ‘creature come noi’”.
    Alla paura islamica del riso è legata la fobia islamica per il vino.
    “Quando l’ayatollah Khomeini prese il potere, tutte le cantine delle ambasciate iraniane furono rovesciate nei fiumi vicini. Nei primi giorni della civiltà islamica il vino aveva un ruolo decisivo. Ma quei giorni sono lontani e abbiamo a che fare con una mullahcrazia che ha fallito e il cui intento è esportare il proprio fallimento. La trattativa potrà avere inizio solo quando la rigida faccia dei mullah puritani si aprirà in un perplesso sorriso. Il puritanesimo, come dice Henry Mencken, è ‘la paura che qualcuno possa essere felice’. Il giudaismo e il cristianesimo devono molto alla bottiglia, il primo riconoscendo nel vino il simbolo della vita, il secondo trasformando i doni greci del pane e del vino nel corpo e nel sangue dell’agnello sacrificale. Uno o due bicchieri di vino sono un buon rimedio per l’orgoglio”.
    Apparteniamo a un genere naturale che è sì una specie biologica, “ma la nostra essenza trasparente, o ‘cristallina’ come la chiama Shakespeare, si rifiuta di essere contemplata come parte della vita della specie. Non gettiamo alcuna luce sulla coscienza umana descrivendola come la coscienza di un qualche omuncolo”.
    La biologia non sa spiegare l’esistenza della responsabilità morale.
    “Il nostro mondo, a differenza dell’ambiente di un animale, contiene diritti e doveri, è un mondo di soggetti auto-coscienti, in cui gli eventi sono divisi fra liberi e non liberi. Il Vecchio Testamento ci presenta un insieme di proibizioni; il Nuovo Testamento un insieme di doveri e la legge naturale un insieme di diritti. Questa progressione, dalla proibizione attraverso il dovere fino al diritto, è la dinamica della cristianità, che una volta rielaborata da Kant, assume la forma a noi più familiare della legge morale universale basata sulla santità dell’individuo. Giustamente la contempliamo come parte fondamentale della tradizione europea, ma non è un’invenzione dell’illuminismo, è contenuta in una rivelazione fatta duemila anni fa in una provincia dell’impero romano. Le antiche virtù del coraggio, della prudenza, della speranza, della temperanza e della giustizia, amplificate dalla carità cristiana e dalla lealtà pagana, sono ancora il cuore dell’eccellenza umana”.
    Il Nuovo Testamento contiene tre innovazioni rispetto alla legge degli ebrei:
    “Il sistema di proibizioni viene ridotto a due doveri di amore proclamati nel Deuteronomio; i doveri sono spostati dall’arena legale a quella morale; terzo, l’arena legale viene circondata di poteri secolari. L’idea di santità dell’individuo, con i suoi inalienabili diritti, è diventata l’americano Bill of Rights o, più pericolosamente, la Dichiarazione dei diritti dell’uomo annunciata dai rivoluzionari francesi. Il desiderio di incorporare i diritti in una formula universalmente valida persiste ai nostri giorni, con la dichiarazione dell’Onu sui diritti umani e la Carta europea. Terroristi e criminali acquisiscono privilegi che garantiscono loro di violare i diritti degli altri”.
    Si spalanca il problema se l’islamismo abbia diritto di domicilio in mezzo a noi. “I tentativi terroristici inglesi ad agosto sono solo l’inizio. Il problema è il rapporto fra governo secolare e sharia. L’Europa si confronta con lo stesso problema di Ataturk al collasso dell’impero ottomano. Ataturk pensava che la Turchia potesse sopravvivere solo se si fosse riorganizzata come stato nazione sul modello europeo: la poligamia venne messa fuori legge, così come l’abbigliamento islamico, e gli ulema vennero privati del loro potere. Il metodo di Ataturk verso i religiosi radicali era semplice: state zitti e andata a casa. Questi islamisti vivono nella negazione del nostro mondo e hanno molto in comune con i terroristi di Dostoevskij e Joseph Conrad. Mentre sir William Jones collezionava e traduceva tutto ciò che trovava della poesia persiana e araba, ’Abd al-Wahhab fondava la sua ossessiva forma di islam, bruciando libri e decapitando gli ‘infedeli’. L’islam è nato nel desiderio di rovesciare il compromesso dottrinale e istituzionale del cristianesimo e rompere finalmente con il mondo pagano. L’islam è incompatibile con il mondo moderno, è un sistema di comandi divini che l’essere umano può solo interpretare, mai emendare. Non c’è futuro per il governo secolare se non genera lealtà nazionale nella minoranza musulmana. Ataturk ci è riuscito, non abbiamo alternative realistiche, non certo quella dell’Unione europea, una burocrazia transnazionale che non conosce alcuna fedeltà. La secolarizzazione lascia un vuoto nel cuore della società, riempito da ideologie totalitarie e da una forma radicale di islam”.
    Scruton torna a denunciare ogni filosofia utilitaristica. “Indignazione, risentimento e invidia; ammirazione, devozione e fedeltà coinvolgono il pensiero dell’altro con diritti e doveri e una visione cosciente del futuro e del passato. Solo esseri responsabili possono provare queste emozioni, in modo tale che eluda l’ordine naturale. Al posto di un ordine naturale creato a immagine dell’umanità, troviamo oggi un’umanità descritta come parte del mondo naturale. Hannah Arendt parla di banalizzazione del male. Ma sarebbe meglio ‘depersonalizzazione’. Il sistema totalitario, di cui il campo di sterminio è l’espressione sublime animata da un antispirito, incarna la convinzione che niente è sacro. Lenin, Stalin e Hitler giustificarono le loro azioni in termini utilitaristici. Una società sinceramente utilitaristica non commette mai qualcosa di ‘ingiusto’, ma solo ‘errori’. E l’uomo presume di essere in vendita. E’ facile allora distruggere gli esseri umani, perché la vita umana entra nel mondo pubblico già distrutta”.
    Rudolf Hess, delfino di Hitler, diceva che “il nazionalsocialismo non è altro che biologia applicata”. Un filosofo del moderno, Robert Spaemann, ci ha spiegato il ritorno dello “sguardo del medico di Auschwitz” nella manipolazione genetica. “Lo scopo della filosofia contemporanea è la resurrezione del concetto di persona – prosegue Scruton – E sostituire il sarcasmo per cui siamo solo animali con l’ironia che non siamo solo questo. Alcuni filosofi, come Tommaso, Kant e Locke, sostengono che ‘persona’ e non ‘essere umano’ è il vero nome da dare al nostro genere. Uno dei fattori storici che ha giocato un ruolo nello sviluppo della giurisdizione secolare è l’emergere della ‘persona’ come idea morale. La parola ‘persona’ significava ‘maschera’, venne inglobata dalla legge romana per indicare il soggetto litigante, definito da diritti e doveri. Definita da Boezio come ‘sostanza individuale della natura razionale’, la persona venne in seguito identificata da san Tommaso come l’essenza umana. Il concetto kantiano di libertà, presentato come creazione illuministica, era presente già in san Tommaso. Le società umane non sono gruppi di primati che cooperano, ma comunità di persone che organizzano il mondo in concetti morali assenti dai pensieri degli scimpanzé. Siamo certamente animali, ma siamo anche persone ‘incarnate’”.
    Prendiamo il caso dell’arte.
    “Quando osserviamo la superficie di una pittura, vediamo aree e linee di colorazione e di disegno. Ma non è tutto quello che vediamo, c’è anche una faccia che ci guarda e ci sorride. Così possiamo scoprire le strutture del cervello e il sistema nervoso, ma non illumineranno il mistero della coscienza più di quanto il retro della Monna Lisa di Leonardo mi possa spiegare il mistero del suo sorriso. Comprendiamo un sorriso come spirito liberamente rivelato. La ‘scienza dell’uomo’, da Marx a Freud alla sociobiologia, ci priva della nostra consolazione. La filosofia deve ‘salvare le apparenze’, perché come ha detto Oscar Wilde, solo una persona vuota non giudica dalle apparenze. L’opera del male è tentare le persone a identificarsi completamente con la propria condizione biologica. L’effetto combinante dell’oggettivismo scientifico e del riduzionismo biologico è presentarci una visione demoralizzata dell’essere umano”.
    La gelosia sessuale umana non è come quella dei primati.
    “La monogamia umana, a differenza di quella del gibbone, porta con sé il voto di fedeltà concepito in termini sacramentali. Il biologismo degrada l’essere umano arricchendo la condizione dell’animale. Il problema è sempre nel linguaggio dei ‘diritti’.
    Se trattiamo gli animali come nostri eguali, garantiamo loro privilegi che non possono comprendere. Hitler sentimentalizzava gli animali e viveva fra i cani. L’uomo che comandò lo sterminio di sei milioni di ebrei fu il primo leader europeo a mettere fuori legge la caccia”.
    Nel 1970 Richard Ryder coniò il termine “specismo” per denunciare la distinzione fra la specie umana e le altre animali.
    “Noi giudichiamo l’uccisione di un idiota alla stregua di quella di una persona normale, estendiamo il dovere di prenderci cura e di proteggere i ritardati, i cerebralmente invalidi e chi versa in stato vegetativo. Questa reazione è parte della pietà, qualcosa di difficile da giustificare nei termini freddi, duri e utilitaristici di Peter Singer”.
    Dalla pietà nasce il comportamento di fronte ai cadaveri e dunque alla vita nella forma embrionale nelle mani dei vivisezionatori.
    “Il cadavere non deve essere toccato né abusato, è un’esperienza descrivibile nei termini della reverenza e dell’ansia. Tutto questo è evocato nella scena fra Achille e Priamo dell’Iliade, il vecchio re e il corpo di Ettore. E’ il nimbo che circonda il corpo umano e che Michelangelo ci presenta nella sua versione della Pietà. La forma umana è il simbolo della vita morale, il corpo umano accoglie, in ogni stadio della vita embrionale, una persona. Un’aura di sacra proibizione circonda l’umanità. Questa reazione è parte della pietà. Definiamo la natura umana nei termini del normale sviluppo lungo la traiettoria della vita personale. Questo è ciò che siamo e questo è il genere a cui appartengono gli esseri umani tragicamente anormali e da cui sono esclusi gli animali”.
    Gli utilitaristi continueranno a giudicare la pietà come mero residuo del pensiero morale.
    “La pietà è il riconoscimento della nostra fragilità, la disposizione a ringraziare per la nostra vita e il senso del mistero che circonda la nostra venuta e partenza. La pietà è razionale, è la fonte delle nostre emozioni sociali. E’ la pietà, non la ragione, che ci conduce al rispetto del passato e del futuro. Again, è la pietà che esalta la forma umana nella vita e nell’arte e intensifica il potenziale riproduttivo della società, facilitando i sacrifici che ogni generazione deve fare per la successiva”.
    Il biologismo rappresenta la forma contemporanea più suggestiva e micidiale di iconoclastia.
    “L’iconoclastia è una perenne tentazione dello spirito umano. Ha le sue origini nella paura legittima degli idoli, ma coinvolge un sentimento malizioso per il senso del sacro presente nei nostri simili. Oggi la principale forma di iconoclastia è l’assalto all’idea di purezza sessuale, il desiderio di desacralizzare il corpo umano e la sua natura riproduttiva. E’ la nozione, comune a femministe come Judith Butler e Andrea Dworkin, che ‘genere’ e ‘sessualità’ sono costruzioni sociali. L’idea dell’Io come omuncolo interiore ha gettato la sua ombra sulla nostra visione della persona umana. L’unica risposta al problema posto dalla sessualità umana, così pensano, è riconoscere che non c’è alcun problema. In queste circostanze possiamo tutti aderire, dal momento che stiamo aderendo al Niente”.
    Il desiderio sessuale è desiderio per una persona.
    “Il desiderio di Giacobbe per Rachele viene soddisfatto da una notte con Leah, ma solo se Giacobbe immagina di essere stato con Rachele. Il desiderio è un tipo di supplica che richiede reciprocità e resa condivisa, compromesso e minaccia. La morale non esiste per prevenire il piacere sessuale, ma per assistere la crescita del desiderio. Jane Austen sapeva che il desiderio sessuale è una forza creativa solo se viene integrato nella vita morale. Se la nostra società perde il senso della vergogna, dobbiamo temere per i nostri figli. La filosofia contemporanea ha ridotto il problema della morale sessuale a quello dei diritti. Viviamo in un tempo esposto alla causa del Nulla e ciò è dimostrato dalla mancanza di volontà di avere figli, cioè creare qualcosa che abbia un significato al di là del momento”.
    Vale anche per il linguaggio.
    “Nella moderna vita accademica incontriamo parole, come quelle di Jacques Derrida, che stabiliscono un contatto solo con altre parole. Si innesca un delirio di mancanza di significato in cui appaiono solo i fantasmi delle cose. L’annuncio di Nietzsche che non ci sono verità ma solo interpretazioni è riaffermato in migliaia di modi. La cultura diventa una mera affermazioni di ‘valori’ da accettare. E l’adulazione modernistica del futuro un’espressione di disperazione, non di speranza. La verità viene prima della rilevanza”.
    Per Scruton c’è bisogno di un ritorno alla legalità biologica.
    “Non è stato fatto alcun tentativo per raggiungere una comprensione consensuale dei nostri doveri verso il figlio nell’utero, nessun tentativo per calcolare l’impatto dell’aborto legalizzato e nessun tentativo per stimare i cambiamenti a lungo termine nell’attitudine delle persone verso i figli che comporta la pratica di disporre della loro vita prima che abbiano la possibilità di guardarci negli occhi. Il conflitto sull’aborto riguarda la natura e il significato della vita; quello sull’eutanasia sulla natura e il significato della morte. Ma tutte le questioni dure e importanti sono messe a lato, negli interessi di coloro le cui ambizioni sono ostruite dalla legge esistente. Ma la legge esiste proprio per ostruire certe ambizioni. La coscienza pubblica si è addormentata sulla realtà dell’aborto di massa. Lo scopo della politica è resistere alle forze entropiche che ci erodono e lasciare il passo alle future generazioni”.
    La morte entra in gioco anche nel matrimonio.
    “Nessun onesto antropologo può mentire sull’importanza del matrimonio. Il matrimonio non serve soltanto a proteggere i figli. E’ uno scudo contro la gelosia sessuale, una forma unica di cooperazione sociale ed economica. Il matrimonio è un rito di passaggio, la cerimonia non riguarda solo la coppia, ma l’intera comunità di cui fa parte. La società ha quindi un interesse profondo nel matrimonio e che non sia ridotto a una caricatura da Disneyland. I suoi cambiamenti non alterano solo le relazioni fra i vivi, ma le aspettative dei non nati e la legalità di coloro che ci hanno preceduto. Il matrimonio è la legittimazione del desiderio potenzialmente sovversivo fra i partner.
    Come al momento della nascita e della morte, l’uomo è assediato dalla paura. La società benedice questa unione a un solo prezzo: la fedeltà sessuale ‘fino alla morte’. Certi momenti della vita umana, nascita morte e riproduzione, ci presentano la santità della vita con una percezione immediata e vivida”.
    Non c’è bisogno di essere religiosi per capire questo:
    “Basta vedere i genitori che benedicono l’arrivo di un bambino e lo chiamano
    ‘figlio’. Gli antropologi ci spiegano perché la promessa d’amore è utile e perché è stata selezionata dalla nostra evoluzione. Ma non sono in grado di tracciarne le origini nell’esperienza umana o di capire cosa accade alla vita morale quando la promessa scompare e l’impegno erotico è sostituito dalla sveltina sessuale”.
    E’ ancora una volta l’arte a ricordarci perché.
    “Lo straordinario legalismo del Roman de la Rose, gli omaggi d’amore descritti da Andreas Capellanus, le opere di Bellini, Verdi e Wagner e l’eroica passione esplorata da Racine ci scuotono dal nostro vano tentativo di negare un’ovvia verità: il desiderio sessuale non è una scelta o un giudizio, ma una passione”. Il problema non è che il matrimonio sia sottoposto alla legge secolare, “è sempre stato così fin dall’antichità. Il problema è nella legge costantemente emendata non al fine di perpetuare l’idea di legame esistenziale, ma al contrario per rendere possibile ai committenti evaderlo e riscriverlo nei termini di un contratto. Il matrimonio cessa di essere quello che Hegel chiamava il ‘vincolo sostanziale’ e diventa una serie di strette di mano. Quando Kant descriveva il matrimonio come ‘un contratto per l’uso degli organi sessuali’ non lo sapeva ancora, ma erano parole profetiche”.
    La passione continua a esistere nella letteratura in modo da simulare il potere e l’autorità della legge morale.
    “Le più potenti invocazioni dell’eros nella letteratura moderna si basano sull’incesto, da Wagner a Musil; l’amore per una ninfetta in Lolita e l’amore proibito fra uomini in Proust e Genet. Il matrimonio crea le oggettive condizioni per il desiderio: la relazione erotica combatte per il suo territorio esclusivo, per il diritto di chiudere la porta. L’immagine della sessualità propagata dai media cerca sia di non tenere conto delle differenza fra noi e gli animali sia di rimuovere ogni traccia di ciò che è proibito, pericoloso e sacro. L’iniziazione sessuale significherebbe imparare a rovesciare il pudore e godere di quello che descrivono come il ‘sesso sicuro’. Gli organi sessuali diventano sostituibili. Ma il sentimento sessuale non è una sensazione che può essere accesa e spenta a volontà, è un tributo a un altro e la rivelazione incandescente di ciò che siamo”.
    L’amore erotico non è mai politicamente innocente o neutrale.
    “E’ l’errore fatto dai comunisti nella loro esigenza di una società senza relazioni esclusive, questa danza della morte. Il matrimonio non è un contratto o una coabitazione, è un’istituzione normale e sublime che ha fondamento erotico. Il matrimonio è la drammatizzazione della differenza sessuale. E’ un momento di transizione, che, come la morte, non consente ritorno, ma che, a differenza della morte, stabilisce una nuova vita in questo mondo. Il matrimonio, dice T.S. Eliot, è un ‘sacramento solenne’. Ammettere il matrimonio omosessuale significa privarlo del suo significato sociale e della benedizione conferita ai vivi dal non nato. Alla National Gallery di Washington c’è un dipinto di Poussin del piccolo Giove, rappresenta la tirannia della nuova vita sulla vita esistente, il bene del futuro sul presente umano. Giudicare il matrimonio omosessuale come un’altra opzione significa ignorare il fatto che una istituzione è conforme al motivo che ci spinge ad abbracciarla”.
    La pressione per il matrimonio omosessuale è però autodeludente.
    “Ricorda l’appoggio di Enrico VIII al divorzio; per questo il re fece di se stesso il capo della chiesa. La chiesa che ha sostenuto il suo divorzio ha cessato di essere la chiesa il cui sostegno Enrico VIII stava cercando.
    ‘Cristiano fondamentalista’ e ‘omofobo’ sono le accuse per chi dissente dall’ortodossia della nuova ummah dei disaffezionati, la teologia del relativismo di Foucault, Rorty e Derrida con il loro gioco psicotico in cui non c’è più realtà”.
    Ogni ummah si basa sul consenso.
    “La ummah islamica era e rimane il più vasto consenso di opinione che il mondo abbia mai conosciuto. Riconosce esplicitamente il consenso (ijma‘) come criterio e sostituto della verità, punendo l’apostasia come crimine. I kafirs, gli infedeli, che la pensano diversamente, saltano in aria”. Nella ummah relativista abbiamo solo intersoggettività, consenso e “disprezzo della verità”. “La verità e i significati sono visti come negoziabili. E’ curioso che questo soggettivismo vada a braccetto con una censura vigorosa, attraverso il sabotaggio morale di Foucault e il multiculturalismo di Edward Said. La distruzione della verità impone la correttezza politica e il relativismo culturale”.
    Quando lo stato lo usurpa completamente, il matrimonio diventa un “timbro burocratico”.
    “Ci dicono che la visione del matrimonio come sacramento e l’esperienza dell’amore erotico come vincolo esistenziale sono parte dell’ideologia del matrimonio. L’educazione sessuale è funzionale alla nuova forma di riproduzione sociale, dove le parti in causa sono le madri single e lo stato, in cui lo stato controlla il processo riproduttivo. E’ una sorta di confisca dei diritti ereditari. Per lo stato il matrimonio non rappresenta l’Eterno, non ha a che fare con le future generazioni ma con i capricci dei soli viventi. Le società hanno un futuro solo quando restano devote alle future generazioni, mentre collassano, come l’impero romano, quando le voglie dei vivi consumano lo stock del capitale sociale”.
    L’idealizzazione è naturale all’essere umano. “Diventiamo pienamente umani quando aspiriamo ad essere più che umani, è vivendo nella luce dell’ideale che viviamo le nostre imperfezioni. Questa è la profonda ragione per cui una promessa non può essere ridotta in un contratto. I tuoi ideali, come i figli, sono ciò che ti definiscono: fra di loro, c’è tutto ciò che hai”.
    Un approccio scientista verso la morte l’ha resa innominabile. “La visione scientifica vede la morte come estinzione dell’organismo. Ma sono le idee astratte e teologiche ad essere connesse con esperienze umane più concrete, cioè la sacralità della vita umana. Il pensiero secondo cui uccidere è sbagliato non è scientifico. E’ parte della virtù umana riconoscere che la vita è sacra. Le disabilità hanno infatti conseguenze morali. L’utilitarismo è costretto a sostituire l’antico fine della moralità con un surrogato misurabile, la scala del piacere e del dolore. Ma se la sola nostra preoccupazione è la bilancia del piacere e del dolore, l’ingiustizia cessa di essere un ostacolo. Se la causa del piacere viene servita dall’esecuzione di un essere umano innocente, questa è la cosa giusta da fare. Un utilitarista può giustificare qualsiasi sofferenza se consente di raggiungere una grande felicità. Nel pragmatismo ‘vero’ significa ‘utile’. Secondo la visione della scienza, la morte dell’essere umano è un evento biologico non diverso da quella di un cane o di un vecchio abete. Svilendo la vita umana, è più facile accettarne la perdita. Il problema non è il progresso della conoscenza scientifica, ma la perdita della conoscenza morale che ci insegna a limitarne gli usi. L’uomo precipitò dalla grazia, secondo il Libro della Genesi, quando acquisì la conoscenza morale. Ma cadde ancora più in basso quando la perse”.
    La visione scientifica del mondo contiene una tentazione fatale:
    “Invitarci a vedere il soggetto come mito e il mondo sotto un unico aspetto, mondo di oggetti. Ma un mondo disincantato è un mondo alienato. Non dobbiamo dimenticare che il tentativo di ricreare l’uomo attraverso la scienza è stato già fatto. Il nazionalsocialismo è uscito da simili visioni, prevalenti nel pensiero tedesco del Novecento. Si vedeva l’umanità come ‘specie’ nel suo imperativo biologico. Nazismo e comunismo sono state modalità per cancellare dal corpo la faccia umana. Per questo dobbiamo preservare il fondo di reverenza, solitudine e non negoziabilità della vita umana individuale.
    Se perdiamo questo terreno, perdiamo tutto ciò su cui la Legge è costruita”. L’attitudine verso i morti cambia il comportamento verso il non nato.
    “La mia morte non è semplicemente la morte di RS, che puoi leggere in un annuncio mortuario. Niente ci distingue più chiaramente dagli animali dal pensiero che ‘questa è la mia morte’. Il dolore che precede la nascita è l’immagine della nostra agonia finale, la lotta fra la vita e la morte in cui l’organismo sta sul ciglio del collasso. San Paolo ci ricorda che nel mezzo della vita siamo nella morte. Una società in fuga dalla morte è una società in fuga dalla vita. E’ stato perso il ‘senso tragico dell’esistenza’, come lo chiama Miguel de Unamuno. Per far posto a un nuovo consenso scientifico in cui ‘postmoderno’ è un modo carino per dire ‘distrutto’. Abbiamo tutti interesse alla salute, ma dire che ho un ‘diritto’ alla salute significa elevare la mia salute al livello del tuo dovere. Non dobbiamo consentire alla legge di cacciarci dalla nostra mortalità, ma di proteggere la vita umana contro l’erosione medica. Non tutti i problemi morali sono dunque risolvibili, è la natura irrisolvibile del problema a riflettere ciò che di più caro e profondo la vita ci ha dato. Ci sono casi in cui interesse e morale entrano in conflitto e sono pieni di casuismo”.
    Un grande scrittore americano, Cormac Mc-Carthy, scrive che i morti hanno un potere immenso sui vivi.
    “McCarthy ha ragione, siamo nati in costumi, istituzioni e leggi che ci definiscono e sono tutte cose che dobbiamo a loro, ai morti. I morti sono fra i vivi, le loro tombe sono dispiegate, i loro consigli sono ricercati e la loro memoria santificata. La civiltà può essere definita il tentativo di dare alla morte un significato. Riti funerari, fede nell’aldilà, invocazione degli antenati, dichiarazioni di solidarietà per i morti e i non nati… Per questo la cremazione produce un vacuum, niente luogo per i resti consacrati e nessuna traccia della persona. La sepoltura è la migliore risposta alla solitudine e all’agnosticismo della vita moderna. Vivere in una condizione di ingratitudine verso i morti e gli assenti significa esporci a un genere di nichilismo che anima gran parte del pensiero progressista”.
    La verità secondo cui l’homme de l’homme non è una categoria biologica ci è offerta dalle storie e immagini con cui John Milton evoca la verità della nostra condizione attraverso il materiale della Genesi.
    “L’allegoria di Milton ci mostra cosa siamo e per che cosa dobbiamo vivere. L’immortalità non è una prospettiva cui tendere, ma una luce sotto cui già ci troviamo. Portategli via la religione e priverete l’uomo ordinario del modo che ha di rappresentare la propria solitudine. La natura umana diventerà qualcosa da vivere in basso. Il riduzionismo biologico nutre questo ‘vivere in basso’, rende il cinismo rispettabile e la degenerazione chic.
    Abolisce il nostro genere e con esso anche la nostra gentilezza”.

    saluti

  9. #19
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    Predefinito Dal desiderio all'orgasmo....

    ....medicalmente assistito

    di Eugenia Roccella

    Concupire e desiderare non mi sembrano la stessa cosa.
    Etimologicamente non ci sono dubbi: concupire è un intensivo di cupio, quindi la concupiscenza non dovrebbe essere altro che una versione arricchita del desiderio, bramosia assoluta, voglia sfrenata.
    Però l’ossessione concupiscente mi sembra aver più a che fare con il gusto
    forte del potere, con l’estremo piacere narcisistico dell’affermazione di sé, attraverso la riduzione dell’altro a oggetto inerme. Tutti conoscono il detto
    siciliano “Cumannari è megghiu ca futtiri”, dove i due termini sono confrontabili, dunque simili nella sostanza e diversi solo nel grado.
    La concupiscenza prospera nella differenza di potere, in genere dell’uomo sulla donna, ma anche viceversa, man mano che le donne riescono ad afferrare al volo qualche lembo di forza contrattuale.
    E’ l’appropriazione del corpo dell’altro come trofeo, infatti è spesso finalizzata
    alla vanteria, al racconto pubblico. La concupiscenza comporta un bassissimo
    tasso di trasgressione, piuttosto si può definire come una qualunque variante
    del consumo; ha a che fare con il comprare e vendere, e non fa troppa differenza se il contratto è consensuale o estorto tramite il ricatto del potere sociale o economico. Si consumano corpi, voglie e denari, e nulla si sa della meraviglia dell’essere invece consumati dal desiderio, occupati dallo struggimento amoroso.
    Questa è un’altra storia, che presuppone l’inafferrabilità dell’oggetto amato, la sua piena libertà.
    Il desiderio può essere volatile e anche distruttivo, ma non è deliberatamente
    teso ad azzerare l’uomo o la donna verso cui è indirizzato, anzi tende a esaltarne il potere. Il desiderio sa essere umile, si ritiene inadeguato, trema di
    fronte alla bellezza, al fascino che emana da chi amiamo, è capace di inventarne invisibili qualità, e non ha una relazione necessaria con la “voglia di
    scopare”; il desiderio ha paura di se stesso.
    All’altro estremo c’è il puro consumo.
    Il corpo come oggetto sullo scaffale, con le gentili istruzioni per l’uso: premere un pulsante qui, un punto G là, adoperarsi nei modi prescritti, e
    poi, se non funziona, c’è sempre l’ausilio tecnico e specialistico, un Viagra o
    qualcos’altro; insomma, l’orgasmo medicalmente assistito.
    Se maneggiato correttamente, il corpo produce piacere, se no, vuol dire che avete sbagliato qualcosa. Riprovate leggendo da capo le istruzioni. L’idea che il piacere sia puramente fisico, e dunque dipenda da una serie di meccanismi ben oliati di cui bisogna curare la durata e la funzionalità, non so da dove nasca, ma certo si è diffusa dopo la rivoluzione sessuale degli anni Settanta. E già allora la liberazione dell’eros tendeva a trasformarsi in dovere politico, mentre fino a quel momento era stata trasgressione individuale: un piacere nascosto ed eccitante, un segreto tra amanti, che nessuno doveva e poteva condividere.
    Da lì in poi il discorso pubblico sull’eros è prosperato, è diventato roba spicciola, chiacchiera da rotocalco e da esperti, come le ricette di cucina. Colette, autentica cultrice della materia, metteva in guardia da “quei piaceri
    che chiamiamo, alla leggera, fisici” conscia che fisici non sono, che impegnano
    la pelle, la mente e il cuore, che fanno esplodere emozioni infantili e adulte, mescolate nelle carezze.
    Le emozioni erotiche quasi mai sono roba senza peso, che galleggia in superficie.
    In genere sono bombe a mano, da maneggiare con attenzione; scavano crateri profondi, possono fare feriti e vittime da fuoco amico.
    E’ pericoloso dissociare l’immenso potenziale emotivo e vitale del desiderio
    dalla responsabilità, dall’amore, dal nostro essere in relazione con gli altri.
    Da sempre il sesso, la concupiscenza, sono circondati da un apparato
    simbolico, morale e religioso che ne attutisce i danni possibili, creando una
    rete di circospezioni sociali e divieti cautelativi. Gli obblighi del matrimonio, la condanna dell’adulterio, persino il sesso comprato e relegato nei luoghi appositi, non sono soltanto bieche istituzioni repressive ma segni di timoroso
    rispetto, e di una certa ragionevole paura dell’invasione, nel campo faticosamente coltivato della convivenza civile, del disordine pazzo del desiderio. Invece si è diffuso il luogo comune che il sesso sia innocente, lieve e allegro, che non vi sia peccato, né male possibile. Che facendo l’amore (fare
    sesso, si dice, escludendo l’amore) non facciamo che il nostro piacere, naturale come quello dei gatti in cortile, e il nostro piacere non può essere il dispiacere di qualcun altro, se questi ha liberamente dato il suo consenso.
    Ma i corpi sono persone: da qui non si scappa.
    Quel che si fa ai corpi – al proprio e a quello altrui – si fa alle persone. E’
    questa identità che si perde nella concupiscenza, mentre sfuma la consapevolezza di avere tra le mani emozioni e sentimenti, di inoltrarsi nella sfera dell’intimità più inviolabile.
    L’attimo dell’amore che mozza il fiato è sempre il primo, quando si supera l’invisibile cerchio magico che difende le persone; allungare una mano e toccarsi è un miracolo di contatto e di relazione, che apre un varco emotivo. Ed è straordinario sapere che è ripetibile nella libertà dell’altro, nell’impegno reciproco a essere i soli, i privilegiati: solo con te, solo per te faccio questo gesto, vietato a chiunque altro.
    Abbiamo bollato la gelosia come frutto degenere del possesso, ma poi dobbiamo arrenderci all’evidenza: siamo tutti banalmente, fisicamente
    gelosi. Come si può allora, non essere sessuofobici, almeno un po’? E’ possibile ammettere che il sesso non è facile, non è innocente, non è nemmeno sempre liberatorio e felice?
    E’ possibile ignorare che il corpo, per quanto svelato ed esposto, trattiene significati oscuri, difficili da decifrare?
    Il potenziale anarchico del sesso, mito del pensiero libertario, si è dimostrato
    un’illusione. L’idea che la caduta dei divieti avrebbe liberato energie represse,
    in grado di sovvertire modelli di comportamento privati e gerarchie sociali
    appare oggi un’utopia ingenua. La libertà sessuale è confluita senza problemi
    nel mare dell’individualismo occidentale, la cui bandiera è la libera scelta; il sesso si è rivelato perfettamente omogeneo alla dimensione di mercato, proponendosi come un’incitazione perpetua alla voluttà del consumo.
    Dalle stesse matrici culturali che hanno prodotto l’ideologia libertaria si sono invece sviluppate nuove forme di controllo sul corpo e sulla riproduzione.
    Quella che era nata come una ribellione legata all’irriducibile forza di pulsioni profonde, all’impossibilità di reprimere o disciplinare troppo rigidamente il richiamo misterioso della carne, si è rovesciata nel suo opposto: una
    tendenza sempre più spinta alla medicalizzazione asettica, all’intervento tecnologico e invasivo, alla riduzione del corpo a materiale biologico manipolabile in laboratorio. Grazie soprattutto al controllo sulla fertilità femminile, i corpi e la sessualità sono ricondotti sempre più sotto disciplina medica, e diventano oggetto di una biopolitica che tende a sfuggire al controllo democratico e ad affidarsi alla nuova casta dei “migliori”: non più i filosofi (buoni solo per i festival) ma i tecnoscienziati.
    La disinvoltura con cui si è disposti a distruggere senza remore etiche gli
    embrioni umani mi sembra abbia qualcosa a che fare con la irresponsabilità
    di un desiderio-diritto che non si relaziona, che ignora il principio di precauzione nei confronti della vita, così come la concupiscenza ignora il principio di precauzione nei confronti delle emozioni.
    L’utopia postmoderna ridisegna i sentimenti e i rapporti umani immaginando un mondo astratto, modificato non più sul piano sociale – come avrebbero voluto le utopie degli ultimi secoli – ma su quello antropologico e relazionale.
    Il soggetto intorno a cui ruota questo mondo nuovo è l’individuo adulto e autosufficiente. L’efficienza è caratteristica essenziale, perché ’essere umano che s’avanza all’orizzonte è molto più solo di un tempo, deve saper badare a se stesso, fronteggiare una civiltà tecnologica e urbana complessa e informatizzata, in cui i rapporti di prossimità e parentela hanno perso significato.
    E’ un soggetto nomade, senza radici né appartenenze, che vede con orrore la malattia, l’imperfezione, e ogni forma di affidamento del corpo e del cuore. La relazione non appare più come parte fondamentale della natura umana, ma come un di più condizionato dalla libertà di scelta. Ogni dovere, ogni obbligo morale derivato dai rapporti è un inciampo, il limite è un intollerabile sopruso, i legami devono poter essere sciolti in qualunque momento, essere fluidi e
    temporanei. La libertà deve tradursi in precarietà, non la si può impegnare
    con una promessa una volta per tutte.
    Eppure che libertà è se non è mai davvero in gioco?
    Se non sappiamo mantenere una scelta in modo definitivo, se abbiamo bisogno di revocare continuamente l’impegno preso, oscillando tra le opzioni possibili fino all’ultimo?
    Peccato che, insieme all’insofferenza per i legami, ci sia sempre la sofferenza
    per la mancanza di legami, la paura profonda di non essere necessari a nessuno, di non essere amati. E appena siamo doloranti e soli, feriti o
    spaventati, ci manca la beata catena.
    Perché il “per sempre” è il desiderio umano più inconfessabile, più sconveniente, quello che solo la disciplina dei sentimenti e dei desideri può riuscire a saziare.
    Non credo al dominio spirituale sul corpo e sulla concupiscenza, ai desideri repressi della carne triste. La disciplina è necessaria perché siamo consapevoli che il disordine è umano, ma il troppo disordine è troppo umano. La cultura vive nell’ordine imposto alla natura ribelle, nel conflitto perpetuo
    tra forze contrastanti.
    Tutta la lotta umana è nell’incivilire, nel costruire confini e difendere a fatica un ordine: non si può abolire il conflitto (e neppure il limite, e neppure il desiderio).
    La moderazione non è il giusto mezzo, ma la coscienza della nostra ineliminabile contraddittorietà, e quindi il tentativo continuo di darci regole e barcamenarci. Siamo sempre a caccia di libertà, e poi disperati di non avere nessuno a cui sacrificarla; pronti a rivendicare nuovi diritti individuali, mentre poi non c’è niente che ci consoli così profondamente, che ci appaghi così assolutamente come sentirci dire:
    “Ti amerò per sempre e non ti lascerò mai”.



    saluti

  10. #20
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    Predefinito No confessione....

    ….no concupiscenza

    Mio padre era fascista. Era anche frammassone e fervente cattolico! Nei primi anni Quaranta comandava una squadra addetta al sequestro, nelle librerie, di testi bollati da un doppio interdetto: quello della milizia fascista e quello della chiesa cattolica. Amante dell’arte e della letteratura, e sembratogli un sacrilegio il rogo per le opere del pensiero, li requisiva, non li consegnava, e se li prendeva lui. In breve la nostra casa fu tappezzata da migliaia di volumi, tutti rigorosamente all’indice, il fior fiore della letteratura erotica ed eretica. Avevo tredici anni quando, a guerra finita (ma l’Indice permaneva tuttora), non avendo altro da leggere, cominciai timidamente, e coi sensi in tumulto, a sfogliare quei libri scandalosi, alcuni dei quali perfino illustrati. Poi mi ci buttai a capofitto, con ardore selvaggio. Leggevo con eguale passione e disinvoltura Trotzky e Charles Baudelaire, Carlo Marx e Gabriele D’Annunzio, Stalin (di quest’ultimo mi piacevano soprattutto le metafore intrise di miti classici), e Guido da Verona, Honoré de Balzac e D. H. Lawrence (trasalendo, trasalendo), e poi Maxim Gorkij, Gustave Flaubert, Fedor Dostoevsckij, Victor Hugo… tutti quanti proibiti. Era all’indice perfino il libro “Cuore” di Edmondo de Amicis. Con una voluttà tanto più eccitata quanto più misteriosa, ero totalmente persa in quei libri. E il batticuore per il timore di essere scoperta, non dai miei genitori - che, anzi, incoraggiavano le mie letture – ma dalle mie compagne di scuola, che immancabilmente lo avrebbero riferito alle suore presso le quali studiavamo, mi procurava una gioia morbosa e intensa. Le mie amiche leggevano gli edificanti libri dell’editore Salani per signorine, quelli con la copertina rosa.
    Le copertine bianche erano già un po’ troppo osé, per cui a loro confronto io mi sentivo una donna perduta, lussuriosa e lasciva.
    Come Nanà e la signora Bovary, per non parlare di Elena Muti, con tutto quello zodiaco disseminato sul suo corpo nudo, o di Thais la cortigiana, che continuava a ossessionare, in absentia, il povero monaco della Tebaide con l’allucinante visione dei suoi veli. Le vicissitudini delle mie eroine preferite (ma anche quelle dei miei eroi, tutti grandi rivoluzionari) mi insegnavano che non era tanto il peccato a dannarli, quanto il fatto di non aver previsto la pena, e quindi di non aver saputo eluderla. Infatti tutte facevano una brutta fine.
    Anche per gli uomini, se non c’era il carcere, c’era la persecuzione o la damnatio memoriae, come nel caso, appunto, dell’Indice.
    E intanto, dannata ero io, che mi sentivo confusamente ribollire di sensazioni inarticolate mai conosciute prima, col respiro che sembrava lo strepito di una bufera, col cuore che mi tremava e il sangue che infuriava nelle mie vene col fragore di un fiume che ha rotto gli argini.
    Ero diventata il teatro di epiche battaglie in cui divinità antagonistiche si disputavano il possesso della mia anima rudimentale e giovinetta.
    Per pudore mi astenevo dal parlare con i miei genitori di questa furibonda teogonia, e le uniche persone che frequentavo erano le suore, proposte senza molto successo alla mia educazione.
    Finché un giorno non scoprii che c’era qualcuno con cui parlare.
    Un uomo finalmente!
    Ma anch’egli come i miei libri, era proibito. Proibitissimo. Si chiamava padre Rosella, ed era il mio confessore. Padre Rosella era un gesuita predicatore, aveva circa trent’anni, quasi un vecchio per me quattordicenne, e la sua era la voce dei miei pensieri non formulati, una voce che fissava la sorte degli uomini. Per stringere la loro volontà in ceppi invisibili, e che batteva sordamente, struggentemente al mio orecchio.
    Fu lui che cercando di disciplinare quel caos che mi ardeva dentro, mi parlò per la prima volta del termine “concupiscenza”, a suo modo una smodata e pericolosissima forma di desiderio sessuale.
    Pronunciando questa parola io lo vedevo trasalire attraverso la grata del confessionale, gli occhi abbassati e il respiro ansimante. E con una sottile perfidia godevo del suo imbarazzo.
    Da quel momento per me andare a confessarmi fu come andare all’appuntamento con il fidanzato che non avevo.
    Ma mentre con un fidanzato - l’altro – sarei stata guardinga al fine di mostrargli di me solo l’aspetto rassicurante della ragazza perbene, quindi falso, con padre Rosella io ero veramente me stessa, un essere vivo, curioso torbido e disperato come solo i giovani sanno esserlo.
    E la cosa più importante era che non temevo di apparire diversa da ciò che profondamente io ero. Fra di noi si era stabilita quella intimità che solo le donne che si confessano regolarmente possono capire. Credo che un uomo riesca a intrattenere solo rapporti amichevoli confidenziali, direi quasi camerateschi e solidali col proprio confessore; ma per una donna, per il semplice fatto di trovarsi di fronte a un uomo nella sua nudità della sua anima, la confessione è un modo esaltante di sperimentare la propria libertà. Un piacere quasi sensuale dello spirito. Così dando forma con i miei mutui pensieri padre Rosella mi trasportava impercettibilmente da una concupiscenza naturale, brutale, comune anche agli animali, a una concupiscenza razionale; quella che san Tommaso sulle orme di Aristotele chiama cupiditas prerogativa esclusiva degli uomini. Un desiderio intenso, illimitato, che tuttavia non intendevo disperdere nell’infinito, ma farlo mio, possederlo interamente costringendolo nella prigione della forma.
    E fu così che a quattordici anni diventai un’artista, cioè la personificazione vivente della concupiscenza. Rilessi i libri che maggiormente mi avevano colpita e mi stupii di non ricercare più in essi quelle sensazioni morbose che avevano sconvolto la mia adolescenza, ma la forma di queste sensazioni, cioè l’arte che vi era in essi profusa. Gli psicologi chiamano questo processo sublimazione. Per me era la catarsi, parola che i tragici greci avevano soltanto coniato e la religione cattolica attuato.
    A distanza di parecchi decenni, disertata ormai la chiesa, mi domando come possano, le altri fedi rivelare l’uomo e se stesso se non conoscono come i protestanti, l’istituto della confessione che al pari dell’indice mi appare oggi come la più fantastica delle invenzioni umane. Perché un artista per creare ha bisogno di un divieto, dell’ombra minacciosa di un rogo, altrimenti l’arte non è che un gioco, peggio: un passatempo. Ma questo non lo sanno i giovani contemporanei, vaghi autori di prodotti artistici, ai quali tutto è permesso.
    Io non potrò mai descrivere la beatitudine voluttuosa con la quale aspirai la prima sigaretta Macedonia Extra rubata al portasigarette di mio padre. Così come tutte le ricchezze del mondo, gli amanti, i successi, il potere mai avrebbero potuto eguagliare la bellezza sublime, lancinante, insostenibile, di quei momenti in cui scoprivo me stessa davanti ai divieti di padre Rosella.
    Nessuno più me li darà.
    Annotava lo scrittore Robert Musil che “non c’è grande felicità, senza grandi divieti, senza morale profonda”. Ma chi ricorda, oggi, questa fondamentale verità? E non è un caso che nei secoli cosiddetti dell’alienazione dell’uomo in Dio, l’arte abbia saputo esprimersi, proprio allora, nella sua forma più sublime. Quel processo di transustanziazione del pane e del vino nel corpo reale di Gesù Cristo ha permesso agli inconsapevoli artisti di riprodurre la figura umana al di là della mimesi platonica, cioè penetrandone l’assenza.
    L’arte è sempre stata cattolica. E’ cattolica o non è. E tuttavia anni di pensiero negativi, di nichilismo ci hanno indotto a ritenerla portabandiera di ideologie rivoluzionarie, se non addirittura tautologica elucubrazione dei suoi stessi statuti, laddove essa non ambisce che a esprimere il senso sacro e del mistero, vale a dire la concupiscenza di Dio, ancorché inconscia. Questo desiderio di assoluto per un artista può essere un tormento, specialmente se non ha (come me) la grazia e il dono della fede; ma, a ben guardare, è la ricerca di quell’Essere inafferrabile a dare un senso alla nostra vita.
    E non importa che egli (l’artista) persegua l’immortalità nell’opera, per lui salvifica al pari della Croce per i credenti.
    Non potrebbe forse nascondersi proprio dentro l’opera, Dio?

    Maria Roccasalva

    Maria Roccasalva, napoletana, è pittrice, scultrice e poetessa.
    Il suo esordio nell’arte arriva nel 1972 quando, per una performance in strada, viene portata in questura. Da lì in poi la sua vita è stata scolpire e dipingere. Svariati i soggetti, dalle armi agli stemmi.
    Nostra lettrice, affascinata dal tema “concupiscenza”, ci ha inviato questo pezzo.

    Da il Foglio di venerdì 18 agosto

    saluti

 

 
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