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  1. #1
    Operam non perdit
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    Predefinito il Male Assoluto / corsa al rialzo ovvero i maestri di Bush jr

    Un illuminante articolo di Carlo Panella, una lezione ad un discolo allievo, che non ha ancora imparato nulla!


    Raffaele

    ***

    George W. Bush ha sbagliato nel definire “fascisti islamici” i terroristi e i fondamentalisti musulmani. A rigor di storia avrebbe dovuto infatti definirli “islamo-nazisti”, ma è un errore veniale. E’ indubbio che, non tra l’islam in genere, ma che tra l’islam fondamentalista nelle sue varie componenti (khomeinista, wahabita e palestinese) e il nazismo vi sono stati e vi sono molti punti di contatto sul terreno dell’ideologia; sovrapposizioni fondamentali che non permettono un’identificazione meccanica, ma che legittimano la similitudine, che peraltro spiega come la reazione di Israele oggi e nel recente passato sia stata “proporzionata” al pericolo incombente. Questa, come tutte le similitudini, soprattutto quando vengono usate in politica, non dev’essere intesa in modo meccanico e assoluto. Sono evidenti le diversità tra la vita in una società come quella iraniana di oggi e la vita a Berlino alla fine degli anni 30. Meno evidenti sono le differenze con la vita nella società governata dai Talebani e da Osama bin Laden in Afghanistan prima di Enduring Freedom, resa con straordinaria efficacia letteraria dall’ottimo romanzo “Il cacciatore di aquiloni”. Questo perché, l’islamo-nazismo contemporaneo è caratterizzato da una flessibilità e da una modernità che ne fanno un sistema di riferimento duttile, non ingessato da schemi rigidi, capace non solo di basarsi sul consenso di massa, ma anche di recepire le tensioni sociali di società moderne, di assorbirle, di sterilizzarle, di governarle, come ben dimostra la successione tra la fase realpolitiker di Rafsanjani seguita da quella riformista di Khatami e infine da quella post-nazista di Ahmadinejad. Sul piano generale, delle dottrine politiche, i due sistemi ideologici sono accomunati innanzitutto da una visione similare dello stato etico, il cui fine è forgiare, indirizzare e guidare l’affermazione di un “uomo nuovo”, di un progetto di società e di umanità finalizzato. La Legge islamica fondamentalista, la norma, la sharia non sono dunque finalizzate a regolare i rapporti tra cittadini e tra questi e lo stato, ma tendono a sviluppare un progetto finalistico e salvifico, da imporre armi alla mano a tutta l’umanità, che cambi il senso della storia. Vi è qui, una differenza fondamentale, che però non cambia il segno di un percorso parallelo e che semmai aggrava ancora di più la presa del fondamentalismo islamista. Là dove infatti il nazismo e il fascismo svilupparono una concezione laica dello stato e della sua religione ed etica, l’islamismo fondamentalista e terrorista a cui si rifanno tra gli altri gli Hezbollah rappresenta l’unica ideologia rivoluzionaria con ampio seguito di massa nata nell’alveo di una religione storica. Solo Gilles Kepel, che da anni incredibilmente predice il fallimento già maturato del jihadismo per motivi che solo lui conosce, può definirlo “dalle poche centinaia di aderenti”. Nella realtà, la connotazione religiosa del totalitarismo islamico, la sua filiazione da una delle “Religioni del Libro”, il riferimento a una liturgia e a una Tradizione più che millenarie sono la base delle incredibili simpatia ed empatia che esso riscuote in tutto il mondo musulmano, ben al di là dell’avversione comune allo stato degli ebrei. Il “sistema di valori” dell’islamismo fondamentalista, inoltre, presenta un’altra differenza – ma non di essenza, di forza – rispetto al nazifascismo: non si è imposto grazie all’azione violenta di settori marginali della società, come fecero il nazismo e il fascismo (che seppero costruire consenso alla propria dittatura solo dopo la presa del potere), ma ha saputo imporsi con una rivoluzione popolare, la più popolare tra le rivoluzioni del XX secolo che trionfò in Iran nel 1979. Questa essenza rivoluzionaria, di massa, del fondamentalismo contraddistingue anche i suoi dirigenti, che alla testa di enormi mobilitazioni di popolo hanno saputo conquistare e poi difendere il potere. Ma questa dinamica rivoluzionaria e non di regime, non giacobina, è tanto potente quanto ignorata da un occidente che ha perso le sue ideologie e che non sa neanche più riconoscere e allarmarsi per le ideologie degli altri, anche quelle che lo minacciano di morte. I velleitarismi delle cancellerie europee e le fumisterie della sinistra planetaria – in primis quella italiana – a fronte dell’Iran, come di Hezbollah e di Hamas, nascono proprio da questa incapacità di “leggere” un movimento rivoluzionario in movimento che viene esorcizzato sino a pensare che possa essere imbrigliato in normali accordi politici”, come si trattasse di imbrigliare movimenti nazionalisti come tanti altri. Timothy Garton Ash, proprio sulla base di questo errore, arriva oggi a paragonare Hezbollah all’Ira irlandese e a ipotizzare quindi una sua evoluzione positiva grazie a un graduale patteggiamento sulle sue istanze nazionaliste. Ma Hezbollah, come Hamas, come Ahmadinejad e Khamenei, non ha nessun problema nazionale, ma subordina gli stessi interessi delle nazioni in cui vive, semplicemente, al Giudizio universale. Quando i Soloni politicamente corretti – tutti antiamericani quanto antisraeliani – saranno in grado di spiegare come si possa patteggiare e trattare su diverse concezioni del Giudizio universale, il problema sarà risolto. Ma, a oggi, l’impresa pare difficilina. Sia Ahmadinejad sia Hezbollah sia Hamas (e peraltro anche Osama bin Laden e Ayman al Zawahiri), con straordinaria chiarezza – inascoltati –, ci dicono da un trentennio che il punto focale che li porta “a combattere l’occidente e i cristiani e i crociati e i falsi musulmani” è il Giudizio universale. Khomeini lo spiegò già con estrema chiarezza nelle prime righe della sua Costituzione della Repubblica islamica dell’Iran, documento fondamentale per tracciare le infinite similitudini (e le poche differenze) tra nazismo e fondamentalismo islamico (inutilmente avversato dagli ayatollah moderati, spazzati via dall’Imam): “La Repubblica islamica è un sistema che si basa sulla fede in: 1 – Un Dio Unico (La Ilaha Ilallah), nella sua sovranità esclusiva, nei suoi comandamenti e nella necessità di sottomettersi al suo ordine. 2 – La Rivelazione Divina e il suo ruolo fondamentale nella formazione delle leggi. 3 – Il Giorno del Giudizio Finale e nel suo ruolo costruttivo nell’evoluzione perfettibile degli uomini verso Dio. 4 – La Giustizia di Dio nella Creazione e nei comandamenti. 5 – L’imamato, la sua direzione permanente e il suo ruolo fondamentale nello sviluppo continuo della Rivoluzione islamica. 6 – La dignità e il valore supremo dell’uomo e della sua libertà, così come della sua responsabilità verso Dio.” Il combinato disposto della sovranità esclusiva di Allah e dell’Imamato del suo esercizio vicario a opera di un Giureconsulto segna un’affinità straordinaria, dal punto di vista concettuale, con l’elemento cardine del nazismo: il Fürherprinzip. Il potere, tutto il potere, in Iran è concentrato nelle mani del Rahbar, della guida della Rivoluzione, vicario di Dio, incarnazione dello stato etico, che dispone di tutto il potere monocratico nella politica estera, nella politica giudiziaria, nella politica militare, e che ha pieni e totali poteri sovraordinati a un esecutivo apparentemente elettivo, in realtà espressione solo dell’umma musulmana. Hezbollah libanese è ugualmente e volontariamente sottoposto a questo Fürherprinzip e si propone come proiezione internazionale della rivoluzione islamica iraniana, agli ordini dell’ayatollah Khamenei, di cui Sayyed Nasrallah è soltanto il “rappresentante in Libano”. Umberto Eco ci aiuta poi a focalizzare un altro fondamentale punto di contatto tra islamismo fondamentalista e nazismo: “C’è una componente dalla quale è possibile riconoscere il fascismo allo stato puro, dovunque si manifesti, sapendo con assoluta certezza che da quelle premesse non potrà venire che ‘il fascismo’, ed è il culto della morte”. Questo culto naturalmente si presentava in forma laico-nichilista nel nazifascismo, mentre vive come riproposizione gnostica nello scisma martirologio khomeinista. L’ideologia dello shahid esalta infatti la “bella morte”, non come delirio di onnipotenza dell’individuo superiore e quindi eroico, ma all’interno di un perfetto schema neoplatonico: uccidendo e negando la propria materia umana con la dinamite, il martire compie un completo percorso di conoscenza del divino e diventa pura luce, proprio perché distrugge la polarità diabolica della materia di se stesso e contemporaneamente delle sue vittime infedeli, siano essi cattivi musulmani, cristiani e – soprattutto – ebrei. Questa “religione della morte” è, nel nazismo come nel fondamentalismo, intrecciata con la “religione della guerra”, la considerazione ideologica del conflitto armato come bene in sé, la scelta di purificare la società e l’individuo non nella vita civile, ma impegnandolo, con tutta la società, in una guerra permanente con gli “infedeli”, in una dimensione che il nazismo esaltava col “ruolo salvifico della guerra” e che il fondamentalismo esalta col suo crescente jihadismo. Nell’uno e nell’altro caso si ha la fine della politica – sia sul piano interno sia su quello estero – e il predominio dei rapporti di forza violenti e di deflagrazioni belliche devastanti, intervallate mai dalla pace, ma solo da tregue. Una mistica della guerra come “bene supremo” che enfatizza – altro punto in comune tra le due ideologie – il miraggio dell’“arma finale”. Il senso della politica atomica iraniana, ben più e ben prima del possesso effettivo della bomba A, è tutto nell’“effetto annuncio” dell’arma finale. E’ l’anticipazione dello strumento per scatenare il Giudizio universale, la molla che fa scattare un jihad che – come si è visto in Libano – non è tanto ingenuo da puntare le sue carte su una banale deterrenza o su un impiego effettivo della bomba. L’effetto annuncio serve a motivare lo scatenamento di una serie di azioni militari del tutto tradizionali (esattamente come fece l’Urss negli anni settanta e ottanta in Africa e Asia, sotto copertura atomica), in una logica non più di guerra tradizionale nasseriana ma di guerriglia da bunker e di attentati, magistralmente messa in atto dagli iraniani nel Libano del sud, con lo scopo non di ottenere lo stato dei palestinesi (che i fondamentalisti dall’epoca del Gran Muftì rifiutano) ma di distruggere lo stato degli ebrei. L’antisemitismo nel fondamentalismo islamico è infatti strutturale, portante, esattamente come lo era nel nazismo. Identica è la concezione dell’ebreo nelle due ideologie, perché il giudeo è nemico della umma come della Deutsche Gemeinschaft in quanto portatore di complotto, secondo un’interpretazione dell’archetipo politico maomettano che ha le sue radici nei presupposti complotti ebraici che il Profeta combatté alla Medina e che lo spinsero a ordinare la strage degli ebrei Banu Quraizah, sgozzati in 650 nel 627 d. C. con una liturgia che i terroristi iracheni ci hanno riproposto via al Jazeera, tagliando la gola al giovane ebreo americano Daniel Pearl. Vi sono mille e mille prove storiche della radicalità di un profondo antisemitismo musulmano, ma tra queste la più importante – però la più trascurata da quanti si aspettano un’evoluzione positiva di Hamas – è il definitivo legame tra Giudizio universale e sterminio di tutti gli ebrei. Pure, questo rapporto salvifico tra l’Avvento del Regno di Allah, vittoria universale dell’Islam e sterminio hitleriano di tutti gli ebrei, questa invocazione di una nuova shoah apocalittica è riportato con chiarezza e con enfasi nello statuto di Hamas, a dimostrazione di come il problema sia ben più radicale che non il mancato riconoscimento dello stato di Israele: “L’Ultimo Giorno non verrà finché tutti i musulmani non combatteranno contro gli ebrei, e i musulmani non li uccideranno e fino a quando gli ebrei si nasconderanno dietro una pietra o un albero, e la pietra e l’albero diranno: ‘O musulmano, o servo di Allah, c’è un ebreo nascosto dietro di me – vieni e uccidilo’, ma l’albero di Gharqad non lo dirà, perché è l’albero degli ebrei (Hadith riferito da al- Bukhari e da Muslim)”. Là dove l’indiscutibile antisemitismo storico cristiano è sempre stato vincolato a San Paolo e Sant’Agostino, che legavano l’Ultimo Giorno alla conversione dell’ultimo ebreo, Hamas e i Fratelli musulmani disegnano invece un finalismo, un senso teologico della storia che ha nell’uccisione dell’ultimo ebreo il suo estremo sigillo. Che ci si spieghi come sia possibile una trattativa politica con chi ha questa visione del mondo e dell’umanità e ci accoderemo alle critiche al governo di Gerusalemme per la “sproporzione” delle sue risposte. Di nuovo, nozze piene tra nazismo e fondamentalismo – ma qui anche col cosiddetto “Islam moderato” – quanto a diritti delle donne. Solo i “dialogatori cattolici postconciliari” sono riusciti a non accorgersene, ma in tutto l’Islam contemporaneo, salvo fazioni minoritarie, la donna gode di pieni diritti solo quanto ad anima. Per il resto, quanto al suo corpo, nella pòlis, quale cittadina, essa è sottoposta a un dimidiamento dei diritti che è insanabile, perché discende da un principio indiscutibile: l’autorità tutoria dell’uomo. Concetto così sviluppato dal fondamentalista italiano Hamza Piccardo nel suo commento al Corano a cura dell’Ucoii (130 mila copie vendute): “Oltre alla complementarietà tra uomo e donna, c’è un problema di guida, nella famiglia e nella società, che non significa predominio, oppressione o disconoscimento della prevalenza femminile in una quantità di settori e circostanze. Allah affida questo ruolo dirigente al maschio. E’ un compito gravoso e difficile, di cui l’uomo farebbe volentieri a meno e di cui è tenuto a rispondere davanti ad Allah”. E’ qui, in questo “ruolo dirigente del maschio”, il nodo teologico-giuridico da cui discende tutta la legislazione repressiva nei confronti della donna. Sempre Hamza Piccardo, che ha fama, immeritata, di essere un “moderato”, dà prova del paradosso del suo riformismo fondamentalista là dove indica che la donna non è solo esposta al ripudio dell’uomo, ma che, in fondo, anche essa può scegliere il divorzio. Naturalmente, però, a differenza dell’uomo, essa deve “pagare” questa sua scelta, essendo una mezza cittadina, “offrendo una compensazione economica”. Poligamia, divieto di nozze con ebrei o cristiani, valore dimezzato delle testimonianze in tribunale, necessità del permesso del tutore maschio per le nozze, quote ereditarie dimidiate rispetto ai coeredi, e la stessa imposizione del velo derivano da questa “autorità tutoria” dell’uomo (la femmina deve coprire le sue zone erogene perché, a differenza del maschio, non è capace di gestirne l’impatto sociale). Infine, ma non per ultimo, l’ossessione dell’apostasia costituisce un ulteriore legame tra il “progetto di stato” islamico e quello nazista. In quasi tutto l’islam contemporaneo, infatti, il divieto di proselitismo da parte dei cristiani consegue alla proibizione assoluta per il musulmano di abbandonare la umma. Un divieto che deriva dall’inscindibile unità tra patto sociale e patto con Allah: il cittadino che abbandona la fede viola per ciò stesso il patto di cittadinanza della pòlis e quindi va punito. Divergono solo le pene per questo reato che ovviamente nega qualsiasi liceità della pratica del libero pensiero: in Iran, Pakistan, Yemen, Sudan e negli Stati islamici della Nigeria la pena è la morte, nella “laica” Algeria una legge del 2006 punisce con due anni di carcere e 10 mila euro di multa ogni atto di proselitismo, altrove le pene variano (l’Ucoii italiana, al riguardo, pare essere moderata, anche se permane il divieto di pratica del libero pensiero). E’ questa, dunque, la riproposizione di uno stato governato da una Santa Inquisizione, in cui il tradimento dell’ideologia del regime equivale al tradimento della patria, con conseguente punizione del reo. E’ la riproposizione di uno stato concentrazionario. Tanto basta, più che a dare ragione a George W. Bush, a definire una “chiave interpretativa” del fenomeno fondamentalista e terrorista islamico che spiega come le strade della politica, della trattativa, del compromesso non riescano mai a imporsi nei conflitti tra islam e occidente e illustra anche le ragioni per cui – come urlò Jibril Rajoub a Yasser Arafat nel 2003 – quello palestinese è assolutamente l’unico movimento di liberazione nazionale del ’900 che non sia riuscito a conseguire il suo obbiettivo

    Carlo Panella

  2. #2
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    Ha imparato perfettamente come si sta al mondo: " se il padrone dice " 10" , tu devi dire "20", se il padrone dice "20" tu devi dire " 40"
    La famosa artista idolo delle folle :" si figuri che uno ha addirittura scritto che avrei dovuto investire i MIEI soldi comprando un bar! Io!!!! La barista!!!!"

  3. #3
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    Predefinito

    Citazione Originariamente Scritto da shambler
    Ha imparato perfettamente come si sta al mondo: " se il padrone dice " 10" , tu devi dire "20", se il padrone dice "20" tu devi dire " 40"
    Tragicamente vero!

    Raffaele

  4. #4
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    Predefinito da Lotta Continua al B'nai B'rith




    Sono nato il 24 luglio 1948 a Genova; per giorni mia madre aveva temuto che le doglie arrivassero mentre le strade per l’ospedale erano ingombre di barricate a seguito dell’attentato a Togliatti. Quando nacqui, scoprii che invece che di rivoluzione, come mi aspettavo, si parlava solo di Bartali al Tour de France. Un qui pro quo che avrebbe segnato la mia vita sino alla maturità. Sarei peraltro immediatamente finito, dritto diritto, nelle statistiche di mortalità infantile per una broncopolmonite, se non fossi stato salvato per un pelo dalla penicillina appena inventata di cui fioriva, peraltro, un redditizio contrabbando.
    Mio padre mi tirò su facendomi leggere il Giorno di Italo Pietra, Il Mondo di Pannunzio, Il Borghese di Leo Longanesi, l’Espresso di Arrigo Benedetti e Epoca di Missiroli e tanti saggi.
    Mia madre mi passava romanzi su romanzi.
    Quando si trattò di scegliere la lingua straniera mia madre fu icastica: “Il francese! L’inglese è lingua da bottegai”.
    In famiglia non volevano arrendersi alla banale constatazione che il mondo era nelle mani dei bottegai.
    Gravissimo neo nella mia educazione: non so ballare, sempre a causa dell’interdetto materno circa lo stile di vita dei bottegai..
    Liceo classico Doria.
    Nel 1966 a Firenze alluvionata; c’è anche Massimo D’Alema, compagno di scuola, non di classe.
    Nel 1966 a chiedere le rappresentanze di istituto, dopo lo “scandalo “Zanzara”, c’è anche Massimo D’Alema. Naturalmente non se ne fa nulla.
    Il 5 novembre 1967, primo giorno d’università e quindi primo giorno d’occupazione: il “68” a Genova nasce settimino. Segue movimento studentesco.
    Sono nato il 24 luglio 1948 a Genova; per giorni mia madre aveva temuto che le doglie arrivassero mentre le strade per l’ospedale erano ingombre di barricate a seguito dell’attentato a Togliatti. Quando nacqui, scoprii che invece che di rivoluzione, come mi aspettavo, si parlava solo di Bartali al Tour de France. Un qui pro quo che avrebbe segnato la mia vita sino alla maturità. Sarei peraltro immediatamente finito, dritto diritto, nelle statistiche di mortalità infantile per una broncopolmonite, se non fossi stato salvato per un pelo dalla penicillina appena inventata di cui fioriva, peraltro, un redditizio contrabbando.
    Mio padre mi tirò su facendomi leggere il Giorno di Italo Pietra, Il Mondo di Pannunzio, Il Borghese di Leo Longanesi, l’Espresso di Arrigo Benedetti e Epoca di Missiroli e tanti saggi.
    Mia madre mi passava romanzi su romanzi.
    Quando si trattò di scegliere la lingua straniera mia madre fu icastica: “Il francese! L’inglese è lingua da bottegai”.
    In famiglia non volevano arrendersi alla banale constatazione che il mondo era nelle mani dei bottegai.
    Gravissimo neo nella mia educazione: non so ballare, sempre a causa dell’interdetto materno circa lo stile di vita dei bottegai..
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    Nel 1966 a Firenze alluvionata; c’è anche Massimo D’Alema, compagno di scuola, non di classe.
    Nel 1966 a chiedere le rappresentanze di istituto, dopo lo “scandalo “Zanzara”, c’è anche Massimo D’Alema. Naturalmente non se ne fa nulla.
    Il 5 novembre 1967, primo giorno d’università e quindi primo giorno d’occupazione: il “68” a Genova nasce settimino. Segue movimento studentesco.
    Sono nato il 24 luglio 1948 a Genova; per giorni mia madre aveva temuto che le doglie arrivassero mentre le strade per l’ospedale erano ingombre di barricate a seguito dell’attentato a Togliatti. Quando nacqui, scoprii che invece che di rivoluzione, come mi aspettavo, si parlava solo di Bartali al Tour de France. Un qui pro quo che avrebbe segnato la mia vita sino alla maturità. Sarei peraltro immediatamente finito, dritto diritto, nelle statistiche di mortalità infantile per una broncopolmonite, se non fossi stato salvato per un pelo dalla penicillina appena inventata di cui fioriva, peraltro, un redditizio contrabbando.
    Mio padre mi tirò su facendomi leggere il Giorno di Italo Pietra, Il Mondo di Pannunzio, Il Borghese di Leo Longanesi, l’Espresso di Arrigo Benedetti e Epoca di Missiroli e tanti saggi.
    Mia madre mi passava romanzi su romanzi.
    Quando si trattò di scegliere la lingua straniera mia madre fu icastica: “Il francese! L’inglese è lingua da bottegai”.
    In famiglia non volevano arrendersi alla banale constatazione che il mondo era nelle mani dei bottegai.
    Gravissimo neo nella mia educazione: non so ballare, sempre a causa dell’interdetto materno circa lo stile di vita dei bottegai..
    Liceo classico Doria.
    Nel 1966 a Firenze alluvionata; c’è anche Massimo D’Alema, compagno di scuola, non di classe.
    Nel 1966 a chiedere le rappresentanze di istituto, dopo lo “scandalo “Zanzara”, c’è anche Massimo D’Alema. Naturalmente non se ne fa nulla.
    Il 5 novembre 1967, primo giorno d’università e quindi primo giorno d’occupazione: il “68” a Genova nasce settimino. Segue movimento studentesco.
    Nel 1969 per tre mesi ai cancelli della Fiat durante gli scioperi selvaggi, guerriglia urbana di viale Traiano inclusa.
    Nel 1970 in Lotta Continua
    Tra il 1970 e 1l 1972, subito dopo la distribuzione dei volantini alla Chiamata del Porto o all’Ansaldo Meccanico, all’Archivio di Stato a aprire filze di atti notarili del quattrocento, spesso intonse. Tutti i passaggi della proprietà e della lavorazione della seta, venivano infatti registrati in rogiti notarili, così che è possibile ricostruire tutto il ciclo produttivo e economico dei velluti e tentare di risolvere un piccolo giallo storico: nel giro di pochi anni infatti, Genova passa dall’essere la più grande città industriale d’Europa con decine di migliaia di telai, alla crisi più nera, soppiantata dalla produzione di Liegi.
    Più tardi mi renderò conto che ho imparato il mestiere di giornalista macinando migliaia di quei papiri impolverati
    8 marzo 1972, viene emesso dal giudice Mario Sossi un mandato di cattura a mio carico per minuscoli incidenti di piazza nel corso di una manifestazione dalla parola d’ordine “Valpreda è innocente”: mi vengono addebitate 15 violazioni del codice penale
    Latitante in Germania, a fianco del gruppo Revolutionärer Kampf di Joscka Fischer e Daniel Cohm Bendit, organizzo l’occupazione delle case di Francoforte da parte degli immigrati italiani.
    1974: condannato a 4 anni e tre mesi di carcere senza condizionale, per avere organizzato gli incidenti di Genova, nonostante il capo e il vice capo della Digos (tutt’oggi mio caro amico) abbiano testimoniato di non avermi mai visto nel corso degli affrontamenti e che il Pm avesse chiesto l’assoluzione per insufficienza di prove.
    “ Se il Panella non avesse partecipato attivamente alle azioni violente avrebbe perso la faccia davanti ai suoi seguaci”: questa la motivazione della mia colpevolezza scritta in sentenza.
    Deciso a non presentarmi in Appello, cambio idea quando leggo su Epoca che una mano birichina del Ministero degli Interni aveva aggiunto al mandato di cattura internazionale a mio carico la frase: “Dirigente delle Brigate Rosse, elemento pericoloso, gira armato”. Il mio nome figura subito dopo quelli di Renato Curcio e di Roberto Franceschini quale capo delle Br.
    Mi hanno costruito “il cappotto”. A conoscenza della mia latitanza in Germania, hanno fatto di me a tavolino, l’ufficiale di collegamento tra Br e Raf.
    Scelgo l’unica strada per disinnescare la trappola: mi presento in Tribunale al processo d’Appello.
    Vengo assolto dai 4 anni e tre mesi di pena che mi erano stati comminati e naturalmente verifico che non vi è neanche un’istruttoria a mio carico per quanto riguarda le Br.
    Laureato con 110 e lode per la mia tesi sull’industria serica a Genova nel XV° secolo, mi trasferisco in Portogallo (in cui già ero stato negli ultimi mesi di latitanza) e seguo per il quotidiano Lotta Continua l’epilogo della Rivoluzione dei Garofani.
    Nel 1976 nasce mia figlia Sarah e mi trasferisco a Roma.
    Autoscioltasi Lotta Continua nel Congresso di Rimini del 1976, assieme a Enrico Deraglio, Andrea Marcenaro, Gad Lerner, Franco Travaglini, Alex Langer, Checco Zotti, Franca Fossati, Paolo Liguori, Giorgio Albonetti, Paolo Brogi e altri, partecipo alla trasformazione di Lotta Continua da giornale di partito in un quotidiano quasi normale.
    Mi occupo di esteri, viaggio molto in Europa.
    Dal novembre 1978 al marzo 1979 mi trasferisco a Teheran per seguire la rivoluzione contro lo scià, anche grazie ad una colletta organizzata dagli iraniani di Milano, tramite Radio Milano Popolare, di cui sono corrispondente.
    Gli dei si danno un gran daffare per salvarmi la vita in due o tre occasioni.
    Ritorno in Iran per due mesi nell’autunno 1980 allo scoppio della guerra con l’Iraq.
    Nel 1981 Lotta Continua sommersa dai debiti, nonostante i generosi contribuiti di Bettino Craxi, del Partito Radicale (e i più contenuti aiuti del Pci), chiude. Si forma un esclusivo circolo di galantuomini che passerà alcuni anni a pagare di tasca propria le partite più scabrose del fallimento. Assieme a Enrico Deaglio progetto un nuovo quotidiano, Reporter, che Claudio Martelli fa finanziare da imprenditori a lui vicini. Reporter dura solo poco più di un anno e chiude le pubblicazioni nell’aprile del 1986.
    Per sei anni lavoro in varie trasmissioni televisive di Giuliano Ferrara (Il testimone, Il Gatto, l’Istruttoria) e della Rai Tre di Angelo Guglielmi (Storie Vere e La mia guerra).
    Nel 1992 Emilio Fede mi assume al Tg4.
    Nel 1993 nasce mio figlio Carlo, Duddù.
    Nel 1994 passo a Studio Aperto di Paolo Liguori.
    Collaboro sin dal primo numero al Foglio di Giuliano Ferrara. Fino all’11 settembre seguo la politica parlamentare, dal 2001 torno ai miei vecchi interessi mediorientali.
    Nel 2002 passo alle Tribune Politiche di Mediaset di Piero Vigorelli.
    Al momento dell’incarcerazione di Adriano Sofri, nel 1996, faccio uno sciopero della fame di 30 giorni.
    Nel 2000 sono molto contento per l’effetto della dieta dimagrante che mi sono inventato.
    Invece è un cancro.
    Oggi, nessuna compagna di assicurazione è disposta a stipulare una polizza vita a mio favore, ma per il resto, pare che ce l’abbia fatta.


    I miei Libri:
    Nel 1989 Elivira Sellerio pubblica il mio primo romano: Il Verbale.
    Nel 1995 Mondadori pubblica il mio secondo romanzo “Amare e fuggire”.
    Nel 1998 sempre Mondatori pubblica un saggio scritto assieme e Giuseppe Gargani sulla crisi della giustizia: “Nel nome dei pubblici ministeri”
    Nel 2002 esce negli Oscar Mondatori “Il piccolo Atlante del Jihad”.
    Nel 2003 Piemme pubblica “Saddam” e “I piccoli martiri assassini di Allah”.
    Nel 2004 assieme a Franco Frattini scrivo per Piemme “Cambiamo rotta, la nuova politica estera dell’Italia”
    Nel 2005 Lindau pubblica “L’antisemitismo islamico da Maometto a Bin Laden”
    Nel 2006 Rizzoli pubblica "Il libro nero dei regimi islamici".

  5. #5
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