....Yusuf e Shahrazad
di Siegmund Ginzberg
Da che mondo è mondo ci raccontano storie di concupiscenza sessuale che hanno a che fare con la politica e col potere. E spesso la cosa su cui si concentra l’attenzione del narratore non è il fatto in sé – normale e banale – quanto il rischio che si venga a sapere, “finisca sui giornali o in tv” diremmo oggi, l’eco che può suscitare. Nella Bibbia, uno dei fatti più gravi riguarda un re – e che re! David “vide una donna che faceva il bagno”, “la donna era molto bella”, “mandò dei messi a prenderla”, “ella venne da lui ed egli giacque con lei” (Samuele, 11). Il peccato non è la concupiscenza. E’ quello che il re, approfittando della sua posizione, fa per mettere a tacere lo scandalo, quando lei gli fa sapere che è rimasta incinta. Il suo problema è che il marito, impegnato di giorno in guerra, si ostina a non giacere con la moglie anche quando il re lo richiama apposta dal fronte e gliene dà la possibilità. Passa la notte all’addiaccio. “L’Arca di Dio, Israele e Giuda bivaccano sotto le tende…, ed io dovrei andare a casa mia, per mangiare, bere e dormire con mia moglie?”. Al re, per mettere a tacere le voci che non mancheranno, non resta che mandarlo a morire, scrivendo al suo comandante: “mettilo in prima linea, dove il combattimento è più aspro, poi abbandonalo… che muoia”. Quanto a Betsabea, non ci viene detto se poteva dire di no, se ci sia stata volentieri o di malavoglia, sappiamo solo che, rimasta vedova, si fa sposare, gli dà un primo figlio su cui si abbatte la vendetta del Signore per l’adulterio, poi, perdonati tutti, un secondo, che viene chiamato Salomone, dandosi molto da fare perché venga riconosciuto come erede al trono. Se è vittima della concupiscenza dei potenti, è anche abbastanza astuta per trarne un vantaggio personale e politico.
La Bibbia è un testo sacro denso di concupiscenze carnali ed erotismo. Concupiscenze simmetriche, come nello splendido Cantico dei Cantici, forse il più sensuale testo di tutti i tempi, oppure asimmetriche, e quindi fonte di guai. David concupisce Betsabea, i secchioni concupiscono la giovane e bella Susanna, Giuseppe viene concupito dalla moglie di un potente d’Egitto, Putifarre. Donne concupite da uomini, uomini concupiti da donne, uomini concupiti da uomini, angeli di sesso incerto concupiti dai sodomiti. Ma a parte quest’ultimo episodio, dove l’offesa, contrariamente all’interpretazione corrente, potrebbe non avere niente a che vedere col sesso ma riguardare la xenofobia nei confronti dello “straniero”, a bene vedere però tutte le concupiscenze asimmetriche hanno qualcosa a che fare con il potere, anzi con l’immagine del potere, quel che del potere diranno la voce del popolo oppure i media.
Sesso, potere e pettegolezzo sono il sottofondo anche dell’assai più erotica e sensuale versione della storia di Giuseppe (Yusuf) concupito fornitaci da un altro testo sacro, il Corano. C’è molto sesso e desiderio carnale nel Corano, forse quanto e più che nella Bibbia. Ma c’è chi ha sostenuto che “in nessun altro punto il Corano è ricco di erotismo come in questo”. Bello è Giuseppe, bella e affascinante la sua padrona. Tra i due potrebbe anche nascere una storia d’amore, un banale adulterio. Quel che li separa è che lui è un sottoposto, un servo raccattato in fondo al pozzo in cui l’avevano gettato i suoi fratelli, lei la moglie di uno degli uomini più potenti d’Egitto, una che potrebbe fargli fare carriera, o distruggerlo. “Ora la donna, nella cui casa egli abitava, gli chiese che si desse a lei, e chiuse tutte le porte, e disse: ‘Vieni qui!’” (Corano, XII, 22 e seguenti). E lui ci starebbe anche, non fosse che la cosa è sconveniente per il tipo di rapporto sociale che c’è tra i due, e per l’impatto che la cosa potrebbe avere se fosse risaputa. Ad uno che verrà nominato (sarebbe troppo dire “eletto”) viceré d’Egitto, insomma è destinato ad un’importante carica pubblica, non si addicono peccatucci che potrebbero essere veniali per altri. “Ed essa lo desiderava, e la avrebbe desiderata egli pure…”. Una delle principali differenze nella narrazione della Bibbia e in quella del Corano è che, mentre nel testo sacro degli ebrei non c’è la minima traccia della possibilità che Giuseppe ceda alla tentazione, e il suo rifiuto è categorico, in quello dei musulmani è molto più “umano”, ha bisogno di un aiuto divino per resistere alla più banale delle tentazioni, non perché abbia un senso particolarmente forte del peccato, ma perché cedere lo priverebbe della possibilità di svolgere il ruolo a cui è predestinato, far valere le sue capacità manageriali e politiche. “Allontana da me la loro astuzia, altrimenti cederò per giovanile impulso alle loro voglie, e sarò fra gli ignoranti”, prega il suo Dio Giuseppe insidiato. Ad un certo punto arriva persino a “confessare” che un pensierino gli sarebbe potuto passare per la mente: “Ma non voglio dichiararmi del tutto innocente, ché l’anima appassionata spinge al male” (Corano, XII, 53).
Nella Bibbia non c’è traccia di “quel che la gente avrebbe potuto pensare”, la resistenza di Giuseppe appare puramente morale. Un’intera parte della sura di Yusuf e Zulàika è invece dedicata al diffondersi delle voci, al ruolo della chiacchiera (anche senza ancora tv e giornali) e ai possibili effetti sull’opinione pubblica. La signora Putifarre sente il bisogno di giustificarsi di fronte al pubblico, prima ancora che di fronte al marito. “E dicevano certe donne per la città: ‘La moglie del principe è presa d’amore per il suo garzone! Egli l’ha infiammata d’amore: a noi sembra che si stia chiaramente traviando!’. E quando essa udì le loro dicerie segrete, andò a invitarle, e preparò loro un banchetto, diede a ciascuna di loro un coltello, poi disse a Giuseppe: ‘Esci e mostrati ad esse!’. Quando quelle lo videro, grandemente lo ammirarono, e si tagliuzzavano le mani (coi coltelli, per l’emozione). E dicevano: ‘Dio ce ne guardi! Costui non è un uomo, costui è un angelo sublime del cielo!’.
E la donna disse loro: ‘Ecco, questo è colui pel quale mi biasimavate; sì io ho bramato ch’egli si desse a me, ma costui ha rifiutato. Ma se non farà quello che voglio, sarà imprigionato e sarà tra i miserabili!”.
Un caso bell’e buono di sexual harassment. Ma con un tocco in più. Nella versione del Corano, il bel Giuseppe diventa oggetto di concupiscenza collettiva, non più solo individuale. E’ l’antesignano di tutti i sex-symbol che fanno sognare i concupiscenti senza speranza della nostra epoca sugli schermi, sulla carta patinata e i cartelloni pubblicitari. Inaccessibile, da guardare ma non toccare. Ed è (oltre, e ancora prima di essere oggetto di desiderio) anche uno status symbol, alla portata solo di chi ha abbastanza potere da permettersi di voler incarnare una concupiscenza che per i più, per le altre e gli altri che tanto potere non ce l’hanno, rimarrà solo una fantasia erotica.
Giuseppe ha a che fare anche con la moda. Altra differenza, nella storia come viene presentata nella Bibbia e nel Corano, riguarda un capo di abbigliamento. Nella Genesi (39,7, seguenti), Giuseppe, per sottrarsi alla signora che lo concupisce scappa nudo, lasciandole in mano la tunica cui lei si era aggrappata. Lei la conserva come prova per giustificarsi col marito, anticipando di molti millenni quello che la mamma di Monica Lewinsky fece col famigerato vestito della figlia concupita (o concupiente) Bill Clinton.
Nella versione coranica, assai più vivace e più ammiccante, questa si trasforma invece proprio nella prova per scagionare Giuseppe. Sembra una detective story: “Se la tunica è stata strappata pel davanti, essa ha ragione e lui è un mentitore. Se invece la tunica è strappata per di dietro, è lei che mente ed egli è un uomo sincero”.
Putifarre, capo delle guardie di Faraone, non dovrebbe avere più dubbi
“quando vide che la tunica era stata strappata da dietro”. O comunque la cosa dovrebbe acquietare le sue preoccupazioni circa la propria immagine pubblica. Nella Bibbia, libro di un popolo abituato alle maldicenze senza fondamento ai propri danni, Putifarre crede senz’altro a quel che gli dice la moglie: “Quel servo ebreo, che tu ci hai messo in casa, è venuto da me, per divertirsi con me. Ma appena alzai la voce e cominciai a gridare, mi ha lasciato qui la veste ed è fuggito”. Nel Corano è meno credulo, meno portato a farsi suggestionare dalla propaganda antisemita corrente. Distingue, verifica, accerta, scagiona. Ma poi, stranamente, fa mettere in prigione Giuseppe anche se la conclusione delle indagini lo scagiona:
“In seguito decisero di imprigionarlo, malgrado i segni che avevano visto, per un certo tempo” (Corano, XII, 34-35).
Che fosse costretto anche lui, da politico qual’era, a seguire i venti che tiravano, dare addosso all’israelita per accontentare gli estremisti?
Le variazioni sul tema sono infinite.
Non si contano sequel e interpretazioni. Sia nella tradizione letteraria islamica che in quella occidentale, l’episodio è stato riscritto innumerevoli volte. Via via esaltando la purezza e la dirittura morale di Giuseppe, denunciando la perfidia della sua aspirante seduttrice, o, al contrario, difendendo la sincera passione di lei. La storia è stata letta, riletta e rifatta in chiave ancora più esplicitamente erotica, o addirittura di amore mistico per Dio, come nei poeti persiani; di tradizionale moralismo o di eterna messa in guardia contro la “donna demoniaca”, oppure, all’estremo opposto, di universale umanità, senza distinzioni di genere, della concupiscenza e del desiderio sessuale. Ci si è divisi, in occidente come in oriente, in simpatizzanti e antipatizzanti di Giuseppe e della donna che lo desidera. Nel secondo volume della trilogia Giuseppe e i suoi fratelli di Thomas Mann, la vera protagonista cui vanno tutte le simpatie dell’autore non è il giovane ebreo che resiste eroicamente alle avances, ma la sua appassionata padrona, che ha avuto la disgrazia di infatuarsi di lui. Non saprei dire se ci siano interpretazioni più autentiche di altre. Per una lettura molto dotta e femminista, che spacca il capello in quattro, del testo biblico di Genesi 39 e delle sue interpretazioni nella cultura occidentale, da quelle ellenistiche bizantine alla più aggiornata critica letteraria psicanalitica potrei rimandare al Women, Seduction, and Betrayal in Biblical Narrative di “Alive Bach” (quasi metà libro è dedicato alla figura della signora Putifarre, o Mut-emenet, come la chiama Mann), anche a rischio che il lettore ci si perda come mi sono perso io. Per le molte letture islamiche mi sono avvalso del saggio, ricchissimo di citazioni, di Erdmute Heller e Hassouna Moshabi: “Dietro il velo: amore e sessualità nella cultura araba”. Alla storia di Yusuf e seguiti dedica un intero capitolo, quello intitolato “L’eterna seduttrice”. Tra le ipotesi: quella per cui il successo della Sura di Yusuf nella cultura islamica possa essere legato al desiderio nascosto di essere tutti nei panni di Giuseppe; quella per cui uno dei messaggi dominanti, non solo in questo passo, ma in tutto il Corano, sarebbe l’invito ad assicurare la soddisfazione sessuale delle donne, non solo quella del maschio.
Sarà anche forzato. Ma non ditemi che non lo trovate anche voi sorprendente e divertente. C’è chi nel Corano è arrivato persino a scorgere un diffuso “alito di femminismo”.
Ho letto di Maometto interpretato come “liberatore” delle donne. Può non convincere lo sforzo di dimostrare che l’islam delle origini faceva molta più attenzione alla donna e alla sessualità di quanto lascino ad intendere le proibizioni che si sono poi accumulate e le sessuofobie dei fondamentalisti e puristi dell’ultima ora. Il riconoscimento dell’ineluttabilità della concupiscenza nella natura è sempre a doppio taglio: porta all’accettazione o, inversamente, all’inasprimento delle proibizioni. L’islam sciita iraniano, quello che ci siamo tanto abituati ad associare al ciador, alla punizione delle adultere e alla sessuofobia, è anche quello che ha inventato, in riconoscimento della forza della concupiscenza e del desiderio sessuale, una sua “legge del desiderio”: il matrimonio temporaneo (sigheh), a termine per contratto, di durata variabile, da un’ora soltanto a 99 anni.
Molto dipende dal come un testo viene interpretato e tradotto. Sono sicuro che il lettore troverà esilarante un capitolo di “Middle Eastern Fragments”, straordinaria seppure caotica accolta di citazioni, frammenti e appunti messi insieme da uno dei massimi islamisti americani, Bernard Lewis (unico difetto: la mancanza di richiami alle fonti, che forse avrebbe portato a raddoppiare la dimensione del volume). Vi sono presentate, una dopo l’altra, una dozzina di differenti traduzioni, interpretazioni e commentari della famosa sura (Corano IV, 34) in cui Maometto tratta la relazione tra uomini e donne, datate dal 1734 al 1987, quasi tutte da parte di esegeti islamici. Sarete sorpresi dal come uno stesso testo possa venire letto, tradotto, interpretato e commentato in modo così variegato.
Tanto per dare un’idea, il discusso “daraba”, il termine arabo che normalmente viene inteso come una contraddittoria esortazione del Profeta a “picchiare” le donne pur rispettandole, diventa “andate a letto con loro” associato a “non cercate scuse per prendervela con loro”.
Molto di più dipende da chi racconta.
Il resto da chi ascolta o legge il racconto. Tra i più avvincenti narratori di tutti i tempi, in fatto di concupiscenza, desiderio sessuale, avventure erotiche, e dintorni, c’è una donna islamica: Shahrazàd.
Sarebbe estremamente riduttivo, anzi stupido ridurre a questo le “Alf Layla ve Layla”, le “Mille e una notte”. In quei trecento e passa racconti (mille sta semplicemente per tanti, il titolo in turco, “Bin bir”, è ancor più suggestivo che in arabo, anche i numeri hanno una loro magia, come il quaranta dei quaranta ladroni, sul suono e le suggestioni di “kirk” (40) in turco si potrebbe scrivere un intero saggio), c’è di tutto e di più. La si potrebbe considerare un’enciclopedia che contiene i fili di quasi tutto quello che è stato narrato in letteratura, prima e dopo.
Ma se c’è un tema onnipresente, che prevale su tutti gli altri, è quello del sesso, in tutte le forme, dal platonico al tragico, dal boccaccesco al pornografico, ma anche nelle molteplici forme in cui può essere associato al potere. Il sultano cui Shahràzad racconta, notte dopo notte, le sue storie e storie nelle storie, non la concupisce in quanto donna. E’ sessuofobo, disgustato, terrorizzato dal sesso, odia le donne. Ha magari anche le sue ragioni. Delle molte possibili letture della storia di Giuseppe gliene hanno ficcata in testa solo una: “Fai tesoro della storia di Giuseppe, guardati dai loro inganni”. “Da allora… ogni notte prendeva con sé una fanciulla vergine, le toglieva la verginità, e la notte stessa la uccideva”. Finché “il popolo, tra grida d’orrore, era fuggito portando via la sue figlie, e ben presto in quella città non era restata una sola ragazza da marito”.
Mi viene da pensare che succede ancora, in altra forma: 100 milioni di donne in meno in Asia, probabilmente a causa degli aborti selettivi, e quindi 100 milioni di maschi senza sposa, evocano una “geopolitica della frustrazione sessuale” non meno preoccupante della geopolitica del petrolio o dei conflitti di civiltà.
Quando il vizir non riesce più a trovargli una nuova sposa, si offre volontaria sua figlia Shahrazàd. Potrebbe scappare anche lei, magari in occidente.
E invece gli dice: “Padre mio, fammi sposare questo re. O vivrò, o servirò, sacrificandomi, da riscatto alle figlie dei musulmani”.
E riesce ad averla vinta, raccontando al re, notte dopo notte, molte storie che trattano proprio dell’argomento che gli fa così disgusto e paura.
Di sesso, nelle “Mille e una notte”, c’e n’è in effetti per tutti i gusti. Si continua a discutere molto se sia stato tutto questo sesso a farne o disfarne le fortune in oriente, o se se invece il problema fosse la politica, quel che vi si trova di imbarazzante per il potere, detto con argomenti che meglio facevano audience nei bar e nei bazar della Umma di allora. Più assodato è che il sesso ha avuto molto a che fare con la sua fortuna in occidente, sin da quando un diplomatico francese in missione in oriente, Antoine Galland, portò Shahrazàd in Europa e cominciò a tradurla agli inizi del 1700.
Il capitano Richard Burton, l’orientalista enciclopedico e molto imperialista che l’introdusse nel mondo anglosassone, ne era tanto ossessionato che le sue note sugli aspetti erotici delle “Mille e una notte” sono una trattato a sé di erotologia esotica. Nel “Tempo ritrovato” Proust non nasconde il fascino subito, e racconta che sua madre gliene aveva regalato, lui già adulto, due copie, una nella traduzione, di Galland, ancora parecchio castigata benché (o forse proprio perché) la nicchia di audience cui era rivolta erano le signore della Versailles di Madame Pompadour, l’altra in quella posteriore, che pretese di essere “letterale”, senza censure, di Mardrus. “Gettato un colpo d’occhio alle due traduzioni, mia madre avrebbe preferito quella più castigata, ma non voleva interferire”. Pare di capire che all’autore della “Recherche du Temps perdu” piacesse più l’altra. Nelle versioni Disney magari no (o non così esplicitamente), ma nelle versioni integrali il modo in cui le “Mille e una notte” parlano di sesso va dall’estremamente raffinato, talvolta sublime, all’estremamente esplicito, o addirittura osceno, dal mistico allo sboccato, dal moralismo più trito e misogino alla pura gioia del sesso. Erotismo da postribolo e bassifondi, o da entertainers d’alto bordo, virtuose o furbissime matrone di buona famiglia, ninfomani, prostitute e ragazzi di vita, travestiti e pedofili, maniaci e pervertiti, adulteri e amori tragici, pulsioni di morte che richiamano Tristano ed Isotta, persino una storia tribale che anticipa Romeo e Giulietta. Tra le righe si possono volendo trovare evocazioni dell’Aids, dell’ingegneria genetica e della procreazione assistita. Vi si parla di concupiscenza del potere e concupiscenza sessuale, di sesso per il potere e poteri del sesso, in tutte le varianti immaginabili. C’è solo l’imbarazzo della scelta.
Forse nemmeno Rabelais, che colle parole giocava senza rete, avrebbe osato mettere in prosa una pagina licenziosa, tutta giocata sulle parole, come quella della “Storia del facchino e delle tre ragazze”:
“La fanciulla si alzò, si spogliò dei vestiti rimase completamente ignuda, poi si gettò nella vasca e cominciò a giocare con l’acqua, prendendone in bocca delle sorsate ed aspergendo il facchino, indi si lavò le membra e fra le cosce, e, uscita dall’acqua, si buttò tra le braccia di lui dicendo: - amore mio, come si chiama questo? – … Il facchino ne disse un nome, ma quella fece: – Oh, oh! Non ti vergogni? – e afferratolo per il collo si mise a batterlo; egli allora disse un secondo nome, poi un terzo e un quarto ancora, ma sempre con ugual risultato…”. La scena e il gioco continua con la seconda ragazza, poi con la terza, e poi ricomincia a parti invertite, con l’uomo che chiede a turno alle ragazze di dare un nome al suo attributo. Un pio religioso islamico del XV secolo, lo sceicco Al-Nafzawi avrebbe poi provveduto a stendere un elenco dettagliato, che si prolunga per pagine e pagine, dei vari nomi della cosa e del coso, nonché dei modi di dire riferiti al loro incontro. E’ riportato estesamente in “Dietro il velo” di Heller e Moshabi (pagine 163-167).
Pedanteria pornografica fine a sé stessa? Per la versione delle “Mille e una notte”, c’è chi sostiene che anche queste pagine così osée, al limite dell’oscenità, conterrebbero un “messaggio politico”: gli schiaffoni al facchino gli ricorderebbero che è pura idiozia la pretesa da parte degli uomini di dare loro anche dare un nome a qualcosa il cui controllo spetterebbe solo alla donna: il suo sesso. Questa l’interpretazione di Fatima Mernissi, nel suo S”cheherazade goes West: different cultures different harems”, tradotto da Giunti col titolo “L’Harem in Occidente”.
La tesi di questo libro dell’insigne femminista islamica e docente all’Università di Rabat è che almeno da tre secoli a questa parte l’occidente ha fantasticato, si è eccitato ad un’idea di harem di pura invenzione. L’harem immaginato dalla letteratura occidentale, o dipinto dagli orientalisti è un luogo che racchiude donne totalmente alla mercé dei desideri sessuali dei loro padroni, quasi sempre nude, spesso schiave, pronte ad appagare qualsiasi voglia. Ci sono, beninteso, le eccezioni, gli harem musicali, affollate di donne tutt’altro che sottomesse, su cui scherzano Mozart e Rossini. Ma sono eccezioni che potrebbero essere considerate una conferma della regola. Gli harem di Shahrazàd e delle sue storie sono invece popolati da donne che sanno dare del filo da torcere ai loro partner padroni, sanno competere in astuzia con loro, li scombussolano nelle loro certezze (o insicurezze) fanatiche, riescono a confondere anche califfi e sultani, a concupire e non solo a farsi concupire, talvolta a comandare loro. Le odalische di Ingres, le schiave portate al mercato nei quadri di Gerome sembrano conoscere solo il linguaggio languido dei loro corpi d’alabastro al bagno. Le donne delle “Mille e una notte” invece non sono affatto solo “specialiste del piacere” sensuale. Sanno suscitare concupiscenza intellettuale, della mente prima ancora che della carne.
Gli orientalisti dipingevano, mettendo in posa le modelle nei loro studi parigini, harem in cui non avevano mai messo piede.
Fatima Mernissi in un harem c’è invece nata. Ricorda che le storie di Shahrazàd gliele raccontava sua nonna Yasmina, introducendo piccole modifiche, eresie che le rendevano ancora più sovversive.
Yasmina, ci fa sapere, era analfabeta. Come mia nonna, che, come molte delle sefardite di Istanbul fino al secolo scorso inoltrato, parlava solo ladino (il castellano viejo degli ebrei espulsi dalla Spagna nel 1500), non sapeva scrivere né in turco né in caratteri latini, non parlava ebraico, ma scriveva lo spagnolo in caratteri ebraici. Ho sentito dire che da ragazza veniva considerata una delle donne più belle di Costantinopoli, si spettegolava a non finire delle sue avventure amorose. Di harem d’oriente doveva sapere qualcosa: suo padre, il mio bisnonno, faceva il maestro di liuto per le dame del Serraglio del Sultano.
In comune con Shahrazàd aveva l’arte di raccontare favole. Shahrazàd e le sue compagne non sono invece analfabete come le nostre nonne. Sono in grado di competere con i dotti dell’islam, riescono a far prevalere la propria “immaginazione” sulle loro “verità”, la propria astuta e variopinta fantasia sul grigiore rigoroso della shari’a, la legge islamica. “Signore, conosco la grammatica, la poesia, il diritto, l’interpretazione del Corano, la filologia; conosco l’arte musicale, la dottrina religiosa, l’aritmetica, la geometria, geodesia, le leggende degli antichi. So a memoria il sublime Corano, e l’ho letto secondo le sette, dieci e quattordici scuole di lettura; conosco il numero dei suoi capitoli e dei suoi versetti, delle sue sezioni, metà, quarti, ottavi e decimi… Mi sono occupata di scienze esatte, geometria, filosofia, medicina, logica, retorica, composizione; ho imparato a memoria molti testi scientifici, sono dedita alla poesia, suono il liuto, so accompagnarlo col canto, e conosco la tecnica del pizzicare le corde. Se canto e ballo seduco, se mi adorno e mi profumo uccido…”, è il modo in cui si presenta la schiava Tawaddud (amorevolezza) al califfo che la interroga su cosa sappia fare. E così va avanti, a confrontarsi con i dotti in ogni campo dello scibile, ogni professione e ogni gioco, per pagine e pagine. Finché “Tawaddud si pose il liuto in grembo e vi appoggiò il seno, inclinandovisi sopra come una madre che allatta il bambino, poi eseguì dodici melodie, mandando in visibilio i presenti”. Come resisterle?
Non è da meno Shahrazàd, che “aveva letto i libri, le storie, le gesta dei re antichi, e le notizie dei popoli passati, tanto che si dice che avesse raccolto mille libri…”, sa discutere con competenza di tutto, qualche interprete è arrivato a dire: sin dalle prime righe delle “Mille e una notte”, ci viene presentata con credenziali quasi da ayatollah, al femminile. Shahrazàd, non fa lo strip-tease, e neppure balla come le faranno fare, in occidente, Diaghilev e Nijinsky. Giace tutta la notte col sultano, ma non è il suo sex appeal a salvarle il collo. La sua è una capacità di seduzione che va ben oltre: il sultano è la sua audience, ne appaga la concupiscenza raccontandogli, in continuazione, favole di ogni genere, per ogni gusto, qualcuna anche di cattivo gusto. Le “Mille e una notte” avevano anticipato i poteri di seduzione della narrazione, entertainment, di Hollywood e della televisione. Curioso che sia stato uno dei più grandi scrittori americani, Edgar Allan Poe, a inventare, a metà Ottocento, una “Milleduesima notte di Scheherazade”, in cui questa profetizza al suo sultano molte delle magie tecnologiche a venire, compresi il cinema e la radio, “voci tanto potenti da farsi sentire da un capo all’altro del mondo”, una lettera “scritta in qualsiasi parte del mondo” e istantaneamente “recapitata a Baghdad”. E quello, che pure aveva tollerato le altre 1001 notti di favole sul sesso, questa sulla modernità non riesce a sopportarla e finalmente la strozza.
Che sia questo il vero problema?
Da il Foglio del 8 luglio
saluti