Duro j’accuse dei militari israeliani. Bufera sul premier Olmert, aperta inchiesta sul conflitto. Autocritica dei generali
di Umberto De Giovannangeli
RABBIA. SCONCERTO. Indignazione. In Israele esplode la «rivolta dei riservisti». Israele assiste sgomento e inquieto alla protesta dei reduci dal fronte libanese contro i dirigenti politici e militari dello Stato ebraico per come la guerra è stata condotta. La stampa
ha dato ieri grande risalto alla lettera aperta la governo firmata da centinaia di riservisti rientrati dal Sud Libano. Quella lettera è un lucido, appassionato, drammatico j'accuse rivolto contro i vertici governativi e quelli di Tzahal. «Ai livelli sopra di noi - denunciano i riservisti - c'era solo impreparazione, insincerità, mancanza di acume, incapacità di prendere decisioni razionali». Tutto ciò, affermano i soldati, «ci conduce ad una domanda: siamo stati chiamati per nulla?». I firmatari della lettera chiedono una commissione d'inchiesta di Stato sulla conduzione della guerra da parte del governo Olmert e dei comandi militari. Una richiesta analoga è già stata avanzata dall'opposizione.
Una prima risposta istituzionale è venuta ieri dal giudice Micha Lindestrauss, il controllore di Stato israeliano. Il giudice Lindestrauss ha annunciato ieri di aver ordinato al suo ufficio di aprire un'inchiesta sulla conduzione della guerra in Libano. La rabbia dei reduci «scende in piazza«. Ieri hanno marciato a Gerusalemme, hanno eretto tende davanti al parlamento, hanno innalzato cartelli, richiesto a gran voce le dimissioni del premier Olmert, del ministro della Difesa Peretz, del capo di stato maggiore Halutz, scritto altre lettere ai giornali: «Alla prossima guerra ci saremo ancora - assicurano - ma qualcosa deve cambiare perché quel giorno da quella guerra vogliamo tornare vivi». «Abbiamo peccato di arroganza - ha dichiarato nei giorni scorsi davanti alle sue truppe il colonnello Yossi Hayman, comandante di un reparto di fanteria - . Io stesso l'ho fatto e ammetto le mie colpe. Io sono colpevole di non aver saputo addestrare adeguatamente i miei soldati alla guerra». È un'autocritica spietata, coraggiosa, e il colonnello Hayman non è il solo a farla. «Molti di noi - prosegue - parlano con toni patetici e usano termini confusi solo per nascondere la propria ignoranza militare e la mancanza di competenza, e tutto questo mentre il nostro nemico cresce, diventando più forte e professionale». Ufficiali e soldati semplici della brigata di riservisti «Hod Hehanit» hanno scritto una lettera aperta al ministro della Difesa e al capo di stato maggiore, chiedendo che nella prossima guerra i vertici delle forze armate imparino a dare ordini più precisi «e a non cambiarli improvvisamente in mezzo alla battaglia» come accaduto contro gli Hezbollah. L'accusa è chiara: chi doveva decidere non decideva o decideva male. «Non c'era una guida in battaglia e nessuno sapeva davvero cosa stessimo facendo - denuncia Ronny Tzvigenbaum, uno dei riservisti che ha organizzato il sit-in davanti al parlamento -. La mattina ci dicevano che stavamo andando verso il villaggio A, il pomeriggio cambiavano idea e ci dirottavano verso il villaggio B». Naturalmente a piedi, risalendo le colline del Sud Libano, con la minaccia costante di veder saltare fuori da un bunker sotterraneo un miliziano Hezbollah. «Si restava per ore in territorio ostile senza ordini e senza combattere - denunciano altri militari - e le informazioni di intelligence erano talmente scarse che quasi mai si sapeva in anticipo cosa davvero avremmo trovato». Altri riservisti sostengono che proprio la mancanza di ordini chiari e di informazioni sicure li costringeva «a sparare come fossimo ciechi». Anche i riservisti della brigata «Aleksandoni», quelli sulla prima linea di Zarit che hanno avuto due commilitoni rapiti il 12 luglio ed altri 8 uccisi da un commando di Hezbollah, anche loro protestano. «Lei ci ha impedito di vincere la guerra» hanno scritto su un cartellone esibito senza imbarazzo durante un incontro con il capo di stato maggiore Dan HalutzAltri riservisti sostengono che proprio la mancanza di ordini chiari o di informazioni sicure li costringeva «a sparare come fossimo ciechi».
Ma non sono solo i reduci dalla guerra in Libano ad alzare la voce contro l'«inettitudine» di chi ha deciso e condotto il conflitto bellico. Ehud Olmert ne ha avuto la riprova ieri quando nel corso di una visita al Nord di Israele, bersagliato nei 34 giorni di guerra da oltre 4mila razzi sparati dagli Hezbollah, è stato duramente contestato dalla popolazione di Kiryat Shmona, una delle cittadine più colpite dai katyusha. «Voglio poterlo guardare negli occhi e dirgli: signor primo ministro io ho votato per lei e me ne pento amaramente. Se ha un briciolo di dignità dovrebbe dimettersi». E non sono il solo a pensarla così, dice Yacov Rosenbaum, residente a Kiryat Shmona. Incontrando il premier, diversi membri del consiglio municipale hanno espresso il senso di abbandono della popolazione di Kiryat Shmona. «Dov'era, signor primo ministro? - ha chiesto a Olmert il consigliere Yigal Buzaglo - Perché non ha avuto cura di noi?». Una domanda pesante come un macigno. Che si abbatte su un governo che sembra dividersi anche sulla strategia negoziale da intraprendere.
In seno all'esecutivo israeliano sono emerse ieri divisioni sull'ipotesi di avviare un dialogo con la Siria, nel dopo guerra in Libano. La ministra degli Esteri Tzipi Livni l'altro ieri ha dato mandato ad uno dei piu'esperti diplomatici dello Stato ebraico, Yaakov Dayan, di esplorare la possibilità di avviare contatti con Damasco. Ma il vice premier Shimon Peres è di parere opposto e ieri ha dichiarato di non ritenere «giunta l'ora per un dialogo di questo genere». E lo stesso Olmert ha affermato di non essere favorevole a un dialogo con Damasco.