di Brigitte L’Amour per Novopress Italia

Nonostante la tematica industriale-tecnologica sia sfruttata sin dal cinema muto in capolavori come Metropolis e Tempi Moderni, replicandosi copiosamente fino ai giorni nostri, ci interessa in questa sede affrontare quella che appare come la nuova frontiera dell’horror-multimediale, per sottolinearne, dal punto di vista sociologico, la paranoia ed il terrore che l’uomo percepisce di fronte alla massificazione dei mezzi di comunicazione.

Uno dei primi titoli che vengono in mente quando si pensa, ad esempio, al potenziale terrorifico che scaturisce da uno schermo, e’ il leggendario Videodrome. Girato nel 1983 da David Cronenberg, regista particolarmente sensibile al delirio tecnocratico, stabili’ un dogma nel sapiente utilizzo della psicosi persecutoria rappresentata dalla televisione che ritroviamo, nella scena culmine del film, come una bocca fagocitante in grado di risucchiare il povero spettatore, facendogli poi vivere una realta’ deviata e perversa da cui sara’ impossibile fuggire.
Siamo negli anni ‘80, gli Stati Uniti trascinano il primo mondo nella prosperita’ e nello yuppismo e Cronenberg non poteva scegliere metafora migliore per rappresentare il disagio materialista di cui l’uomo e’ gia’ schiavo.
Affascinato dalla follia multimediale, il cineasta canadese riportera’ sul grande schermo le paure virtuali con l’originale e controverso lungometraggio eXistenZ, datato 1999, in cui una programmatrice di videogames (Jennifer Jason Leigh) crea una consolle il cui plug-in va inserito direttamente nella colonna vertebrale del giocatore, da cui essa succhia vitalita’ ed energia creando un raccapricciante effetto putrefazione. Finzione o realta’? Il finale lascia intuire fosse tutto un esercizio mentale, ma ci crediamo?

Molto piu’ spesso l’elemento tecnologico non e’ protagonista, ma presenza costante e propagatrice di ansia e morte. E’ il caso del primo Scream (Wes Craven), in cui l’assassino si serve del telefono per angosciare le sue vittime, oppure del recente When a Stranger Calls (di Simon West, ma e’ un remake dell’omonimo film del 1976 girato da Fred Walton) in cui una giovane baby sitter viene ossessionata da un maniaco attraverso il display del telefonino.
Sempre restando nel cinema occidentale, a volte e’ internet ad uccidere, come nel caso di Feardotcom (William Malone), piccolo capolavoro stilistico, in cui protagonista e’ un sito killer che propaga morte ai suoi incauti visitatori, cosi’ come nel meno raffinato Cry Wolf (Jeff Wadlow), in cui l’assassino utilizza le e-mail di giovani studenti per seminare terrore e distruzione.
Internet e’ ancora protagonista inconfutabile nel quasi sconosciuto My little eye di Marc Evans, nel quale una serie di avidi concorrenti partecipa ad una sorta di Grande Fratello virtuale, che, naturalmente, finisce in tragedia. A loro insaputa, infatti, migliaia di spettatori si gustano on-line la loro morte, mentre i malcapitati si eliminano per un pugno di dollari.
Materialismo ed edonismo si incrociano in una spirale crudele in cui non si salvera’ nessuno.
Quando pero’ i morti si appropriano di strumenti tecnologici per operare le loro vendette o per comunicazioni moleste, allora si’ che siamo nei guoi. E’ il caso di White Noise (Geoffrey Sax) in cui un vedovo inconsolabile (Michael Keaton) non si da’ pace per la scomparsa della sua amata, la quale, pero’, stabilisce una connessione con il mondo dei vivi attraverso le registrazioni audio-video di un modernissimo impianto casalingo; peccato che nella comunicazione si inseriscano demoni e assassini che porteranno il povero Michael verso un orrendo epilogo.

Naturalmente questo non vuole essere un elenco esaustivo di tutti i film horror in cui telefoni, televisori, internet abbiano un ruolo predominante, ma solamente una breve analisi di come il fattore comunicativo-mass mediatico si sia inserito tra le paure e le fobie cinematografiche negli ultimi anni.

Se nell’horror occidentale tale fattore assume una presenza sempre piu’ costante, nel cinema asiatico ci troviamo di fronte ad una vera e propria ecatombe tecnocratica. Pellicole come Ringu e Suicide Club vertono quasi esclusivamente sul tema della multimedialita’ e della paranoia.
La trilogia Ringu* (Hideo Nakata, Norio Tsuruta) e’ forse la produzione orientale (giapponese) piu’ conosciuta all’estero, grazie anche alla stilosa versione statunitense che perde molti dettagli importanti, rappresentati nell’originale, del folclore nipponico, ma conserva il tema orrorifico centrale, ovvero, una maledizione implacabile che utilizza un doppio strumento di morte: telefono e televisore; dopo aver visionato uno spaventoso video, si riceve infatti una telefonata che avvisa: tra 7 giorni morirai.
Altri esempi di cinema horror e disagio tecnologico si riscontrano in Ju-On (anch’esso ricalcato dal The Grudge statunitense**) che narra la storia di una rancorosa vendetta che, anche se solo marginalmente, si esprime telematicamente, attraverso telefoni, fotocopiatrici e riprese video, ma anche in Old Boy (Chan-wook Park) e nel sud-coreano The Phone (Ahn Byeong-ki ), in cui una giovane vittima dialoghera’ con il mondo dei vivi attraverso internet e cellulare fino a che non le verra’ resa giustizia (atroce la scena del ritrovamento del cadavere con il telefonino arpionato nella mano).

Ma l’esempio piu’ fulgido della decandenza virtuale e lo specchio piu’ veritiero di come la societa’ moderna (nel caso specifico, quella giapponese) stia collassando di fronte all’imposizione di modelli comunicativi sempre piu’ aggressivi e lobotomizzanti e’ Jisatsu Saakuru (di Sion Sono), noto come Suicide Club, in cui una sciarada telematica portera’ al suicidio chi riesca, tramite l’impiego di strumenti tecnologici, a scoprirne il significato. La televisone, la pubblicita’, il computer ed il telefono sono onnipresenti e scandiscono la vita dei giovani studenti e dei loro stanchi e falliti genitori. In un mondo in cui gli adulti hanno perso qualsiasi credibilita’, i bambini divengono carnefici e lo fanno attraverso i mezzi che meglio conoscono: quelli virtuali. Non a caso, le star che tutti gli adolescenti ascoltano nel film e’ un gruppo formato da bambine che ballano e cantano dolci melodie in cui, pero’, incitano al suicidio. Il messaggio e’ nascosto all’interno della tastiera omologata di un qualsiasi telefono cellulare, ma e’ abbastanza forte da spingere, cosi’ banalmente, ad un gesto estremo come l’autodistruzione. Un moderno, seppur vacuo e banale seppuku.

* In realta’ il filone Ringu ha ormai raggiunto quota 6 se si considerano anche Rasen, del 1998 ed il coreano The Ring Virus, del 1999.
** Il regista di Ju-On, Takashi Shimizu, curera’ anche la versione americana